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A colloquio con Ivano De Matteo sui dubbi utili dei film d’autore

UN REGISTA LEGATO AL VEICOLO D’INTERROGATIVI CRUCIALI ED ECHI SEMPITERNI DEL CINEMA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Molti spettatori dai gusti semplici lo identificano nel ruolo di Puma nella serie tv cult Romanzo criminale. Quelli più avvertiti ne avevano applaudita in precedenza la psicotecnica sul grande schermo in Velocità massima di Daniele Vicari. Uno spaccato sulla passione per i motori, preferiti alla sete di cultura, che sta all’adrenalinico ma superficiale Fast & Furious come il capolavoro Mulholland Drive di David Lynch sta all’ammiccante Vanilla Sky.

Al posto degli infiniti testacoda, dei coefficienti spettacolari promossi ad antidoto contro i dispendi di fosforo, lui, Ivano De Matteo, conferisce al tronfio figlio di papà detto “Fischio” un’ampia gamma di sfumature.

Sul set, nelle dispute dialettiche, non certo in punta di forchetta, con il rivale indigente e insolente impersonato dal grintoso Valerio Mastandrea (nella foto insieme a De Matteo), le forme-bandiere del canzonatorio vernacolo romanesco si sono andate ad appaiare all’espressività neolitica del volto cupo. Negato al sorriso. Nelle pause, invece, Ivano declamava con sincero trasporto ed entusiasmo ridanciano i versi dei poeti classici in grado d’illuminarne i tratti somatici, addolcendoli decisamente, spingendo così il resto del cast a esclamare, tra il divertito e lo stupito, che di Fischio se ne erano perse le tracce. 

Ed è la qualità basilare degli attori che sanno entrare nello stream of consciousness dei personaggi incarnati sulla scorta della fiamma interiore che infonde all’arte della recitazione stimoli inesausti. Restando, comunque, legato all’intensa leggerezza che lo esorta a stemperare nell’ironia e nell’autoironia lo scoglio del delirio d’onnipotenza. A metterlo a riparo dalla goffa e dilettevole improntitudine dei colleghi che trascinano la ricerca delle pose maggiormente lusinghiere nella realtà è la sana estrazione proletaria.

Trasteverino di nascita, Ivano proviene da una famiglia numerosa. Il padre operaio, scomparso eppure vivissimo nei suoi ricordi, resta un esempio di rettitudine e di franchezza da anteporre al vacuo frastuono dei falsi modelli. La madre, che lo assiste tra un ciak e l’altro preparando le melanzane per l’intera troupe, è una donna schiva. Che parla con gli occhi. Lo scorso mercoledì, al Cinema delle Province, al termine della proiezione dell’amaro ed emozionante scandaglio introspettivo La bella gente, il suo sguardo emanava quel connubio di affetto e saggezza che fa difetto agli intellettuali. Che, secondo Woody Allen, non l’ultimo degli sprovveduti quindi, non sanno cogliere la verità oggettiva. Perché troppo condizionati dai compiaciuti bla-bla, dalle infeconde discipline di fazione, dall’impasse di menzognere certezze fini solo a se stesse.

Ivano è, comunque, soprattutto un regista schietto ed estroso. La bella gente è il suo fiore all’occhiello. Gli è costato fatica, sudore, soldi. Gli stessi che ha guadagnato li hai reinvestiti a sostegno della propria meravigliosa creatura. Impreziosita dall’omaggio in filigrana nei confronti del nume tutelare per eccellenza Luis Buñuel, che con L’angelo sterminatore e Il fascino discreto della borghesia seppe aprire in chiave surreale l’atroce vaso di vermi celato dagli impostori benpensanti attraverso le menzognere buone maniere.

Non c’è, però, alcuna invidia sociale. Né l’impasse delle idee attinte all’ingegno d’incensati antesignani. Ivano alla forza immaginifica del cortocircuito poetico ed evocativo privilegia, per molti versi, la crudezza oggettiva per fare una franca radiografia dei cali di personalità e delle ipocrisie nascoste dei cosiddetti radical chic. Una categoria con cui condivide alcuni punti di vista. Senza rinunciare all’onestà intellettuale che lo spinge ad ammettere di essere divenuto anch’egli un borghese. Allergico nondimeno alla spocchia intellettuale. L’intralcio assoluto alla fragranza dell’onestà.

Antonio Catania (il rimo a sinistra nella foto col cast), in grado nei panni del sensibile ma scettico capo-famiglia di arricchire La bella gente d’infiniti semitoni, preposti agli accenti sia degli irosi che tirano pugni sui tavoli sia dei saccenti che montano in cattedra a ogni piè sospinto, ha dichiarato ai tempi in cui il film fu proiettato al Teatro Valle Occupato: «Se tutti i registi avessero la passione di De Matteo, il cinema italiano sarebbe salvo». 

