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A colloquio con Boris Sollazzo sul ruolo della critica cinematografica

LA FUNZIONE DELLA CRITICA SECONDO BORIS SOLLAZZO:
UN ESPERTO DI CINEMA CHE CREDE NELL’UTILITÀ DEL DIALOGO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

La dialettica tra critici e registi cinematografici è fondamentale per Boris Sollazzo, attivissimo nel commisurare attenti giudizi sulla vicendevolezza di spettacolo, cultura ed elementi segnaletici. In qualità di collaboratore di “Ciak”, “Film Tv”, “Panorama”, “Rolling Stone”, sul piccolo schermo, per La Rosa Purpurea del Cairo su Radio24 e sull’amata Radio Rock. È importante perciò comprendere il destinatario a cui la recensione si rivolge. I guasti della grancassa non lo lasciano indifferente. Distinguere tra cinema d’autore e cinema commerciale lascia il tempo che trova. Almeno a parer suo. È molto più urgente evitare di confondere le kermesse con i festival. Stimolare gli spettatori in termini intellettuali è compito fondamentalmente del regista. L’aura contemplativa, insieme al valore drammatico ed evocativo connesso alla scrittura per immagini, con certi movimenti di macchina e i piani-sequenza che esercitano un ascendente indiscutibile sugli amanti della fabbrica dei sogni, racchiude il mistero dell’arte. Meglio ancora: della Settima Arte. Come il decano dei critici nostrani, Ricciotto Canudo, ribattezzò l’invenzione dei fratelli Lumière.

Dispositio ed elocutio costituiscono gli strumenti per andare oltre il rischio dell’impressionismo soggettivo e fornire all’intelaiatura argomentativa la capacità di veicolare l’interesse dei lettori sul rapporto tra immagine e immaginazione. Solo così si può capire se gli autori, anche i presunti tali, se la sono cavata in modo onesto, se non altro, o hanno barato ponendo in essere solo ed esclusivamente degli esercizi di stile.

Lo stesso critico deve evitare, come la peste, gli sfoggi di cultura. Nessuno vuole leggere dissertazioni ampollose bensì capire appieno percorsi creativi ed estri rivelatori scambiati erroneamente per tecnicismi. L’ammirazione nei riguardi dei fuoriclasse della categoria, da Guido Aristarco a Giovanni Grazzini, è evidente, perché con le loro puntuali analisi, arricchite dall’alta densità lessicale nonché dalla fragranza creativa di alcuni modi di dire, hanno permesso di anteporre ai cascami infruttuosi della critica impressionistica, invalidata dalle impostazioni ideologiche agli antipodi, le risorse della critica formalistica.
Capace di trascendere le fatue discipline di fazione. La funzione terapeutica dell’umorismo è quindi, secondo lui, l’antidoto migliore sia alla vanagloria di chi individua i contenuti in pellicole poco comprensibili alle masse meno avvertite sia ai vanesi che pensano di esprimere il loro mondo interiore con i dispositivi della prosa per poi vedere le stelle, senza però i pallini cari ad Aristarco, alla prima stroncatura. Nemmeno l’ironia è un pozzo di San Patrizio; tuttavia riconduce le derive maniacali della cinefilia, simili a quelle del ridicolo Guidobaldo Maria Riccardelli di Fantozzi, nell’ordine naturale delle cose.
Il vivido ricordo della sagacia dolceamara di Mattia Torre – il geniale commediografo, scomparso lo scorso 19 luglio, che seppe concepire con l’arguto libro “La linea verticale”, tradotto in indimenticabile serie televisiva, un funerale con “aneddoti anche divertenti, che uniscano cioè allo strazio quella nota comica che rende il dolore ancora più insopportabile” – gli inumidisce l’occhio. La malinconia cede nondimeno il posto a dei sinceri sorrisi quando pensa alla sottigliezza impiegata dall’ingegnoso defunto nel trasformare la virtù di far riflettere spassosamente e di far ridere amaramente in un trascinante trasferimento dell’anima. Al quale la tragedia greca fa un baffo. D’altronde la parola, sempre ellenica, kinema presuppone il movimento ed ergo il trasferimento. Di sapere e di trepidazione. È difficile pensare a un lascito più prezioso. Da conservare con attaccamento per tutto ciò che rappresenta. A dispetto dell’inane voluttà di progresso. Un altro nume tutelare che manda a carte quarantotto qualunque arzigogolo, incapace di cavare un ragno dal buco, è Anton Ego. Il critico culinario di Ratatouille.

