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A colloquio con Mavina Graziani sulla forza ispirativa della recitazione

IL CARATTERE D’AUTENTICITÀ DI UN’ATTRICE CHE MANDA SCINTILLE NEL DRAMMA E SOGNA LA COMMEDIA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Emana davvero scintille creative che si accendono nella definizione dei personaggi che incarna. Dalla famiglia, costituita dall’affettuoso consorte e dai tre adorati figli, Mavina Graziani (nella foto nei panni di Ofelia in Shake Fools) trae linfa per anteporre alla superficialità del bel vivere l’alternativa, profonda ed empatica, del buon vivere. Che è tutta un’altra cosa. Lei, da romana, affezionata all’arguzia sardonica in grado di cogliere appieno l’emblematico non sequitur nelle pose ridicole delle false dive a caccia d’inquadrature lusinghiere, ha, insieme ai valori sani, anche le idee molto chiare: un conto è svolgere la professione della modella; un altro paio di maniche è l’aderenza al personaggio da interpretare

 

La bellezza, definita dal compianto e assennato Ermanno Olmi, una piacevolissima opportunità, certamente dà una mano. Tuttavia, terminato il periodo delle sfilate, a Mavina interessa soprattutto sfruttare adeguatamente le chance fornite dalla versatile carriera d’attrice. L’idonea qualità d’ispirazione – lungi dal soffocarne la naturalezza, agevolmente ravvisabile nel sorriso franco, nei modi spigliati e negli occhi vivaci che s’illuminano di un barlume quasi fanciullesco quando la conversazione cade sulla maestria della splendida Meryl Streep, che nell’indimenticabile mélo La scelta di Sophie riesce ad arrossire facendolo sembrare una passeggiata di salute – non contempla l’inane caccia ai larghi profitti né ai sorrisi di circostanza a beneficio dei paparazzi sul red carpet. Per carità: ben venga il successo. E con esso pure il tappeto rosso. Ma solo come una diretta conseguenza di un lavoro svolto con estremo impegno ed entusiasmo ininterrotto.

A fianco di Raoul Bova (nella foto), sul set della nota miniserie televisiva Ultimo – Caccia ai Narcos, si è respirata un’aria serena. A dispetto del copione incentrato sugli empi traffici della ‘Ndrangheta, in affari con i cartelli messicani di Tijuana, e sull’impari, ma nobile, lotta sostenuta dalla forza discreta, lontano dal trionfalismo, rappresentata dall’Arma dei Carabinieri. In Squadra Mobile, spin off della serie cult autoctona Distretto di polizia, sostiene invece la parte Assunta Ceravolo, vedova di un bandito, costretta a battere in ritirata, con buona pace dell’audacia esibita in principio, dinanzi ai tipi poco raccomandabili che cominciano ad attanagliarla. Il ruolo, simile, sotto alcuni aspetti a quello sostenuto dall’avvenente Chaterine Zeta-Jones in Traffic, restituendo, però, al contrario, pan per focaccia agli ex soci del losco marito, è agli antipodi rispetto al tran tran giornaliero coi propri cari. 

Nondimeno la sfida della recitazione consiste pure nell’esporre, all’apice dell’ansia, acuita dall’orrido sgomento, un’umanità arida, raccogliticcia, velleitaria e risentita. Diametralmente opposta alla solarità degli angeli del focolare alieni ai capricci, alle velleità, all’insulsaggine ad appannaggio del divismo spicciolo.

Un antidoto assai discutibile agli affanni quotidiani dei fan bramosi di autografi e d’inutili cimeli da ostentare come labari pregiati. D’altronde lo charme inespugnabile, cupo, giacché non esente da motivi d’inquietudine, connessi al profilo altero, frammisto, senza contraddizione alcuna, alla fulgida appariscenza passionale, di Greta Garbo (nella foto), scelta per raffigurare l’icona della 14ª edizione della Festa del Cinema di Roma, non è mica acqua fresca. E non si vede sicuramente tutti i giorni. 

Le reverenze, poi, nei confronti di effettive, o presunte star, bramate dalle masse incolte, non vengono minimamente previste dal pubblico capitolino. A stretto contatto con il Pontefice ed ergo distaccato dall’amministrazione della celebrità, nonché dai fan che si strappano i capelli, pur di toccare anche solo la mano agli interpeti ritenuti modelli di condotta ed eletti al rango di stelle del firmamento.