Ivano fa spallucce, per evitare gongolando di cadere vittima dell’infruttifero narcisismo. Chi si loda, si sbroda. Così si dice nella Città Eterna. Tuttavia è felice per l’attestazione di stima dell’attore siciliano. Un fior di galantuomo alieno agli elogi a buon mercato che, piuttosto, dice quello che pensa e fa quello che dice. Anche quello che gli dice il regista per evitare di costruire castelli di carta aderendo agli slanci e ai limiti dell’architetto protagonista. Restio a ospitare nella villa delle vacanze, su sprone della moglie impegnata nel sociale, una prostituta costretta a battere. Lì a due passi. Sulla strada che porta al paese limitrofo

Ivano, lungi dal sentirsi depositario della verità assoluta, non lancia strali acuminati contro nessuno, non abbaia alla luna, non si perde nei rivoli dell’accademia, non cerca di parlare inutilmente in chicchera. Va al sodo: vuole insinuare un dubbio utile. Mentre la coppia dei vicini esibisce a bella posta la propria insensibilità, il nucleo familiare dei buonisti cela dietro la nonchalance il compiacimento dell’azione filantropica compiuta mettendosi in casa una di quelle. Che si porta dietro un dolore profondissimo. Ed è come se facesse l’amore per la prima volta quando il primogenito della coppia la seduce. Il desiderio di cambiarle la vita va a carte quarantotto. Fai del male e scordati, fai del male e pensaci. Così recita un vecchio adagio popolare che conosce la gente davvero bella dentro. All’oscuro dei versi della Divina Commedia ma col dono, assai più importante, dell’assennatezza. Ivano ne è ben provvisto insieme alla virtù di servirsi della scrittura per immagini come mezzo investigativo. Lontano dalla spocchia propinata dalle presunte élites alla stregua di un valore speciale.

Ivano non pretende di piacere a tutti, né di emettere sentenze, bensì desidera far riflettere la gente nel buio della sala. Non per toglierle il sonno. Ma per metterla all’erta. Ai prodotti d’evasione, che non procurano grattacapi, replica andando avanti per la sua strada. Irta talora di ostacoli. In apparenza insormontabili.

Le traversie distributive patite da La bella gente, divenuto proprio un film fantasma dall’ingegno più vivo che mai, lo hanno messo a dura prova. Superata grazie alla tigna di chi si batte per le giuste cause. Di chi non è accecato dalle ragioni di partito. Di chi non fa sconti. Di chi sostiene l’importanza di un confronto tra progressisti e conservatori. Tra produttori e distributori. Tra distributori ed esercenti. Purtroppo qualcosa si è inceppato nel trapasso ai limiti dell’incredibile in quattro complicati ed eterogenei contratti di distribuzione che hanno finito per rendere il film fantasma un’opera schiava delle meste circostanze.

L’uscita il 27 agosto 2015 del terzo figlio, La bella gente, è stata quindi una vittoria per il film finanziato dal ministero dei Beni culturali. Con i soldi dei cittadini gettati alle ortiche sennò. La sala commerciale, anche se la parola è disdegnata dai nerd con la testa per aria, costituisce una meta d’approdo diversa, in prassi e in spirito, dai circuiti d’essai. Ivano, d’altronde, è un regista sia da bosco sia da riviera. E i suoi film, così come i suoi due figli, gli somigliano. Da Gli equilibristi a I nostri ragazzi con Rosabell Laurenti Sellers (nella foto) capace in entrambi di far vibrare corde profonde. Nella parte della buona, la prima volta; in quella dell’incosciente, la seconda. I nostri ragazzi, attinto al romanzo La cena del vispo romanziere nonché attore olandese Herman Koch, ha esercitato sulla scorta delle interpolazioni un forte ascendente sul poliedrico regista israeliano Oren Moverman. Autore già di Time Out of Mind. Imperniato sul mondo dei senzatetto. Il suo adattamento per il cinema, The Diner, con star del calibro di Richard Gere e Laura Linney, rappresenta una pietra di paragone piuttosto curiosa per saggiare l’audacia stilistica di due autori agli antipodi ma ugualmente decisi a metterci del proprio. 

 

La padronanza della tecnica non è un motivo di sfoggio. Le sue molle, in quest’ottica, sono le correzioni di fuoco da un soggetto all’altro e i piano-sequenza. Ivano preferisce lo spirito di verità che dal Neorealismo in poi è diventato un fertile avvicendamento ai colpi di gomiti dei colossi. Alcuni dai piedi d’argilla. I film di Ivano hanno, al contrario, i piedi ben piantati per terra. Con le idee chiare e la cognizione che le storie per il grande schermo devono usufruire del linguaggio cinematografico.