La sua confessione nell’epilogo dello splendido cartone animato, sottovalutato dai falsi esperti ignari dei risultati raggiunti sin dai primordi dal teatro ottico grazie ai precursori Oskar Fischinger ed Émile Reynaud, è un vero toccasana. Al pari dell’immediatezza espressiva di Steven Spielberg che non toglie nulla allo status di autorialità rinvenibile nell’ampissima gamma di echi e controechi congiunti all’alfabeto filmico.
In questo contesto non si può liquidare in poche righe il lavoro collettivo necessario per realizzarlo, appunto, un film. Perché dietro non c’è soltanto un regista, eletto al rango di autore ed ergo di demiurgo, bensì una faccenda di squadra dove rientrano tante qualifiche ed eterogenee incombenze. Quindi il giudizio critico non attiene alla Corte di Cassazione: se è sorretto dalla purezza di cuore e dal senso di responsabilità, specie nei confronti del vasto mix di gusto ed emotività, allarga le prospettive dei fruitori. Non è poco. Anzi. 

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1). D / Credi nell’utilità del dialogo tra critici e registi?
R /
Invece di pensare a unico schermo dove entrambi rivolgono lo sguardo, bisogna immaginarne un altro visto da due angolazioni differenti che possono però confluire in un confronto proficuo. Penso ad Aristarco e a Giovanni Grazzini (nella foto): critici di livello in grado di stabilire una dialettica fondamentale con gli autori cinematografici. Inventando pure modi di dire capaci di lasciare un segno indelebile nella Storia. Grazzini, in particolare, sulle pagine del Corriere della Sera, coniò la definizione di “angeli del fango” riferendosi alle persone, provenienti da tutte le parti d’Italia, che prestarono soccorso, a seguito dell’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, per salvare dal pantano libri e opere d’arte. Oggi, purtroppo, c’è meno interesse da parte dei registi per la speculazione teorica e la competenza dei critici si è drasticamente abbassata rispetto ai maestri citati. Con l’avvento dei social e dei leoni da tastiera non esiste più un giudizio medio. Un film o è un capolavoro o una schifezza. Sennò la recensione non viene letta. Non fa i clic sperati.

2) D / In un film poco conosciuto, diretto da Harold Becker, City Hall, Al Pacino, nei panni di un politico che scende a compromessi per preservare il suo incarico, identifica nel grigio il colore che sta tra il bianco e il nero. Oggi nei criteri di giudizio dei critici manca questo?
R /
È proprio quello che non c’è oggi nella funzione del critico con le nuove tecnologie. Preferendo nelle recensioni sulla rete un atteggiamento superficiale ed estremizzato non si fa altro che inasprire, dall’altra parte, i registi che, pure per insicurezza, diventano aggressivi e permalosi. Comunque, per finire di rispondere alla domanda, dovrebbe esserci un dialogo tra critici e registi ma, anche per le ragioni elencate, ora come ora manca. Ed è davvero un peccato.