Quello hollywoodiano a Mavina è indifferente. Preferisce mille volte la virtù di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente. Tipica della commedia all’italiana. Di cui il concittadino Carlo Verdone è un degno erede. Anche se in maniera diversa dal geniale padre artistico Alberto Sordi. Meno propenso alla radicata uggia e alle tenere incertezze. Più bravo ad appaiare al millenario disincanto del popolo dell’Urbe l’incanto di attribuire alla finezza satirica lo spessore della tragedia greca. La fabbrica dei sogni della Settima Arte resta il traguardo da raggiungere.

Frattanto, nella piena consapevolezza che la capacità di cristallizzare l’azione interiore all’origine della complessità del sentimento è un training faticoso, né più né meno degli esercizi di sbarra per le ballerine, Mavina non disdegna affatto dar corpo e voce agli incubi. Vale a dire alla quintessenza del Rischio e della Minaccia agli occhi di una creatura muliebre, attinta all’Ofelia frutto dell’ingegno del Grande Bardo, che Manuela Tempesta e Giovanni Maria Buzzatti hanno impreziosito con i rimandi citazionisti a Tennessee Williams, Pier Paolo Pasolini, Bob Fosse, in Cabaret soprattutto, e ai recenti ed efferati fatti di cronaca ispezionati al microcosmo attraverso il filtro dell’aura contemplativa.

Nella pièce teatrale Shake Fools, oltre alla fragile Blanche DuBois impersonata da Vivien Leigh (nella foto) nell’applaudita versione cinematografica del dramma di Williams, Un tram che si chiama desiderio, la sua Ofelia richiama alla mente pure l’eterea Liv Tyler in Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci

 

Al di là dei richiami in filigrana e di quelli maggiormente scoperti, alieni comunque, sia in prassi sia in spirito, all’ormai logoro gioco postmoderno di stampo tarantiniano, nei molteplici sottotesti albergano ragioni intime ed elegiache che vanno oltre il limite del segno d’ammicco. Quantunque nella voce della stessa Manuela Tempesta, speaker cortese, seppur algida, del manicomio nostrano adibito a lavanderia, è assai agevole riscontrare un’evidente analogia con la glaciale Miss Rached di Qualcuno volò sul nido del cuculo. E nel manifesto dell’opera teatrale la farfalla sulla bocca dell’effigie femminile, simbolo dell’animo del gentil sesso da difendere dai predoni narcisisti, il ricordo dell’intenso thriller Il silenzio degli innocenti affiora risolutamente.

L’aderenza all’attesa delusa, frustrata di una ragazza già vittima di violenza, che scorge in un acerbo studente contestatario l’ambìto monito di speranza, tradotto ineluttabilmente in una fallace dea bendata intenta a presentare un conto oltremodo salato, ignora le pretenziose tecniche di estraniazione care all’Actors Studio.

Non aver frequentato l’Accademia, benché costituisca un cruccio, o se non altro uno scarto da risolvere il prima possibile, è divenuta un’ulteriore freccia all’arco della compenetrante dote spontanea. Che Manuela Tempesta, regista del grande schermo decisa a catturare altresì sulle tavole del palcoscenico i furori del cuore e i palpiti delle emozioni, è riuscita ad amalgamare con la ricerca dell’idonea sensazione fisica.

L’intesa venutasi a creare, piuttosto rara in un’epoca nella quale l’esteriorità ha la meglio sul bisogno di scendere nei meandri dello spirito, è divenuta la punta di diamante di un’immedesimazione totale. Estranea all’infecondo esibizionismo. Fedele, piuttosto, all’attitudine alla recitazione sorta nell’infanzia. Ed è una creatura ferita, nel fior fiore degli anni verdi, la sua Ofelia che concentra nel punto nevralgico del diaframma la sintomatica reminiscenza dello scempio patito. Somatizzando nel corpo, nelle calibrate reazioni mimiche, nei teneri ma fugaci sussulti di riscatto, in direzione del pubblico, l’anamnesi connaturata dell’illegittimità che grida vendetta al cielo.