Con la dolce metà Valentina Ferlan (nella foto) s’intende a meraviglia. Sulla medesima falsariga di Billy Cristal in Harry ti presento Sally …, ha un punto di vista femminile sulle cose. Una finestra aperta sul mondo che mostra al cinema. Scrivere a quattro mani con lei gli ha permesso di scandagliare composite tematiche. Dalla violenza ai danni delle donne alla precarietà dei legami familiari; dall’angoscia delle separazioni, esacerbate dai problemi finanziari, all’insidia del bullismo che s’impadronisce mostruosamente finanche dei figli in teoria perbene. La questione della difesa personale è invece al centro dell’ultima fatica, Villetta per ospiti

A Ivano piace da sempre combinare la passione per la musica alla costruzione dell’inquadratura e ai movimenti di macchina che trasformano i corridoi degli uffici adibiti ad alcove dalle coppie clandestine in posti tutti da scoprire. Nel bene e nel male. La geografia emozionale, che dà ai luoghi eletti a location ed ergo ad attanti narrativi carichi di senso lo stesso risalto degli attori e delle attrici, se non di più, è un altro suo irrinunciabile pallino.

Il Nord Est dello Stivale, teatro a cielo aperto di una vicenda che nell’incipit richiama alla mente Il cacciatore di Michael Cimino e Jagten di Thomas Vintenberg, sembra averlo ispirato in maniera particolare. La labile morale venatoria, gli echi della commedia all’italiana, l’ordine naturale delle cose, con i foschi presagi degli animali che da dolci bestiole si mutano in predoni secondo i princìpi dell’ineluttabile selezione darwiniana, sfociano in un noir da camera. L’egemonia del lavoro di sottrazione sull’accumulo, in nuce già con I nostri ragazzi, prende definitivamente piede. L’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici cementa la virtù di amalgamare gli affondi amari nella realtà con una partitura ritmica volutamente imperfetta. Che deriva dal jazz. Adorato pure dall’amico Marco Castrichella, proprietario della storica videoteca capitolina Hollywood – Tutto sul cinema, covo per gli amanti dei film d’autore dove Ivano fa un salto di tanto in tanto.

La predilezione per il darwinismo antropologico, che ispirò Otto Preminger, per i rimandi western, per la contaminazione dei generi, per l’indipendenza autoriale di John Cassavetes, estraneo agli scaltri segni d’ammicco privi di passione, traspare da tutti i pori. Definirlo l’erede di questi mostri sacri della cinepresa equivarrebbe a dargli quella che a Roma è chiamata ‘na calla. Il compito dei critici cinematografici consiste, all’opposto, nell’instaurare con gli autori un interscambio fondato sulla sincerità a beneficio del destinatario optimum: lo spettatore/lettore.

A Ivano vanno a genio l’Università della strada, celebrata nel 1° Festival del Cinema di San Lorenzo, e la metonimia. Utilizzata dal Maestro Sergej Michajlovič Ėjzenštejn mostrando gli stivali dei cosacchi nel cult La corazzata Potëmkin. De Matteo la parte per il tutto ne La bella gente è la traduce in pratica con l’inquadratura delle mani della bravissima Viktorija Larčenko . La mancanza di diritto al merito, con la crisi occupazionale imperante nel mondo assai poco dorato del cinema che condanna a lunghi periodi di stasi le interpreti più sensibili, è un dispiacere autentico. Specie perché Ivano conosce le fulgide doti d’immedesimazione di Viktorija sin da quando la diresse, appena sedicenne, in Ultimo stadio. Il suo primo film di finzione, dopo il documentario sugli ultras Prigionieri di una fede.

«Per me i film hanno poca importanza. La gente è più importante».

L’aforisma del compianto John Cassavetes, deux ex machina dell’orgoglioso New American Cinema, parla chiaro e tondo. Ed è la gente, bella in apparenza, brutta alla resa dei conti, imperfetta, umana, che Ivano vuole rappresentare sigillando nell’ordine esistente, in mezzo alle debite varianti umoristiche, un tragico ma utile margine d’enigma. 

