
A colloquio con Chiara Anzelmo sul valore della reazione nella recitazione
Scritto da Massimiliano Serriello il . Pubblicato in Cinema, Musica e Teatro.
LO SLANCIO VITALISTICO DI UN’ATTRICE CHE NON LASCIA NULLA AL CASO
Nata a Lido di Ostia, ma decisa a trascendere i confini autoctoni per riuscire ad appaiare pure oltreoceano le dinamiche interiori ed esteriori connesse alla recitazione, Chiara Anzelmo è pronta a mettere in pratica le lezioni apprese. Il lavoro su se stessa e i personaggi da interpretare man mano nel corso della carriera, animata al momento dallo slancio vitalistico dell’età verde, permette all’opportuna reazione emotiva di divenire un valido valore aggiunto al carattere d’autenticità. Che consente all’approccio psicofisico di connettersi altresì al carattere d’ingegno creativo. In grado d’impreziosire l’indispensabile sense of memory d’ogni prova degna d’encomio.
1). D / Cosa ha significato per lei recitare negli spot pubblicitari?
R / Nella vita sono una persona molto curiosa e la curiosità mi ha sempre spinto a voler conoscere e provare questo mestiere a 360 gradi. Non mi sono mai preclusa nulla: comparse nei film, assistenza alla produzione, aiuto regia nel teatro, reading, opere teatrali, musical, teatro per bambini, spot pubblicitari, corti o film indipendenti. Insomma tutti luoghi ricchi di opportunità di crescita lavorativa e di nuove conoscenze professionali (soprattutto in un mondo in cui il “connecting” apre le porte a nuovi lavori, se dimostri di essere abbastanza valido per farli).
Frequento questo mondo artistico da quasi 10 anni e molti insegnanti, professionisti del settore e la mia vecchia agente hanno, da sempre, innescato in me l’idea che determinati lavori come gli spot pubblicitari “ammazzano la carriera”.
Le lascio immaginare perché non mi sono mai arrivati provini per spot. Poteva anche essere un giusto pensiero ma io non giudico mai un tipo di lavoro senza averlo provato in prima persona. E ad oggi, dopo 4 spot diversi negli ultimi 3 anni, non posso che essere in disaccordo. Ho accettato tre anni fa il primo spot per necessità economica, come credo capiti a tutti (ammettiamolo: nessun aspirante attore nella vita vorrebbe essere riconosciuto solo per fare pubblicità).
Eppure mi sono divertita, mi è stato chiesto di INTERPRETARE una ragazza innamorata e non di mimare o scimmiottare la situazione come molti pensano capiti. In realtà in tutti gli spot che ho fatto, mi sono ritrovata a vivere realmente la situazione; è vero spesso mi chiedevano di marcare un pò di più le intenzioni… ma questo rende il contesto meno vero? Forse sono stata fortunata io ad essere capitata in spot non banali e con altri attori. Ma visto che sono molti a ritenere lo spot un limite, la figura dell’attore viene spesso sostituita dai modelli o da semplici comparse, come mi è capitato di vedere. Per concludere, ritengo quindi che costituisca un giusto compromesso di palestra nell’attesa di un progetto più importante. Sempre meglio che restarsene a casa senza far nulla. “Esercitarsi sempre e in ogni modo”, questo è il mio motto.
2). D / Recitando in teatro nella pièce “Pazzi d’amore” è riuscita ad affinare il suo method acting?
R / Quando si è diretti da un grande regista che è a sua volta attore ed insegnante, il lavoro di un attore sul personaggio è senz’altro più semplice. In Pazzi d’amore sono stata diretta da Augusto Fornari con notevole sagacia scenica. Ricordo che durante l’allestimento io ed il mio compagno di scena non andavamo per nulla d’accordo, nonostante dovessimo interpretare due ragazzi molto innamorati. Il metodo in questi casi è ancora più importante.
Agisco cosi: dimentico di essere io e lascio che sia il personaggio a reagire fisicamente ed emotivamente agli impulsi della scena. Non ho più “Franco” davanti a me ma ho “Luca” ed io non sono più Chiara ma “Giusy”. Recitare è REAGIRE. Mi chiedo quale sia l’obiettivo del personaggio in ogni scena e quale sia il desiderio che lo spinge a dire ciò che dice. In base al carattere, alla vita vissuta, mi chiedo: come parlerebbe? Cosa farebbe? Cos’è meglio per lei?