La necessità di esplorare le ragioni più arcane ed eminentemente rivelatrici dell’agire congiunto alla riflessione punteggia finanche il ricorso alla bassa densità lessicale del romanesco colloquiale. Accompagnato nel ritratto di Desdemona (nella foto) dagli inconfondibili atteggiamenti attigui ai frequentatori dell’Università della strada.  Rivelabili nelle mani che mimano il megafono, vicino alla bocca, e in talune smorfie canzonatorie. Destinate a cedere il passo all’umilità di cedere ad altri le luci della ribalta. 

L’interazione tra termini arcaici ed elementi discorsivi non è un monumento innalzato all’improntitudine di una recitazione aristocratica. Al di sopra degli spasimi, delle svolte secche dei reietti, pronti a reagire, delle crisi di rigetto di coloro che vengono messi all’angolo, di deboli, silenti autodifese lacerate dal vacuo chiasso del parlato impulsivo. Dei clamori inutili congiunti alle assordanti grida di dolore. Con il pugnale puntato dietro la schiena e il “tortore”, di casa per molti abitanti dei sobborghi della Città Eterna, pronto ad abbattere il bocciolo della gioventù chiamatasi fuori dall’agone dell’assurda concorrenza. Nel sentimento creativo della recitazione – connessa all’aroma dell’inusitata solerzia – la superflua girandola delle attestazioni stima, dei supplementi di battimani e degli esuberi di aggettivi cede il passo a una certezza: il bello deve ancora arrivare.

Mavina ha la stoffa. Anche per sopperire alla foschia dell’angoscia con la grazia garantitale dai trascorsi nella danza e l’abitudine di stemperare nell’ironia l’altalena degli spossanti temperamenti. Il mondo, stufo delle solite lagne al pari della chiassosa allegria da strapazzo, necessita del tonificante timbro d’imprevedibilità della poesia. Perché le cose, quando si aspettano tinte di rosa, appaiono irrimediabilmente plumbee. E nel momento in cui viceversa l’abitudine alla demoralizzante catastrofe predomina, l’esuberanza vernacolare dei dialoghi – corroborati dall’incontestabile scioltezza degli intrecci brillanti – esegue l’ennesima sostituzione. Lei lo sa bene. Ed è quindi pronta ad accoppiare alla drammatizzazione degli eventi, evocati dalla guida provvidenziale dei classici, l’appagamento gioioso che preserva l’equilibrio. Pur colpendo alla mente, al cuore e allo stomaco. A Dio piacendo.

1). D / Dare spazio alla recitazione comporta il rischio di perdere il contatto con la realtà, e quindi con le cose che contano sul serio, o significa trarre linfa dalle fonti di vita?
R / Vuol dire credere totalmente, senza riserve, in ciò che si sta rappresentando e identificarsi nella vicenda che coinvolge i personaggi interpretati; come per l’Ofelia di “Shake Fools”: in quel momento io, fisicamente ed emotivamente, con tutta me stessa insomma, stavo nel lavatoio di Santa Maria della Pietà. Non c’era nient’altro. La fonte di vita era precisamente quella. L’adesione al grande dolore della fidanzata di Amleto, ai forti legami con l’attualità, a un’esistenza che non mi appartiene, ma costituisce una scoperta molto importante, è totale; consente di provare emozioni mai provate e di agire in maniera completamente diversa rispetto al tran tran d’ogni giorno. Ed entrare, quindi, nei panni di un’assassina, o di una vittima, provando le stesse sensazioni che provano loro. Attraverso pianti, risate, silenzi, dolori nascosti od ostentati. È un mezzo conoscitivo fuori del comune. Perché nel processo di comprensione con figure distanti da noi – siano esse sadiche, masochistiche o schizofreniche, comunque tormentate da una patologia particolare – s’innesca spesso anche un altro meccanismo. 

 

2). D / Ed è quello che investe la sfera dei sentimenti personali. Quanto conta trarre linfa dalla verità delle passioni?  
R / Conta tantissimo. In qualsiasi personaggio che interpreto cerco sempre una chiave d’accesso per andare in profondità. Se la sua emotività, connessa alle sofferenze ma pure alle gioie e alle attese, non corrisponde alla mia, nella sfera tanto del quotidiano quanto degli affetti intimi, compio una sostituzione. Io, a differenza del personaggio di Ofelia in “Shake Fools”, non ho mai subìto abusi. Tuttavia sono entrata in empatia con il suo animo ferito. Facendo leva sulla mia esperienza individuale, quantunque diversa, e ancor più sulla sensibilità femminile, per immedesimarmi in lei.