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1). D / Sei in procinto di tornare alla recitazione. Il tuo primo amore sotto l’aspetto artistico. Gli spettatori meno avveduti t’identificano per un piccolo ruolo in una grande serie tv anziché per la capacità dimostrata come regista nel tenere salde le redini della trama. Capire dal di dentro il lavoro dell’attore sul personaggio è servito a mettere gli interpreti al servizio della tua cifra stilistica connessa al timbro narrativo?
R / Quando giro un film voglio avere tutto sotto controllo: dal cast alla musica, la scenografia, la fotografia, il montaggio, i costumi, il tipo di stoffa persino. Mi considero un artigiano del cinema. Io e la mia compagna, Valentina, è come se cucissimo un vestito addosso a un manichino nel momento in cui scriviamo la sceneggiatura. Il mio mestiere lo vedo in maniera tonda, come un cerchio che chiudo aggregando fattori diversi. Che hanno tutti grande rilevanza. Conoscere il mestiere dell’attore, tornare a esserlo a dieci anni di distanza da “Romanzo criminale – La serie 2”, mi permette di capire l’esigenza di quello che vado a dirigere. Di afferrarne le sfumature, il lavoro sul personaggio, gli stimoli intimi. Posso dargli consigli pratici, tranquillizzarlo, comprendere il bisogno di riscontro dopo il processo di analisi conoscitiva. So cosa funge da sprone ed entusiasmo. L’attore non si vergogna così di manifestare le sue ansie, le sue paure. Mi ricordo che Luigi Lo Cascio (nella foto) sul set de “I nostri ragazzi” ci teneva a sentire la battuta. Per un attore preparato e meticoloso come lui darle il giusto tono è una priorità. A me ha fatto piacere accontentarlo in tal senso. Avere confidenza con certe esigenze, perché le ho sentite anch’io come attore, è un’ulteriore freccia al mio arco. Un’arma in più per fare bene. O almeno tentare di farlo. Al meglio delle mie possibilità. D’altronde negli spettacoli teatrali che ho fatto, sono stato sempre il capocomico. E quindi svolgevo entrambi i ruoli. Ci sono abituato. Nel cinema preferisco o fare il regista o l’attore. Non entrambe le cose insieme. Quindi o dirigo o vengo diretto. 

2). D / Quanto conta per chi si fa carico dell’onore/onere della regìa la libertà di scegliere troupe adatte alle proprie esigenze creative?
R / Conta molto. Come giustamente dici tu, il regista deve riuscire a conciliare il carattere riproduttivo del mezzo cinematografico e il suo carattere d’ingegno creativo. L’autonomia rispetto a un produttore che punta solo ed esclusivamente al guadagno, ignorando le esigenze creative appunto, è sostanziale. Il regista non può lavorare da solo: non è un pittore, uno scultore, uno scrittore classico. Deve farlo con un gruppo di persone ben affiatate. Ed è necessario che instauri con questo gruppo un clima di fiducia. E perché ciò avvenga il gruppo di persone che lavorerà con lui deve sceglierselo. Non glie lo devono imporre i produttori. Almeno vale per me. È la scelta che faccio. Pertanto pago dazio, come si dice. Anche perché quando un regista, invece di scendere a compromessi e fare un film su commissione, vuole usare il mezzo del cinema per raccontare delle cose sue – per dire la propria attraverso le immagini, le parole, la musica, il film – dà fastidio. Ogni volta che scriviamo una storia per poi farne un film io e Valentina sappiamo che ci aspetta la piripicchia

3). D / Toccare le carte prima del mazziere, comparabile al produttore, fa piripicchio, infatti, e fioccano i ceffoni sulla mano. Tocca a chi sbaglia. E a chi tocca nun se ingrugna. Non è però stato un errore affidare ne “Gli equilibristi” a Giorgio Gobbi una battuta che riassume il senso della trama. Simile a un’altra pronunciata dall’immenso Principe Antonio De Curtis in “Totò e Carolina“:  «Il suicidio è un lusso, i poveri non hanno neanche la libertà di uccidersi». Ricorrono spesso però nei tuoi film i silenzi eloquenti. Servono a connettersi all’immaginario per convertire l’enigma in poesia?
R / Ammazza, come sei preparato! Ignoravo la battuta di Totò. Quella di Giorgio Gobbi (nella foto nei panni di Ricciotto ne “Il marchese del grillo” accanto ad Alberto Sordi) scaturisce dalla spontaneità d’una persona che ho intervistato poiché si è separata pagando lo scotto a tutte le difficoltà economiche che questo comporta, andando alla Caritas. Da lì è venuto fuori il fatto che solo i ricchi possono permettersi il lusso di separarsi. Le scene coi silenzi, sin dalla fase di sceneggiatura, le chiamo scene-pesce. Alessandro Gassman e Barbora Bobuľová (insieme nella foto) si parlano attraverso il vetro ne “I nostri ragazzi”. Lo spettatore non sente cosa si dicono. A me piace questo modo di fare cinema. Con il lavoro di sottrazione. Tornando su Totò, condivido il tuo pensiero.