Per aiutarmi ovviamente penso a come reagirei io in un contesto simile (non sempre abbiamo tutti gli elementi del personaggio, sta a noi allora costruire la sua vita). Anche la presenza del pubblico mi aiuta. Mi basta pensare che ci sarà sempre qualcuno lì in mezzo che vedendola per la prima volta s’immedesimerà con le situazioni e si emozionerà insieme a me. Dò a loro così come loro danno a me. Per quanto tu possa aver provato lo spettacolo 40, 50 o 100 volte, per loro, sarà sempre la prima e se lo spettatore uscirà scosso, emozionato, divertito, intrigato o anche solo una di queste sensazioni… allora avrò fatto il mio.
3). D / Stava per iscriversi a psicologia prima di vincere il provino per la scuola di musical. Quali sono, se ritiene che ci siano, le analogie tra il mestiere dell’attrice e quello della psicologa?
R / Ebbene sì, stavo per iscrivermi quando ho saputo di essere entrata nella scuola di musical ed ho cosi deciso di lasciare tutto per inseguire il mio sogno. La psicologia però, in qualche modo, non l’ho mai lasciata. Il bravo attore riesce ad immedesimarsi cosi a fondo nel personaggio da diventare lui, nel parlare, nel muoversi, nel reagire ecc… Per arrivare a capirlo, bisogna in qualche modo analizzarlo; bisogna chiedersi: Ha avuto traumi? Come hanno influito nella sua vita? Perché uccide se uccide? Perché non riesce a stare con nessuno? Perché ha problemi con i figli? Perché impazzisce? Ecc… Domande su domande su domande, finché, con un’attenta analisi, non cominci a trovare le risposte. Un personaggio non si costruisce in un giorno: è un lungo processo. Mi viene in mente una recente intervista di Bradley Cooper, che raccontava perché ci abbia messo ben sei anni per scrivere ed arrivare a recitare il ruolo di Leonard Bernstein in “Maestro” (poi ci chiediamo come possano essere cosi bravi). Non è anche un pò questo il lavoro della psicologa? Analizzare la vita dei suoi pazienti per aiutarli a conoscersi. Altra affinità molto importante tra la psicologia e l’attore, credo sia “lo studio del non detto”. Il linguaggio corporeo spesso ci dice molto su chi abbiamo di fronte, anzi le parole a volte dicono il contrario di quello che dice il corpo e sapere che ogni posizione di braccia, gambe o postura del corpo significano una specifica cosa, può riempire di sfumature un personaggio e renderlo ancora più vero. Io sono un’analista nella vita, mi ritrovo spesso ad analizzare i miei comportamenti in determinate situazioni, anche intime. Ma in fondo ritengo che conoscere bene se stessi sia fondamentale per l’attore.
4). D / Quindi che lavoro specifico fa su se stessa per evitare di pronunciare in maniera meccanica le battute del copione?
R / Ho studiato e messo in pratica i due metodi principali: quello di Stanislavskij e quello di Strasberg. Ho imparato a prendere dai vari metodi ciò che funziona meglio per me, sia per il tipo di tempo che ho a disposizione (alcuni spettacoli o film vengono fatti anche in 7-10 giorni) sia per il tipo di opera o personaggio che andrò ad interpretare. Il metodo Stanislavskij si basa sulla ricerca tra le affinità del mondo interiore dell’attore e quello del personaggio, partendo sempre dall’approfondimento psicologico di quest’ultimo. In tal modo trovo più congeniale utilizzare questo metodo. In generale parto sempre dalle emozioni e dai sottotesti, sia del mio personaggio che specialmente dell’altro. L’altro è, a mio parere, la base per muovere emotivamente la scena e far respirare i personaggi nel testo. Quando parliamo c’è sempre un motivo, anche se semplice, per cui diciamo determinate cose.