3). D / In tal modo l’esistenza incorporea del personaggio acquista notevole rilievo. Unendo alle circostanze esteriori, elaborate della trama, la profondità dell’io interiore. L’arte recitativa, quando non si perde in pose superficiali, elude, perciò, lo scoglio dell’infecondo autocompiacimento?
R / Sono contro le pose vanesie. Per chi recita, nello scoprire nel lavoro sul personaggio tante cose che prima non conosceva, in grado d’impreziosire il proseguimento della carriera, fungendo da stimolo, l’autocompiacimento è un ostacolo. Anche la riconoscibilità, gli autografi, le sfilate sui tappeti rossi delle kermesse cinematografiche, per quanto possano essere divertenti e in qualche misura gratificanti, devono cedere spazio ai valori veri. Che contano realmente.

4). D / Come gli applausi del pubblico a teatro?
R / A teatro il contatto diretto col pubblico crea un’atmosfera molto significativa. In cui tutto è amplificato. Anche qualcosa di poco corroborante a volte. Tipo lo squillo di un telefonino cellulare nel momento di maggior concentrazione ed emozione. Con tanto di musichetta del tutto fuori luogo. E, allora, si fa finta di nulla per continuare ad aderire allo spasimo, alla contentezza, alla carica comunicativa del personaggio.

5). D / The Show Must Go On. Alla fin fine anche l’intoppo, secondo i princìpi della resilienza, funge da pungolo?
R / Mah, in fondo sì. A pensarci bene, può fungere da stimolo. Per dimostrare che la verità che si vuole trasmettere è forte. E non cede alla distrazione o all’irritazione. In ogni modo l’atmosfera bellissima, magica aggiungerei, che si crea a teatro ripaga di qualunque intralcio. Perché si sentono in modo palpabile i sospiri, la partecipazione degli spettatori in sala. Per cui quando si levano gli applausi se ne percepisce la sincerità. Ed è un’energia stupenda. Che spinge a proseguire nel mestiere dell’attrice. Affrontare determinati personaggi, senza essere persone sane, ponderate intendo, con dei valori basati sulla sostanza, ma non sull’effimera apparenza, di per sé è molto pericoloso. Diviene necessario focalizzare il context professionale, in questo caso il teatro connesso al  pubblico, dando importanza alla preparazione, allo studio, impegnativo al massimo, per poi tornare alla propria vita. A mio marito, ai miei figli, alla dimensione domestica, per quanto riguarda la sottoscritta. Con la cognizione di tornarci appagata dagli applausi. 

6). D / È un Do Ut Des. Gli applausi sinceri premiano la franchezza di una performance che non va pescare nelle deleterie tecniche di estraniazione. Bensì nella fragranza degli affetti intimi. Spesso gli interpreti sono assurti a modelli dagli spettatori, sulla scorta dell’ingenuo ma naturale processo d’identificazione, e il filo tra arte ed esistenza talora appare molto sottile. È una responsabilità o una scocciatura?
R / Si tratta, senza alcun dubbio, di una responsabilità considerevole. Ci si può sottrarre alle facili lusinghe ma non al dovere d’impersonare sentimenti ed emozioni che toccano corde decisive per il pubblico. E questo comporta un impegno costante. Soprattutto sul versante dell’approfondimento. Non si finisce mai d’imparare. Io sono diventata mamma a vent’anni. Ed è stata una gioia immensa. Che non mi ha permesso però di fare l’Accademia di recitazione. Quindi, visto che non volevo togliere a mio figlio ore preziose da trascorrere insieme nei suoi primi anni di vita, ho dovuto necessariamente seguire un percorso alternativo. Per conferire, in ogni modo, attendibilità, impeti, nostalgie nel nucleo dell’opera rappresentata. Accrescendo l’immedesimazione degli spettatori con la trama. Apparire falsa, poco credibile, in una situazione dove affiora la sincerità delle passioni è una disdetta. Risultare vera, non solo credibile, attingendo alle emozioni segrete, invece, è motivo di soddisfazione e anche una spinta decisiva. Oltre che una responsabilità.