3). D / Anche se è stato impiegato spesso in film dozzinali, non ci sono dubbi sull’autorialità del Principe Antonio De Curtis in arte Totò. Intercettava il pensiero della gente comune e lo trasformava in poesia. Insita nella miseria, oltre che nella fantasia, di chi la patisce. Per quanto riguarda invece il rapporto tra il produttore, che ho accostato al mazziere, e il regista, eletto o eleggibile ad autore, come lo vedi?
R / Eh, Massimiliano, come lo vedo?: è un rapporto molto difficile. Con il regista spesso sembrano destinati a non capirsi. Sono come due treni che procedono su binari opposti. Anche se capirsi è fondamentale. Preferisco che mi levino i soldi e mi diano la musica che mi piace. Che trovo più adatta. Io sono fortunato da questo punto di vista: la Rodeo Drive è una casa di produzione cinematografica che, sebbene punti di solito più sulle commedie (tipo “Tutt’altra vita” di Alessandro Pondi con Enrico Brignano), crede anche nei miei film. Servono i prodotti d’evasione per distrarre gli spettatori. E servono le storie dei film, diciamo d’impegno, per farli riflettere. L’onere di raccontare delle storie che in qualche modo danno fastidio è anche un onore: hai ragione. Il giudizio critico costruttivo lo accetto. Ci mancherebbe! Quello frettoloso, infondato, prevenuto, al contrario, mi dà fastidio. La lingua senz’ossa spacca le ossa. Non si può liquidare in poche righe un lavoro complesso come quello del regista. A volte sul set prendo delle decisioni cruciali in un secondo. E quelle decisioni sono frutto di tante cose: di come mi sono alzato la mattina, dell’emotività, dell’intuito. Forse ha a che vedere con l’immaginario. Adoro infine aggiungervi la musica.

4). D / Ne “Gli equilibristi“, Ivano, a dirla schietta, mi persuadono più i suoni diegetici della musica extra che li copre. Ed è con un tonfo diegetico che chiudi “I nostri ragazzi“. In “Villetta con ospiti” il mix di suoni diegetici ed extradiegetici coglie nel segno. Merito del jazz, degli arnesi, a mantice e a ventola, del ritmo anomalo?
R / La tua valutazione la accetto di buon grado. E anche le riserve che muovi sono ben accette. In quanto lo fai con cognizione di causa. Non mi chiedi di togliere venti minuti di film asserendo che non servono. Torno a ripetere: basta che il giudizio critico sia costruttivo. Senza confondere le cose. La verità che racconto non è uno stereotipo, come sostiene qualche altro critico. La prendo dalla vita reale, dalla cronaca, dal web. E tu questo l’hai capito benissimo. Gli strumenti con i quali mi sintonizzo sulla stessa lunghezza d’onda degli spettatori hanno un valore determinante per me. La musica è un mezzo per toccarli. Per emozionarli. Ma è vero quello che sostieni: in “Villetta con ospiti” ho trovato un modo per adattarla anche al lavoro di sottrazione. Le improvvisazioni jazz, che fanno parte di me, come i documentari che ho girato, a cui sono legatissimo, giacché mi hanno dato modo di crescere come regista, sono pure fonte d’ispirazione. Il compositore Francesco Cerasi, a parte il violoncello, mi ha detto: c’ho l’armonium. Ha un suono che entra nella pancia.

5). D / È un cazzotto nello stomaco.
R / Verissimo: un cazzotto nello stomaco. Il tema del film, seppur velocizzato, è presente nella suoneria del telefono cellulare che squilla. È un match-cut sonoro come ben sai. Una cosa stupenda. Io, grazie all’aiuto formidabile di Cerasi, ho adattato la musica al cellulare, al citofono della villetta del titolo e ai ticchettii dei tre orologi presenti nella casa. Il free jazz è un modo invece per comporre in presa diretta. In sala. Per quanto riguarda “I nostri ragazzi”, ti rivelo un aneddoto su quel finale con il rumore improvviso dell’automobile di Luigi Lo Cascio che investe Alessandro Gassman. Gli spettatori non lo vedono ma lo capiscono. Il suono diegetico è la spia. Ebbene in principio avevo girato un’altra scena piuttosto difficile tecnicamente: si vedeva il botto, volava lo stuntman, c’era un dolly lungo dieci metri che entrava nel ristorante dove le due coppie stavano nel momento del litigio sostituendo la Bobuľová, seguiva lei mentre girava l’angolo, arriva a lui, il marito interpretato da Gassman, con il sangue sul volto, per poi alzarsi in alto dove c’era una sorta di Pietà sulle note di una musica toccante. Che spaccava, come si dice. 

6). D / Sembrerebbe ispirata alla morte del piccolo Dominique in “C’era una volta in America” al rallenty, sotto il ponte di Brooklyn. Con lui che esala l’ultimo respiro tra le braccia di Noodles, con la colonna sonora di Ennio Morricone “a palla”.
R / L’idea era un po’ quella. Io volevo “spaccare”. Poi ho tagliato una cosa, ho tagliato l’altra. Infine, prima di andare alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia a presentare “I nostri ragazzi”, al montaggio ho levato pure la scena della moglie che grida il nome del marito. Restava quella con lei che si gira, dopo quel rumore inequivocabile, e la scena in nero. Mi piaceva come l’avevo girata. Ma mi sta ancora più a cuore riuscire ad asciugare l’enfasi in eccesso e arrivare dritto al punto nel finale dei miei film. 