2 ) D / François Truffaut in un articolo pubblicato su “Arts” nel 1955 – “I sette peccati capitali della critica” – mise in luce gli affanni di una professione definita “ingrata, difficile e poco nota”. Allora, in realtà, il mestiere del critico, che conosceva il processo creativo dell’opera cinematografica, era riconosciuto come utile. Oggi, no. La ragione è dovuta alle continue trasformazioni e involuzioni?
R /
Ma anche prima, a ben guardare, ai dieci critici dei giornali più influenti, con un’ampia visibilità, corrispondevano una gran quantità di sostituti che firmavano gli articoli ‘vice’. Il mestiere del critico, volendo citare Anton Ego (nella foto) in Ratatouille, “prospera grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere”. L’unico modo per uscire dall’impasse, determinato dal fatto che “anche l’opera più mediocre ha molto più anima del giudizio che la definisce tale”, è dare spazio a qualcosa a cui gli altri non danno spazio.

3). D / Ricordo bene: ci sono occasioni in cui un critico “scopre e difende il nuovo”. Spingere le logiche distributive a fare un passo indietro, concedendo l’ingresso nel mercato primario di sbocco ai film festivalieri condannati all’oblio, sarebbe quindi un modo per riacquisire prestigio personale o per difendere sul serio le creazioni trascurate?
R /
Dobbiamo valutare quello che sta succedendo con le diverse piattaforme di visione. Se un film che passa prima per i festival esce nelle sale per restarci tre giorni, a quel punto è meglio che non esca. La circuitazione delle rassegne, inoltre, attira molto più l’attenzione del pubblico per certi film rispetto alla sala normale.

4). Sarebbe tuttavia importante per preservare il rito della sala cinematografica se film come Camille Claudel, 1915 di Bruno Dumont, ma anche altri proprio sconosciuti tipo La caja vacia di Claudia Sainte-Luce, che io ho visto al Festival di Roma, trovassero sbocco nel mercato primario a beneficio degli spettatori meno intenditori.
R / Gli ingressi ai festival sono accessibili pure alle persone che non fanno i critici. Come avviene uno spostamento per una mostra d’arte, così può avvenire per quanto riguarda i film presentati nelle varie rassegne. Degni di spingere le persone a fare un piccolo sacrificio, andando loro incontro a determinate pellicole invece di aspettare – con l’ingresso nei circuiti normali – l’arrivo nelle sale. Senza bisogno di compiere grandi sforzi né spostamenti impegnativi. La distribuzione verticale scelta per molte opere di ragguardevole pregio culturale, come i documentari di Andrea Segre, è riuscita poi ad appaiare qualità e visibilità. Contestare, per esempio, Netflix, inoltre, non ha senso: il film Roma di Alfonso Cuarón non l’avremmo mai visto se non fosse stato per il contributo, in soldi, di questa società operante nella distribuzione via internet. Il cinema è anche un’industria.

5). D / L’influenza crociana ha comportato la sottovalutazione, oltre che degli imperativi finanziari, anche della scrittura per immagini. Quando ho fatto presente a Gabriella Giorgelli che nel film La commare secca di Bernardo Bertolucci il suo personaggio era preceduto da un movimento di macchina da destra verso sinistra, per accrescere l’attesa, lei si è ricordata delle indicazioni in tal senso del noto regista. Secondo te è giusto che un critico segnali un effetto fish-eye, che dà l’impressione di vedere le immagini in una palla di vetro, o suona come un tecnicismo?
R
/ Il critico deve conoscere il linguaggio delle immagini e la grammatica filmica ma non è obbligatorio che ne segnali tutte le caratteristiche ai lettori con una recensione. O, per meglio dire, può segnalarne l’importanza senza esplicitare il lato tecnico perché sennò è recepito come uno sfoggio. E si ha la percezione, per quanto errata, del tecnicismo fine a se stesso. Il critico come ruolo ricopre quello del mediatore culturale ed è perciò tenuto a comprendere appieno l’alfabeto del cinema e a farlo conoscere a chi non lo conosce. Bisogna però evitare di cadere in atti di vanità nei confronti del pubblico. Redigere una recensione per un quotidiano è diverso, per di più, che farlo per una rivista specializzata. Parlare in radio è, inoltre, un’altra cosa che sviscerare l’argomento in una sede universitaria. Occorre, quindi, sempre valutare il destinatario. Raccontare il movimento di macchina, fuori del comune, da destra verso sinistra, come fai tu, legandolo ad aneddoti e spiegazioni precise, è funzionale invece. In quel caso risulta utile.