7). D / Risulta, al contrario, una iattura l’impasse che spinge i fan ad attribuire un valore morale alla celebrità e al culto dell’avvenenza. Superare gli ostacoli equivale a trascendere altresì inutili idolatrie. La sua prova nelle vesti di Ofelia è frutto di un rapporto di amore/odio col personaggi ed ergo del superamento di un altro impasse od ostacolo che dir si voglia?
R / Il personaggio di Ofelia mi faceva parecchia paura proprio in relazione all’immensa responsabilità nei confronti del pubblico. Per non attingere a dei meccanismi fittizi, rigidi e quindi poco veritieri. Volevo che la realtà del dolore di una ragazza tradita dai sentimenti, illusa, delusa, che alla fine chiude il conto col passato, arrivasse agli spettatori. Ma temevo di non riuscire a trasmettere questo carattere d’autenticità. C’erano degli ostacoli da superare, come sottolinea giustamente lei. Da lì deriva un evidente rapporto d’amore e odio per un ruolo che tocca temi per me fondamentali. Chiunque abusa di una donna, sia fisicamente sia sul piano psicologico, danneggia l’anima. Che è un bene prezioso. Enorme. Ed era fondamentale trovare una chiave interpretativa, vicina all’animo femminile, a beneficio degli spettatori sensibili ai versi di Shakespeare. Che Manuela Tempesta (nella foto), nel connettersi a questo strano, assurdo mondo del teatro, partendo dal cinema, ha reso ancor più chiari al pubblico unendoli ai fatti di cronaca e a delle profonde dinamiche di coppia. Dolorose ma veritiere. Sta lì la “genialata”. 

 

8). R / Concordo. Manuela Tempesta ama in modo viscerale il rapporto tra immagine e immaginazione proprio del cinema. A teatro, con “Shake Fools”, ha dimostrato di saper adattare l’estro immaginifico alla durezza oggettiva congiunta ai temi trattati.  Fra di voi si è creata un’intesa degna di encomio. Come l’ha aiutata ad aderire a una figura così significativa?
R/ Significativa e, quindi, torno a ripetere, anche molto impegnativa. Con Ofelia mi sono paralizzata la cervicale, ho vomitato dopo le prove, mi è venuta la febbre! La sera della prima avevo trentotto e mezzo. Stavo sotto antibiotici. Il mio fisico ne ha risentito. Ma la mia mente e il mio cuore ne hanno giovato. Grazie principalmente all’aiuto costante fornitomi da Manuela. Che non mi ha mai lasciata sola con i dubbi, le esitazioni, la frustrazione e la rabbia. Manuela ci tiene davvero agli attori e, in particolare, alle attrici. La recitazione per lei non è una semplice pedina nello scacchiere della regìa. Ma costituisce un aspetto decisivo alla riuscita dell’esito artistico dell’opera da rappresentare. Tanto al cinema quanto sul palcoscenico. E perciò riesce a supportare il cast puntando sulla sua cura per i dettagli.  Inoltre, personalmente, ha dimostrato tatto. Spingendomi ad acquisire ulteriori stimoli creativi, quando la prova non stava dando i risultati sperati, senza mai, nemmeno per un secondo, apparire prevaricante. Ha rispettato i miei momenti di sconforto e ha capito come risvegliare il mio entusiasmo, momentaneamente svanito, per il personaggio di Ofelia. La gratificazione migliore consiste nell’aver dato vita a qualcosa che rimarrà nella memoria di chi ha assistito allo spettacolo.

9). D / Sempre in “Shake Fools”, nel ruolo della Desdemona modellata sull’esempio di una ricca rampolla, che antepone l’umiltà alla superbia, ricorre alle forme-bandiere del romanesco. La componente parlata permette di gettare una luce inedita sul personaggio?
R / Il personaggio di Desdemona mi ha permesso di mostrare varie sfaccettature. Passando dal sarcasmo, il sussulto, se vuole anche d’intolleranza, nei riguardi della zingara, che non afferra il richiamo romantico al cantante Francesco De Gregori, sino all’umiltà, come ha ricordato anche lei, nel ripercorrere le tappe della propria vita. Che collimano nell’incontro con Otello. Io, come abitudine, parto dal linguaggio del corpo. E poi aggiungo la parola. Il ricorso alla romanità, a supporto di questi passaggi, non privi, almeno all’inizio, di una certa ironia, è divenuto un valore aggiunto. Interpretare personaggi così diversi, come Ofelia e Desdemona, una insicura, l’altra sicura del fatto suo, benché destinata a soccombere, spinge ad affinare le qualità interpretative. È un impegno faticoso, ribadisco. Fatto di studio, di un’introspezione pazzesca, per ricreare certe presupposti interiori ed esteriori, del coraggio di scavare, a quattro, cinque mani dentro di sé, comunicando negli sguardi, nella mimica, nella parola, nei soprassalti di orgoglio o di rabbia, nelle reazioni irrazionali, nervose, istintive, qualcosa che lascia il segno. Per migliorarsi bisogna studiare le altre persone, comprenderne il linguaggio del corpo, come elaborano mimicamente le loro emozioni. Capire dove si va a scaricare la tensione. Afferrare le ragioni segrete dei tic e della gestualità. 