7). D / La geografia emozionale pure ti sta a cuore. I nostri ragazzi ne è la prova: il personaggio di Giovanna Mezzogiorno mostra in una visita guidata all’Ara Pacis la Saturnia tellus, il rilievo meglio conservato dei quattro presenti nel museo; i frangiflutti segnano invece l’intima distanza dei due fratelli, Paolo (Luigi Lo Cascio) e Massimo (Alessandro Gassman). Che tipo di valenza assume nel tuo modo di girare il rapporto tra habitat ed esseri umani?
R / Non può che farmi piacere quando un critico riconosce tutti questi particolari legati al rapporto tra cinema e territorio. Tocchi delle corde particolari. So’ come i ragazzini: divento un fiume in piena. Ho usato un semi-carrello circolare nella scena cui fai riferimento. Era tutto calcolato per mostrare poi quei frangiflutti che mi facevano impazzire. Fanno parte della dinamica spaziale. Mi piace poi questa cosa che dici: i luoghi, gli spazi e le cose presenti divengono un elemento trainante della storia. Sotto l’aspetto illustrativo e introspettivo. Voglio girare anche in posti che non conosco. Amo Roma, mi piacciono le location nei pressi. Al mare. A Fiumicino. Ma è nello stesso modo bello scoprire posti in altre città. In Veneto, per “Villetta con ospiti”, sono voluto andare prima là, nel Nord-Est, come lo chiamano, per conoscere il territorio.

8). D / Rientra nella fase ex ante. Quella del location scouting.
R /Ed è basilare. Irrinunciabile. Mi permette di entrare in contatto col territorio vero. Il paesaggio cartolinesco è esornativo. Non serve. Non ho messo il ponte sul Brenta di Bassanno. Lo chiamano Ponte Vecchio. Pure Ponte degli Alpini. Lo conoscono tutti. Così tranquillizzerei gli spettatori. Io, al contrario, voglio stupirli, spingerli a pensare a circostanze e posti che non conoscevano. O che conoscevano ma davano per scontati. E invece non sono scontati.

9). D / “La vita possibile” inizia con un piano-sequenza che si chiude con un vero cazzotto allo stomaco. Lo giudichi indicativo tanto quanto l’effetto circolare ottenuto usando i binari e l’emblematica fluidità della steadicam a te molto cara?
R / Non so come abbia fatto Sam Mendes a realizzare in “1917” un piano-sequenza che dura per tutto il film. Mi pare di capire che a parer tuo è più che altro un effetto speciale per far sembrare il film più originale di quello che è in realtà. Non l’ho visto. Non posso giudicare. Quello che posso dire è che con “La vita possibile” avevo un’idea ben chiara in testa: partire da un angolo preciso, vedendo San Pietro, seguire i ragazzini che vanno in bicicletta mentre recitavano, chiacchierando tra loro della partita di calcetto appena conclusa, con una steadicam a precederli, utile per la presa diretta, perché non fa rumore; lo scavalcamento seguiva il piccolo protagonista sino in casa dove assiste al padre che dà quel cazzotto atroce alla mamma. A quel punto dovevo staccare. Lo spettatore non avrebbe potuto sopportare oltre. Ed è là che rientra in gioco, per così dire, il lavoro di sottrazione che dici te.  Il finale con la mongolfiera, che qualche tuo collega ha tacciato come un atto di buonismo, era invece per chiudere con una nota di speranza, a differenza degli altri miei film, la vicenda della madre e del figlio che si trasferiscono a Torino. Continueranno ad affrontare i loro problemi. Per lui l’ambientamento resterà duro. Lei proseguirà con l’impiego come donna delle pulizie. Era solo un modo per aprire la breccia a un miglioramento rispetto al grigiore della vita. Un raggio di sole. 

 

10). D / L’interazione tra interni ed esterni in “Villetta con ospiti” cementa il passaggio dagli stilemi della commedia all’italiana ai tópoi del noir. Serve per delineare i meandri dell’animo?
R / Quando abbiamo scritto la sceneggiatura, io e Valentina, l’idea era quella di passare dall’esterno giorno all’interno notte. Molti critici hanno parlato di una prima parte e di una seconda parte, ma non è così. C’è un passaggio, appunto, simile a un imbuto dove gli spettatori vengono idealmente trasportati. Come una pallina che a furia di girare nel collo di quest’imbuto si ritrova in uno spazio sempre più stretto. Ed è così che la storia scivola nel noir. Non cambiano però né la recitazione né i personaggi. Cambia lo spazio. La villetta diventa la protagonista. In quel caso la parte solare diviene, più che grigia, nera. Come l’anima dei personaggi. Tutti con delle ombre. Compresa la vittima. Che ho volutamente “sporcato”. Nessuno è innocente. A parte il personaggio della mamma di Aran, la vittima, interpretata da Cristina Flutur (nella foto). Un’attrice eccezionale. 

