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A colloquio con Pal ‘e fierro sul calcio che non c’è più

L’ANTIPERSONAGGIO CHE CEDETTE LA FASCIA RESTANDO CAPITANO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Maurizio Costanzo, non uno qualsiasi nel mondo della comunicazione e del giornalismo, ritiene che «nel meraviglioso mondo è difficile creare dei miti ma facilissimo cercare di abbatterli». Concordo, aggettivo a parte, sulla prima affermazione. Dissento, con tutto il rispetto, dalla seconda. Il più grande personaggio che ho visto calcare i campi di calcio della massima serie autoctona e dell’affascinante ma impervia Coppa dei Campioni, rinominata Champions League, è stato Gianluca Vialli. La persona più dura nella lotta e leale nell’animo che abbia visto giocare si chiama Giuseppe Bruscolotti. Soprannominato, con cognizione di causa, Pal ‘e fierro.

Il compianto giornalista partenopeo Italo  Kunhe – storico cronista televisivo per conto di Mamma Rai della cavalcata del Napoli nella stagione del campionato italiano di calcio 1986-1987 che si concluse col primo palpitante scudetto dell’ormai attrezzatissima squadra del Ciuccio, in grado per di più di sfatare parecchi luoghi comuni, sugli asini che volano e i sogni pindarici all’ombra del Vesuvio – sosteneva che Pale e’ fierro fosse fatto di acciaio temperato. Lui, Giuseppe chiamato affettuosamente Peppe dai compagni di squadra che lo hanno eletto a leader taciturno ed ergo concreto cementandone anno dopo anno l’investitura, ha un carattere schivo. Alieno alle chiacchiere. Alle ostentazioni di stima. All’atmosfera guascona della Nazionale di calcio con Azeglio Vicini commissario tecnico in cui Vialli era il riferimento per tutti i punti.

Pale e’ Fierro, sia pure al viale del tramonto, deciso a cedere la fascia di capitano a Re Diego Armando Maradona (nella foto con Bruscolotti) con la promossa solenne di chiudere la carriera con lo scudetto sul petto (promessa mantenuta), non aggrediva: reagiva. Non offendeva: si difendeva. E anche bene. Quando il Pibe de Oro, come veniva chiamato Maradona in Argentina sin dagli esordi, giunse a Napoli, nella stagione 1984-1985, in una squadra francamente non ancora pronta per il salto di qualità, ad accorgersi che il soprannome Pal ‘e fierro non era frutto delle banalità scintillanti delle etichette dei tifosi con la tentazione dell’iperbole fu un esterno offensivo molto quotato in ambito internazionale: Preben Elkjær Larsen. A sua volta soprannominato Cavallo Pazzo. Rivelatosi un Pony intimidito dalla legittima reazione del terzino destro nativo di Sassano, in provincia di Salerno, col Cilento a un tiro di schioppo, chiuso, a differenza dei vocianti ed estroversi napoletani, fermamente intenzionato a difendere la corsia, amica dell’ordine naturale delle cose, dalle sortite offensive dell’attaccante in odore di Pallone d’oro. Vinto poi da Platini. Un altro pianeta. Non solo nella tecnica. Nella classe. Nella visione di gioco. Ma anche se non soprattutto nello stile. Elkjær, dopo aver piantato una gomitata sul petto del diretto marcatore campano, capii di aver dato avvio alle danze. Nondimeno non volle ballare. Il Verona, la squadra scaligera destinata a giugno ad aggiudicarsi il suo primo e sinora ultimo scudetto, in quel match d’inizio campionato si affidò più a “Nanu” Galderisi, un centravanti tanto piccolo quanto guizzante, e ad Antonio Di Gennaro, il metronomo del centrocampo, per conquistare i due punti (il terzo come posta in palio della vittoria secca arrivò nel 1994).