10). D / Denota impegno e l’audacia di scorgere dentro di sé la natura primitiva degli input e quella cerebrale relativa all’elaborazione delle emozioni?
R / Chiunque di noi, se gli buttano un bicchiere d’acqua addosso, ha una reazione istintiva. Che si evidenzia nel balzo nervoso. Il primo approccio che bisogna assimilare è quello reattivo. Poi viene quello emotivo. Infine sopraggiunge la razionalità.

11). D/ La presa di coscienza, pertanto. Quella che in poesia è definita aura contemplativa.
R / Sì, in un certo senso. Perché richiede un enorme lavoro su se stessi. Per riflettere sugli impulsi, sui desideri, sulla complessità di certi sentimenti. Ed è lì che una regista della bravura di Manuela Tempesta dà il meglio. Mi sono sentita supportata in un percorso non facile. Ma, alla fine, gratificante. In quanto ho lavorato sulla componente parlata, sulle espressioni vernacolari. E nel frattempo pure sul diaframma, come ho detto, sui dolori nascosti, sulla capacità di capire gli input provenienti dai traumi, dai ricordi, dall’istintività e dai diversi criteri prospettatemi da Manuela. Con cui abbiamo stabilito un feeling unico. Ci siamo ritrovate abbracciate in lacrime, una volta calato il sipario, perché la creazione artistica raggiunta lavorando di comune intesa è stata un’autentica vittoria per entrambe.

12). D / Le lacrime, presumo, erano dovute pure alla mestizia per la fine dell’avventura di “Shake Fools” al Teatro Trastevere. Ci vuole una sorta di elaborazione del lutto in questi casi?
R / Eh! Nel modo più assoluto. Ti assale la malinconia e la nostalgia. D’altronde quando si vive con tanta intensità un’avventura del genere, ci si affeziona alle persone con cui dividiamo il tempo. Trascorso ad acquistare nuove conoscenze dell’arte di recitare, nuovi testi, nuovi significati, nuovi modi di approcciarsi ai personaggi da interpretare. Diventa una famiglia. Quando tutto finisce, mancano le risate stemperanti. La sofferenza, sana come l’ha definita lei, il sudore, vero e proprio, sotto le luci dei riflettori, gli applausi scroscianti che ripagano dei sacrifici compiuti. Ed è necessaria un’elaborazione. Fortunatamente esistono nuovi impegni. E di conseguenza, spero, altre emozioni simili. 

13). D / Far parte del cast delle serie tv, rispetto a questo tipo di emozioni derivate dal teatro, permette di entrare nelle case di milioni di fruitori. L’ovvia nozione di visibilità scambia, citando Leo De Bernardis, “il diritto di esprimersi con il dovere di sapersi esprimere” o è la pittura di un altro sogno?
R / Esprimersi, per quanto mi riguarda, è un diritto. Che bisogna guadagnarsi attraverso la comprensione delle situazioni in cui si opera. Dal teatro al piccolo schermo, la televisione, che pure rappresenta un’ottima opportunità, fino al grande schermo. Che costituisce il punto di arrivo di chiunque ami profondamente la professione dell’attore e dell’attrice. È lampante che a teatro il processo di creazione della recitazione comporta, come ho più volte rimarcato, uno sforzo considerevole. Tuttavia, con procedure diverse, relative alla natura del mezzo televisivo, chi recita può contribuire al buon esito, anche artistico, del messaggio che si vuole trasmettere. Se tutto ciò è vissuto come un dovere, un imperativo, che può diventare assillante, è meglio non fare questo mestiere. Insieme al capo del mio ufficio stampa, Francesco Fusco (nela foto), che è pure un amico fraterno, siamo intenzionati a selezionare con cura le offerte che provengono da ogni parte, inclusa la televisione, per non scendere a inutili e dannosi compromessi. Far parte di una serie tv non deve essere un obbligo, né un compromesso, per ottenere un alto grado di visibilità. Bensì è qualcosa d’importante e di diverso dal teatro che si va ad aggiungere all’attività di attrice. 