Quando si discute o si litiga spesso sono la rabbia, la frustrazione, il nervosismo, la gelosia o l’invidia che ci fanno parlare. Mentre in una festa, una cena tra amici, un viaggio o un annuncio è la gioia, la curiosità, l’amore o la paura che ci fanno parlare, cosi come in un fidanzamento o in una confessione o altro. Altra mia ispirazione e punto di riferimento è stato il grande Maestro Peter Brook (ho letto e studiato La porta aperta tre volte). Per lui semplicità, flessibilità, forza seduttiva sono le parole chiavi. Tutta la sua poetica non è altro che il tentativo di trovare un ponte efficace nella comunicazione tra gli attori, l’opera e il pubblico. La sua citazione << è più importante sviluppare una sensibilità nei confronti dell’altro e del pubblico che realizzare il proprio desiderio di esprimersi>>. È diventata la mia filosofia di vita scenica.
5). D / Peter Brook riguardo all’importanza della comunicazione per la recitazione sostiene anche quanto segue: “Ci sono attori con grande sentimento ma con poca capacità tecnica, essi sono quindi chiusi nell’eccesso di sentimento; altri invece sono così esperti e così virtuosi che, come accade anche per il virtuoso musicale, sono chiusi in un altro senso perché il cuore non appare”. Ritiene che la locuzione latina “in media stat virtus” tagli la testa al toro, sull’importanza sia del cuore sia del cervello, i quali secondo Woody Allen non si danno nemmeno del “tu”, oppure uno deve prevalere sull’altro per avere una maggiore consapevolezza del lavoro da svolgere sia su stessi sia sul personaggio a beneficio del pubblico?
R / Se per cervello si intende tecnica allora penso che uno non escluda l’altro. I sentimenti trasportano la scena, aiutano lo spettatore a condividere con te quel momento, ad entrare in empatia e soprattutto rendono la scena VERA. La tecnica DEVE esserci, per rendere il tutto più fluido. Devi sapere che le spalle non vanno date, devi saper rendere un tono della voce alto veritiero, bisogna saper ascoltare l’altro, non accavallare le battute e se si fa, sempre con tecnica. E così via… insomma bisogna studiare molto oltre ad avere sentimento e talento. Per concludere rendo entrambi imprescindibili, sia cuore che cervello. D’altronde noi siamo essere umani con ragione e sentimento, perché mai escludere uno o l’altro?!
Attingere alla propria memoria emotiva porta al giusto compimento della scena. A volte pensare troppo alla sostituzione o ad una nostra memoria emotiva ci può portare fuori dalla scena e possiamo risultare distaccati e freddi. Credo debba esserci il giusto compromesso tra dinamiche interiori ed esteriori. Di base per me RECITARE È REAGIRE. Se sai dove vuole arrivare la scena e se sai cosa accade all’interno al tuo personaggio, il resto viene da se. Ti basta reagire istintivamente ma consapevolmente agli input del tuo compagno o tuoi compagni di scena.
6). D / Secondo Lee Strasberg per un attore non c’è niente da imparare ma tutto da ricordare. Ad eccezione del training concernente il cosiddetto lavoro dell’animale. Il suo allievo prediletto, Al Pacino, in Serpico di Sidney Lumet sembra un giaguaro colto nell’attimo prima di balzare sulla preda. Crede che questo tipo di lavoro permetta di cogliere al meglio l’aspetto istintivo di un personaggio chiudendo in un certo senso il cerchio?
R / L’approccio al mondo istintivo e animale aiuta molto se si è disposti a mettere da parte i pregiudizi e a immergersi completamente nel lavoro. Antonio Gargiulo, un mio vecchio insegnante, fu il primo ad introdurci questo metodo. Partiva sempre con l’assegnarci un animale simile al personaggio che andavamo ad interpretare e poi ci insegnava come attraverso i suoi comportamenti e istinti, arrivare all’uomo. Al contrario di alcuni miei vecchi compagni, che spesso erano scettici e si rifiutavano perciò di lavorare su una scena in questo modo, io conservo ancora oggi un buon ricordo metodo in questione e devo dire che mi è servito molto. Rammento che dovevo interpretare una scena di Anna Magnani nel film Nella città l’inferno ed è solo grazie al lavoro dell’animale che ho scoperto un mio lato istintivo più “oscuro” che mi ha aiutato ad interpretare una donna potente, padrona del carcere di Regina Coeli. Mentre invece io sono una ragazza molto dolce sia nell’aspetto che nella vita (e se si sta chiedendo quale fosse l’animale che mi era stato assegnato…. beh… la iena!).