Elkjær le diede. Ma non seppe prenderle: si lamentò all’uscita dal campo mostrando i segni delle “carezze” ricevute coi tacchetti da capitan Bruscolotti, mentre il sanguigno cursore del centrocampo azzurro Salvatore Bagni gli rimproverava  di aver rispedito al mittente la mano tesagli sportivamente per alzarlo da terra (un gesto turpe). Nel secondo tempo Bruscolotti, stufo delle provocazioni da busta gialla che fa la spia al commissariato, perse la bussola: lo trasformò da Cavallo Pazzo e Pony introverso a gambero, costringendolo ad indietreggiare nel testa a testa. Guadagnandosi, si fa per dire, in anticipo la via degli spogliatoi: espulsione evitabile per il terzino destro dai nervi solitamente d’acciaio. Da allora il presunto Cavallo pazzo, che segnò alla Juventus senza il calzante perso sul campo del piede fortunato, tenne con Bruscolotti due piedi in una scarpa: s’informò col portiere Claudio Garella, passato da portafortuna coi guanti per le prime volte che lasciano il segno dal difendere i pali del Verona all’uscire pure di piede per mantenere inviolata porta del Napoli, su chi sarebbe stato della partita; evitò come la peste i chiarimenti faccia a faccia, la prassi del cosiddetto “blocco” con la complicità del cameratismo di squadra all’imbocco del tunnel degli spogliatoi e persino il calumet della pace sotto forma di stretta di mano. Che ha origini antiche: significa ti porgo la mano destra e stringo la tua mano destra. La mano con cui s’impugna la spada e con cui si presta giuramento. Gli porse la mano il giorno dello storico scudetto del Napoli l’ex compagno di squadra Ramón Díaz. Negli spogliatoi anni addietro, lontano dagli sguardi indiscreti e dai flash dei fotografi, Bruscolotti gli diede quella che a Roma viene chiamata una cinquina. Il talento, repetita iuvant, da solo serve a poco. Serve il carattere di squadra. E il rispetto per i tifosi che ogni domenica gremiscono lo stadio di casa per sostenere la squadra. Allora in lotta per non retrocedere. Il dribling saettante, le movenze da danzatore sopraffino della sfera di cuoio, il senso del gol della punta rediviva (col Napoli segnava ogni morte di Papa) erano fuori posto. Oltre a costituire una contraddizione in termini. Quindi dopo l’invito a guardarsi intorno nel ritorno a Canossa il giorno dello scudetto, a non pagare dazio all’incoerenza, al passaggio dal menefreghismo indolente all’iniziativa irriguardosa un intervento deciso ci stava tutto. Con la lealtà del veterano che lo rialza in piedi. Che non si tira indietro dinanzi all’invito ad anteporre, una volta ristabilito l’ordine naturale, un ramoscello di ulivo all’alloro. Il simbolo della guerra. Naturalmente sportiva. Finita a tarallucci e vino in quell’occasione: Napoli campione; Fiorentina, a rischio retrocessione (la vita è una ruota), salva per il rotto della cuffia. Scesa a più miti consigli pure per merito del taciturno capitano in spirito. Che di presenza pesa le parole, le sue e quelle altrui, applicando in termini pratici l’adagio popolaresco.

L’anno precedente, con il Mondiale di calcio di Mexico ’86 alle porte, nell’ultima giornata di campionato si confrontavano sul piano della corsa, della resistenza fisica, della velocità, della tenacia il terzino destro temprato nell’acciaio e l’ala sinistra che alcuni futuri colleghi giornalisti paragonavano a Gigi Riva a cui il decano dei cantori delle imprese sportive sui rettangoli verdi diede il nome di battaglia di Rombo di tuono: Bruscolotti e Vialli (nella foto). Il Napoli si era rafforzato: chiudeva il campionato a sedici squadre al terzo posto; la Sampdoria stava, invece, nella parte destra della classifica. Vialli, solitamente grintoso in campo ed educatissimo fuori dal campo, giocava coi calzettoni abbassati, con i polpacci nudi, come atto di sfida ai difensori; se la prese col compagno di Nazionale Salvatore Bagni. Uno con la medesima abitudine a porsi nel gruppo ora come il più spassoso dei guasconi e l’artefice di memorabili scherzi, ora simile a un capitano di ventura. Era compito del giocatore esperto calmare gli animi. Della persona coi piedi per terra far capire ai personaggi arruolati alla causa azzurra che li attendevano da lì a poco ben altre battaglie. Contro l’Argentina di Maradona. Lo scugnizzo di Villa Fiorito che mantiene le promesse a differenza dei connazionali tipo l’asso ribelle Sivori, che alzava polvere coi calzettoni abbassati, per poi incassare lo schiaffone del  saggio compagno di squadra dalla mole grande quanto il cuore, e Diaz. Rapido ma abulico. Vialli rispose a muso duro a Bruscolotti. Anni dopo fece lo stesso con Carletto Mazzone. Che se ne lamentò ai microfoni dei giornalisti televisivi. Affermando di non aver reagito perché temeva una squalifica. Bruscolotti, estraneo alle sparate grosse, alle smargiassate, al caos di chi fa tanto fumo e poco arrosto, reagì. Avvertendolo: «Guardati le gambe».