11). D / Vincitrice inoltre del premio per la miglior attrice alla 65ª edizione del Festival di Cannes per “Oltre le colline” di Cristian Mungiu. In “Villetta con ospiti” la Flutur conferma il suo talento recitativo nell’ambito dei film d’autore. Questo modo di girare, affine all’aura contemplativa, non salva il mondo ma spinge gli spettatori a porsi degli interrogativi. Il cinema di pensiero è dunque un veicolo di dubbi utili?
R / Guarda il “dubbio utile” è la definizione giusta. La mia intenzione è, torno a ripetere, far venire quel dubbio allo spettatore. Lasciarlo con una perplessità, finito il film, che può tornargli utile. Per l’appunto. Tipo: fammi controllare che fanno i “nostri ragazzi”; converrà tenere un’arma in casa? È un po’ come quando una persona sente un sintomo e si va subito a fare un controllo medico. Serve  Non si può cambiare il mondo. È vero. L’analisi della realtà tuttavia non serve solo a far passare il tempo allo spettatore. Forse non gli accresce le facoltà intellettuali. Sarebbe pretendere troppo da parte mia. Ma può insinuare questo “dubbio utile”, come lo hai definito.

12). D / Il momento in cui Nadja ne “La bella gente” si lava, con l’inquadratura dell’acqua sporca del trucco assorbita dal lavello che ricorda quando Jodie Foster in “Sotto accusa” si taglia i capelli per lasciarsi alle spalle l’orrido passato, spicca su tutto. Gianni Amelio ne “Il ladro di bambini” mostrava nel dettaglio la mano paffuta della minorenne e quella villosa del cliente pedofilo prima del rapporto sessuale. Tu fai un po’ la stessa cosa in due scene inobliabili, ma alla fine degli amplessi. Da dove nasce l’idea relativa a questa scelta?
R / Volevo che lo spettatore capisse Nadja, ne percepisse il dolore, il destino che l’ha spinta a fare la prostituta. Una vita piena di umiliazioni che spinge lì per lì la signora perbene ad aiutarla levandola dalla strada. A lungo andare pure la bontà della “bella gente” del titolo si esaurisce. Svanisce. Come l’acqua. Vengono a galla pregiudizi ed egoismi. Quando il marito torna a casa, dopo aver lasciato Nadja alla stazione, la moglie è sollevata. I coniugi si chiudono nel loro microcosmo. Fatto di buonismo. Che non c’entra nulla con la bontà. Quando inquadro all’inizio, invece, la mano di Viktorija, anche lei bravissima, fammelo dire, nel ruolo di Nadja, e quella del cliente, lei dopo si ‘gratta’ via lo smalto dalle unghie. Ed è un gesto indicativo tanto quanto quello che hai descritto di “Sotto accusa”. Quando, invece, fa l’amore con Giulio e inquadro le loro mani al termine del rapporto, nel momento dell’orgasmo, insieme al tremore, volevo che sembrasse vergine. A dispetto del mestiere che aveva svolto sino a poco prima.

13). D / È una cosa che la accomuna a Whoopi Goldberg ne “Il colore viola” di Steven Spielberg. Chiedi al nostro amico Marco Castrichella, il titolare della videoteca “Hollywood – Tutto sul cinema”. Te lo può confermare. Viktorija Larčenko (nella foto), a parte i richiami, dona a Nadja un pathos memorabile. A dispetto del Globo d’oro vinto e dell’assegnazione dell’Annecy cinéma italien, che l’anno dopo ha premiato “Le quattro volte” di Michele Frammartino, “La bella gente” ha dovuto attendere sei anni prima di accedere alle sale commerciali. Come hai vissuto quest’ingiustizia?
R / Tu e Marco siete dei cinefili doc. Lui con la videoteca dei film d’autore, tu come critico. Mi fido sulla parola perciò. Ho visto molti meno film di voi. Faccio il regista e probabilmente c’è una sorta di trasmissione di pensiero con questi grandi precedenti che hai citato. Quello che m’interessa principalmente è difendere il mio lavoro. Tutelarlo. Quindi, per rispondere alla tua domanda, l’ho vissuta male l’ingiustizia che ho subìto quando il distributore ha bloccato l’uscita del film. Volevo a tutti i costi che uscisse. A costo persino di finire in galera. Era divenuta un’ossessione. Anche quelle scene con l’inquadratura delle mani mi rappresentavano come persona: io nella vita se vedo due che si baciano, mi sposto; questo modo di essere l’ho filtrato attraverso la tecnica e i dettagli ravvicinati. Il fatto che il film, e quindi pure dei particolari così veri per me, fosse condannato a sparire, senza vedere la luce, e arrivare in sala, era inaccettabile. Dovevo fare qualcosa per impedirlo. Per portare “La bella gente” in sala. Così lo proiettai in modo clandestino al Teatro Valle. Diedi alle forze dell’ordine un dvd vuoto. E mi tenni una chiavetta usb per proiettare il film. La solidarietà ricevuta in quell’occasione da molti addetti ai lavori, tra cui Antonio Catania, mi diede uno stimolo a proseguire per quella strada. Lottando per un diritto che sentivo calpestato. Segnalarlo era comunque un sollievo non da poco. Mi è piaciuto tantissimo, per inciso, lavorare con Antonio. Da buon siciliano, si fa rispettare. Ma è anche un gran signore, oltre che un attore di enorme talento. Rivedendo il film al Cinema Delle Province ho notato che funziona molto pure il suo umorismo. Le persone in sala ridevano di gusto. L’ironia nei film drammatici conta parecchio. Penso a “Gli equilibristi” anche. La signora che fa la fila dove lavora Mastandrea, invitata a cedere il posto a una persona anziana, risponde: «E io che so, un fiore?». 