 14). D / Nel cinema le star hanno la facoltà di incidere sulla scrittura per immagini dei film scegliendo le inquadrature in grado di porne in risalto la carica comunicativa dei loro volti. Popolarità e talento coesistono meglio in questo contesto?
R /L’abitudine da parte degli interpreti famosi di pretendere le inquadrature capaci di farli risaltare di più, a discapito dei piani di lavorazione e della struttura del film, in Italia è molto diffusa. Là sopraggiunge il narcisismo. E non può ci stare nel momento comunque creativo della recitazione. Non è possibile pensare: so’ bella, so’ bona, so’ io. È il personaggio quello che conta. La notorietà non può che far piacere. Non per preferire, però, il fanatismo alla competenza. Anzi è uno stimolo ad accrescere la preparazione. Più persone ti seguono, più aumenta la responsabilità di fare le cose con estremo impegno.

15). D / L’arguto regista Giovanni Pastrone, il Papà del pionieristico peplum Cabiria per intenderci, confidò all’esimio storico del cinema Mario Verdone (nella foto insieme al figlio Carlo) che un regista deve rispettare i valori commerciali. Ritiene anche lei che per arrivare al pubblico bisogna saper essere profondi senza mai risultare pesanti?
R / Certamente. Occorre farsi capire. Sennò è tutto inutile. Dagli sforzi dei registi cinematografici a quelli degli interpreti. Il messaggio deve arrivare in maniera chiara. Il ché non significa superficiale. Però il pubblico ha bisogno d’identificarsi in vicende comunque affascinanti. Anche se legate alla sofferenza. Da attrice ritengo il figlio dell’apprezzato storico, Carlo Verdone, un mito. Una persona ricca di umanità, un attore con la battuta sempre pronta, un Maestro. Che starei ad ascoltare per ore. Senza mai avvertire la benché minima noia. Anche in virtù del suo inconfondibile senso dell’umorismo legato a una grandissima sensibilità. Lavorare con lui dietro la macchina da presa, a impreziosire con le proverbiali note ironiche l’approfondimento di quelle intime, sarebbe un sogno. Chissà. 

16). D / Lei dedica molta cura allo studio del canto. Ed è un’esperta di danza. Padroneggiarne le varie tecniche rappresenta, per dirla come Eugenio Barba, un modo per dar vita all’azione del pensiero?
R / Sono un po’ ossessionata dal perfezionismo. Non mi fermerei mai. Ho praticato un sacco di sport: pattinaggio sul ghiaccio, nuoto, pallavolo, basket ed equitazione. Deriva tutto dalla mia inesauribile curiosità. Non escludo di riprendere il sogno di frequentare l’Accademia di recitazione, trasformandolo in realtà, nell’immediato futuro. Detto questo, al di là dell’impostazione che mi ha fornito la danza classica, come ogni disciplina, ho imparato a dar vita all’azione del pensiero, per rispondere appieno alla sua domanda, seguendo altri percorsi di formazione. Legati alla recitazione. L’immedesimazione in un ruolo, provando determinate cose, dal dolore alla sorpresa, fa sì che il corpo reagisca immediatamente di conseguenza. Si vivono realmente certi sentimenti e le reazioni, pure fisiche, agli eventi. Il corpo, in quei casi, risponde da solo. Probabilmente la leggiadria e la disciplina fornitemi dalla danza hanno influito sul modo di rispondere. In rapporto al processo di analisi del personaggio e a quello di creazione. Mi piace prendere spunto in queste fasi dalla gente che mi circonda. Per tirar fuori la verità. Farlo anche come attrice brillante, capace di indurre alla riflessione ma anche di strappare una risata dietro l’altra, è il massimo. Spero di averne presto la possibilità.

MASSIMILIANO SERRIELLO

 

 

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