Sapeva che Vialli, fior di giocatore, si sarebbe involato sulla fascia di sua competenza. La sinistra per lui. La destra per Pal ‘e fierro.  Aveva marcato Riva. In quel caso da giovane difensore che cerca di limitare le folate della punta mancina insidiosa, se non letale, ed esperta. Ricevette i complimenti dal vecchio leone. Quattordici anni più tardi non poteva accettare l’indolenza della giovane promessa col fuoco nelle vene. Vialli andava ridimensionato. Evitò di maramaldeggiare. Risparmiandogli gli stinchi nudi. Il calcione, detto ciò, fu ben assestato. Vialli ruzzolò vicino alla panchina del Napoli. Con l’amico Ciro Ferrara che rideva di gusto. Destinato ad ammirarlo come compagno di squadra in Nazionale e nella Juventus. Anche quando Vialli lo mandò a gambe all’aria rifiutando l’abbraccio dopo un gol per non dare agli avversari modo di rifiatare. Cose da campo. Le lezioni di vita dei leader sportivi, consapevoli che le botte si danno e si prendono, non c’entrano tuttavia nulla coi disvalori spacciati per valori. Nell’estate del trionfo della compagine napoletana capitanata dal fuoriclasse argentino e sorretta dalla calma dei forti ad appannaggio del terzino di Sassano venne presentato l’onore delle armi al collega di poche parole e tanti fatti. Il diritto all’autorità in qualsiasi ambito dove occorre un leader trascende le disquisizioni tecniche sui portatori di geni nello sport, sulla preselezione nel gioco del calcio, sulla grinta dei marcantoni, sugli svarioni dei brocchi dai piedi di legno, sul lavoro sporco dei portatori d’acqua, sulla capacità di ottimizzare gli scatti per arrivare alla conclusione a rete mandando a vuoto il marcatore diretto. Al tavolo di Peppe Bruscolotti quell’estate in un noto ristorante della Sardegna turistica ed elitaria mandarono una bottiglia di champagne ghiacciato. Il cameriere indicò a Pal ‘e fierro Gianluca Vialli. Seduto a un tavolo distante con l’amico per la pelle Roberto Mancini.

Bastò un cenno col volto a entrambi. Col sorriso che increspò la maschera granitica di Bruscolotti. Pronto ad affrontare la sfida più tosta della stagione seguente: i match di andata e ritorno contro i  Galácticos del Real Madrid in Coppa dei Campioni. L’urna del sorteggio mise a dura prova i deboli di cuore: allora si sfidavano solo ed esclusivamente le squadre campioni dei rispettivi campionati. Serviva un’impresa. Il Napoli la sfiorò. In campionato sembrava non esserci storia. Ma il Milan dello straripante Ruud Gullit, un gigante buono alla Charles con la pelle color ebano e le treccine da rasta, ebbe la marcia in più nello sprint finale. Quello decisivo. Maradona nella sfida clou allo stadio San Paolo che oggi porta il suo nome parlò di marcia indietro del Napoli. Fermato sul pareggio la domenica precedente dal Verona del redivivo Cavallo pazzo danese. Bruscolotti non c’era. Ma scese in campo contro il Milan. Gli anni, ahinoi, passano. I riflessi non sono più quelli d’un tempo: è la dura legge dello sport. Che i giocatori duri nella lotta ma leali nell’animo sanno accettare senza addurre scusanti. La domenica seguente Bruscolotti dovette guardare senza giocare l’ex abulico compagno di squadra Ramón Díaz capitalizzare con la maglia numero nove della Fiorentina lo sbandamento partenopeo. Quei due gol dell’argentino non sono frutto del carma. O del modo di dire «chi la fa, l’aspetti» tradotto in amarissima realtà. Le cose da campo riguardano le sane reprimende, gli atteggiamenti anarchici dei giocatori talentuosi che danneggiano il carattere di squadra, l’umiltà, profondamente consolidata  nei leader taciturni, i tocchi semplici, a due passi dalla porta, lo sforzo necessario per mantenere i nervi saldi, la disciplina, l’impegno, l’ossessione della vittoria, la capacità di accettare le disfatte. Anche se clamorose, definitive. Nella domenica appresso, la più triste dell’ultimo campionato a sedici squadre, la matematica condannò il Napoli. Privo dei leader storici: Moreno Ferrario, Bruno Giordano, Claudio Garella, Bagni e Pal ‘e fierro. Vialli con la maglia blucerchiata della Sampdoria prevalse sull’amico Ferrara. Ma dopo aver segnato il gol del 2 a 1,  consolò il compagno delle sfide con la maglia azzurra dell’Italia.