7). D / A parte il lavoro dell’animale, attinge ad altre risorse ed espedienti per esprimere caratteri che nella vita di tutti i giorni non hanno nulla a che vedere con lei?
R / Quello è un lavoro che aiuta. Dipende quanto è distante il carattere. Penso anche ad “imitare” (mi passi il termine) una persona che ho conosciuto nella vita simile al personaggio che devo interpretare. Diciamo più che imitare il verbo giusto in questo caso è ispirare. M’ispiro infatti a loro e alla loro vita. In questa fase della mia esistenza poi mi faccio aiutare da vecchi insegnanti nonché mentori.
Avendo ancora molto da imparare.
8). D / Dustin Hoffman impersonando un attore a spasso che si finge donna per ottenere un ruolo ben remunerato in Tootsie di Sydney Pollack dice chiaro e tondo: “Se non hai dentro certi caratteri, non li puoi esprimere”. Il suo pensiero in merito lei in parte l’ha già esposto. Ma vale la pena approfondire. Esprimere recitando dei caratteri distanti anni luce dai propri funge ulteriormente da stimolo per andare maggiormente in profondità?
R / Mi è capitato spesso, anzi quasi sempre, di fare personaggi molto distanti dal mio essere. È sicuramente una sfida più divertente… difficile sì, ma meno noiosa. Avendo studiato tanti approcci al personaggio e alla scena, ho la fortuna di poter lavorare come mi è più facile per la riuscita del progetto. Col tempo mi auguro di arrivare ad affinare un mio metodo di lavoro e di riuscire sempre al meglio in quello che faccio. La strada è ancora moooolto lunga. Non bisogna mai smettere di fare esperienza. Occorre studiare, studiare studiare. Un mio insegnante (Lops), che mi è rimasto nel cuore, mi diceva sempre: il lavoro batte il talento se il talento non lavora.
La voglia di migliorare e di fare bene il lavoro non deve mai mancare. Più il personaggio è lontano da noi, più i dettagli contano. Come parla, come cammina, come o cosa mangia e così via… C’è tutto uno studio prima di andare in scena. Un primo approccio al testo (cosa mi suscita in prima lettura?), un inizio all’obiettivo della scena, ai desideri del personaggio e poi ancora al sottotesto e così via … devi essere preparato e sicuro di aver capito il personaggio che stai interpretando, le sue emozioni, i suoi bisogni. Il resto vien da sé!!
9). D / Ne Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, realizzato sulla falsariga di film nel film tipo “Effetto notte” di François Truffaut, il personaggio interpretato da Barbora Bobuľová aggiunge sempre del suo alle perentorie indicazioni del regista chiamando in causa il free jazz applicato dal sagace ed estroso John Cassavetes alla recitazione. Ritiene anche lei che l’improvvisazione possa in tal senso dare buoni frutti sancendo quindi una sorta di status d’autorialità per gli interpreti?
R / Ecco questo è un aspetto che mi preme molto. Molti registi tendono ad essere perentori e fermi nella loro visione di spettacolo o film. Non posso che essere più che d’accordo con Cassavetes. Secondo me bisogna trovare un compromesso o il giusto equilibro tra le due parti. Io che sia per un provino o per una nuova scena di un progetto in corso, come prima cosa tendo sempre a portare una mia proposta, una mia visione della scena (certo di base delle direttive già sono scritte). Mi piace pensare che lo script deve essere di gomma e non di ferro, così come gli attori. Anche noi dobbiamo essere malleabili. Nelle mani del personaggi. E pronti a cambiare completamente se qualcosa non funziona. Il rispetto la prima cosa. Nessuno sovrasta l’altro. Mi piace sapere che al regista interessa se ho da dire o proporre una mia versione; al tempo stesso io so che è LUI a dirigere e rispetto le sue scelte. “Ciò che accade non è ciò che i personaggi fanno ma ciò che sono” questo si collega al mio discorso dell’essere pienamente consapevoli di tutto il lavoro svolto e di CHI SONO (io personaggio intendo).
Recitare è reagire.