14). D / Strappa la risata pure il cameriere, col piatto per Mastandrea, che gli dice: «Stai a scola che arzi la mano?». La censura del mercato, per un motivo o per l’altro, blocca anche ai film tragici muniti d’ironia l’accesso ai mercati di sbocco. Il tuo parere, alla luce di quest’esperienza, è decisamente degno di nota. Cosa pensi della condanna all’oblio per l’art-house?
R / Mia madre è una persona molto semplice. Non ha studiato tanto. Eppure, quando ero piccolo, lei e mio padre andavano al cinema a vedere i film di Jean-Luc Godard e Pier Paolo Pasolini. Quindi hai ragione: i film che fanno riflettere non dovrebbero circolare solo ed esclusivamente nei festival, nei circuiti alternativi e nei cineclub. La sala dovrebbe essere la loro destinazione. In modo che anche gli spettatori non intellettuali, ma incuriositi da qualcosa di differente dal solito prodotto d’evasione, possano vederli. Sarebbe, comunque, un discorso ampio da affrontare quello della distribuzione. È una questione complessa ed estremamente articolata. I rapporti tra distributori ed esercenti, le imprese major, le dinamiche che si devono creare per operare sull’intero mercato, in base all’offerta, o in uno spazio più ridotto, sono tutte cose che molti spettatori non conoscono. Il circuito commerciale del cinema d’autore – che a Roma comprende l’Eden, il Quattro Fontane, il Cinema Farnese, eccetera – va quindi lodato. Mi chiedo perché altri distributori ed esercenti siano così inutilmente cavillosi nei riguardi dei film d’autore che per loro non offrono le giuste credenziali dal punto di vista commerciale. Sembrano i vigili che vanno a cercare il triangolo nell’automobile. È una pignoleria senza senso. Quando poi, e ti dò pienamente ragione, quel tipo di cinema di pensiero ha tutte le carte in regola per piacere anche alle persone dai gusti semplici. È una variante rispetto ai film omologati. Con Valentina talvolta ci sentiamo come dei panda. Destinati a scomparire. Non è certo un progresso bloccare per ragioni poco sensate l’accesso a film che hanno la capacità di far riflettere gli spettatori. Se ci fosse più solidarietà, se ognuno desse una mano, questa situazione migliorerebbe. Invece la gente, in generale almeno, è pronta a stringere la mano al vincitore.

15). D / Specie nel mondo del cinema. La gente prima spreme un’arancia e poi ne spreme un’altra.
R / E io, Massimilià, preferisco non essere un agrume.
Le cose che fanno davvero male in questo ambiente restano i complimenti privati e le critiche pubbliche. I premi non sono determinanti, ma non nego che un riconoscimento faccia piacere. Ripaga anche dei sacrifici che si compiono per portare avanti il proprio lavoro in un certo modo. Senza snaturarsi per ottenere un numero di copie maggiore rispetto al solito. Senza cercare facili effetti né l’applauso della critica che conta. Che pure funge da elemento segnaletico per il pubblico che paga il prezzo del biglietto d’ingresso alla sala. Spero quindi, prima o poi, in una candidatura ai David di Donatello. Anche se quello che conta davvero per un film è arrivare alla sala commerciale. Altrimenti diviene tutto difficile. Il premio aiuta a trovare una distribuzione in grado di assicurarti l’accesso alle città principali. E quello è un qualcosa in più. Ma arrivare alla sala è una cosa che spetta di diritto. A cui un autore, grande o piccolo che sia, non deve rinunciare. E per la quale noi “panda” dobbiamo lottare.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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