6). D / Che ruolo ricopre la critica per gli storici e i teorici del cinema?
R / La critica cinematografica, in virtù della sua natura multidisciplinare, è imprescindibile. L’analisi e i diversi significati culturali, legati tanto alla pittura quanto alla poesia, servono come stimolo al mondo accademico. La storia e la teoria del cinema necessitano sia dei diversi livelli di acculturazione sia degli approcci estetici ed esplicativi. La sua apparente marginalità al giorno d’oggi non deve trarre in inganno: un conto è la critica, come categoria, e un altro sono i critici che, in quanto esseri umani, sono fallibili in rapporto al periodo in cui operano. Dove c’è meno attenzione e capacità di studiare a fondo i vari aspetti anche filosofici in merito alle nuove discipline conoscitive legate al cinema.

7). D / Ritieni una distinzione di comodo per un critico separare i film d’autore da quelli commerciali o pensi sia giusto?
R /
Penso sia una stupidaggine. Mi viene in mente, specie ora che è venuto a mancare, il grandissimo acume al riguardo di Mattia Torre (nella foto) nella geniale serie televisiva Boris attraverso la bizzarra filippica di Stanis La Rochelle: «Posso essere sincero? Io considero Kubrick un incapace! Lo considero il classico esempio di instabilità artistica, abbia pazienza: è uno che affrontava un genere, falliva e passava a un altro genere. Come lo vogliamo chiamare, eh? Poi anni e anni tra un film e un altro, anni e anni di che cosa, eh? Di profondo imbarazzo per il film precedente». Era un modo provocatorio per tracciare quella figura di cinefilo ansioso di schierarsi pro o contro al fine di sembrare un vero intenditore con delle distinzioni invece piuttosto ridicole. Il regista thailandese Apichatpong Weerasethakul è considerato un esponente del cinema d’autore perché il suo modo di fare cinema risulta incomprensibile per il pubblico dai gusti semplici.

8). D / Eppure, a differenza del celebrato Lo zio Boonmee, l’unico dei suoi film a essere arrivato in sala, gli altri, da Mekong Hotel a Cemetery of Splendour, non sono dei rebus né dei rompicapi, bensì corrispondono all’immaginazione delle masse stimolandole anche in termini intellettuali, allo stesso tempo, e non solo emotivi. A cosa va ricondotta la fallacità della distinzione in questione?
R / La fallacità della distinzione tra cinema d’autore e cinema commerciale va ricondotta soprattutto al trattamento riservato al grande Steven Spielberg. Per anni ritenuto il rappresentante di un cinema commerciale caratterizzato dai soli coefficienti spettacolari e poi invece riconosciuto per quello che è: un Autore con la “a” maiuscola. Forse il migliore. Quindi apporre certe distinzioni non è frutto dell’impressionismo soggettivo ma dell’assurda mancanza di obiettività.

9). D / Alla luce della tua esperienza come direttore dell’Ischia Film Festival pensi che la geografia emozionale riguardi tutti i film o ce ne sono alcuni in cui la location è uno spazio esornativo?
R /
Sulla base della mia esperienza devo dire che ogni film più o meno mette in luce il territorio come uno spazio riflessivo importante. Certamente il compianto Andrea Camilleri nei suoi racconti incentrati in Sicilia è entrato molto nel particolare e ha spianato la strada al successo ottenuto dalla fiction tv ispirata a quei libri. Il commissario Montalbano ha creato così un indotto significativo. Anche dal punto di vista pratico. Con dei riscontri che hanno trasformato la location in una destinazione turistica. Non credo tuttavia che molti altri autori nel momento di scrivere un’opera abbiano pensato alla geografia emozionale.

10). D / Guareschi nello scrivere Mondo piccolo – ispirando poi la serie cinematografica di Don Camillo con “quella fettaccia di terra bassa e piatta che sta tra il fiume e il monte dove possono succedere cose che da altre parti non succedono” – non ha pensato alla geografia emozionale?
R / Lui ha pensato nel modo più assoluto al senso profondo della geografia emozionale. Ma lo ha fatto in modo naturale, non per motivi strategici. È partito da un luogo specifico sino a tracciare il sentimento di appartenenza dei personaggi delineati. Sono d’accordo sul fatto che partendo da una scrittura che pensava al territorio secondo criteri romantici nella trasposizione sul grande schermo, per Guareschi, e sul piccolo schermo, guarda Camilleri, è stato creato un indotto culturale ed economico al tempo stesso. Ciò ha dato poi vita a tour capaci di far scoprire nuove realtà. Anche Omero faceva però geografia emozionale. C’è anche nel Vecchio Testamento. Basta andare a guardare. Non l’ha inventata Guareschi.

11). D / Certamente. Per tanti anni la gente ha pensato che la città di Troia non esistesse. Poi è arrivato un certo Schielmann e ha scoperto che in quell’angolo dell’Asia Minore era sepolto il luogo cantato da Omero secondo i criteri della geografia emozionale. Cambiano solo i tempi. Qual è invece la tua opinione riguardo alla funzione dei festival e come sei riuscito a incentivare la crescita della rassegna ischitana?
R /
Credo, come ho già rimarcato, nell’utilità dei festival per difendere l’essenza del cinema e attirare gli appassionati spingendoli anche ad approfondire con schiettezza ed entusiasmo la loro comprensione dei film. Per quanto riguarda l’Ischia Film Festival non spetta a me stabilire cosa sono riuscito a ottenere. Posso dire di aver cercato di fare della rassegna un festival che non fosse solo funzionale al bisogno di descrivere la crescita del territorio, come elemento portante della narrazione o di un’identità generale, ma che avesse una specifica qualità cinematografica. Per riflettere il concetto di location nell’ambito del racconto in modo accurato ed esteso. Il film “Immortality” di Mehdi Fard Ghaderi, premiato nella 15esima edizione dell’Ischia Film Festival, con un unico piano-sequenza nell’arco di due ore e mezza dispiegate dentro il treno capace di rappresentare l’Iran molto più delle pellicole di Abbas Kiarostami ambientate nelle campagne locali, costituisce un esempio perfetto. I personaggi in tal modo interpretavano i vari aspetti del loro paese.

12). D / È un film che va in effetti oltre gli stereotipi del mero vedutismo e fornisce con i personaggi che entrano ed escono la prova di come il territorio possa essere evocato nella successione degli eventi. Hai quindi cercato di cambiare il modo di far vedere queste cose?
R / Ho tentato di abbattere soprattutto le barriere. Prima che arrivassi, c’era una visione molto più identitaria da parte del fondatore dell’Ischia Film Festival. Quando è venuta fuori la possibilità concreta di un ritorno al passato, ho preferito che ciò avvenisse senza di me. C’erano ancora dei margini di miglioramento, dal mio punto di vista. Il ciclo poteva essere quindi più lungo, ma non rinnego la decisione che ho preso andandomene e sono comunque soddisfatto dei risultati ottenuti. Apportare dei cambiamenti per favorire la crescita in questi contesti non è un’impresa facile. Nei dieci anni in cui alla guida della Dg Cinema c’è stato Nicola Borrelli, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali vedeva di buon occhio le iniziative di qualità. Con delle commissioni più attente qualcosa era migliorato sotto questo profilo. Le storture odierne fanno sì che le kermesse siano scambiate per dei festival beneficiando di aiuti e risorse che sarebbe meglio indirizzare in attività utili.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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