Bruscolotti, giunto alla fine della carriera, appese gli scarpini al chiodo con lo scudetto sul petto. Scucito dai diavoli rossoneri. L’orgoglio con tutto ciò era intatto: rifiutò di portare la borsa al direttore generale del Napoli, Luciano Moggi, cadde in depressione, si rialzò, supportato dalla dolce metà. Lascia il ricordo indelebile di un difensore destro bravo a non far girare l’attaccante di sua competenza. Un giocatore senza i mezzi tecnici dei fuoriclasse del ruolo. Come Cafu. Il Napoli nel 1990 vinse sul filo di lana il secondo scudetto della sua storia a spese del Milan. Bruscolotti era ormai un ex. Una sorta di monumento vivente per tifosi azzurri. Con Vialli si sono rivisti nella partita d’addio al calcio di Ferrara. Il mito di Ciro resta in ogni caso Pal ‘e fierro. I monumenti secondo Indro Montanelli, il miglior giornalista italiano di tutti i tempi, perdono la loro marmorea immobilità quando ne affiora, insieme all’incrollabile umiltà e alla debita fierezza, l’Umanità. E Bruscolotti è ricco d’Umanità. Ho deciso di dargli del “tu” per non cadere nell’impasse dell’ammirazione incondizionata. Sprigiona in ogni caso schiettezza da ogni poro, sta sulle sue preservando però in filigrana il valore terapeutico dell’ironia vera. Ecco la nostra chiacchierata.

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1). D). 16 settembre 1987. Per la prima volta che il Napoli disputava una partita di Coppa dei Campioni. Fu una partita da dimenticare o da ricordare?
R / Io non la dimentico. E nemmeno i tifosi del Napoli. Il risultato (2 a 0 per il Real Madrid) non ci premiò. Ma la nostra prova fu buona. Sfiorammo un gol clamoroso con Bruno Giordano (nella foto).

2). D) Da capociurma coi galloni lo rimproverasti per quell’occasione buttata al vento o ti limitasti a chiedergli soltanto una spiegazione?
R / La seconda che hai detto: gli chiesi spiegazioni; volevo capire. Anche perché Bruno il pallone l’indirizzava dove voleva; era un centravanti tecnico. Abile. Mi rispose di aver perso la dimensione della porta. Che sebbene vuota confuse con gli spalti. Altrettanto vuoti. Così finì che il pallone lo spedì al vento. In curva per la precisione. Può succedere.

3). D).  Cose da campo. Con Santillana (nella foto), lo storico centravanti dei Galácticos, fu un bel duello tra due giocatori-simbolo a fine carriera. In un campo caratterizzato dall’atmosfera surreale per via dello stadio vuoto a causa di una squalifica. La ricordi come una partita inasprita dalla voglia di vincere?
R / Loro sono ed erano la squadra di calcio più blasonata al mondo. Noi degli esordienti. Ma orgogliosi. Decisi a vendere cara la pelle per non fare la figura degli ultimi arrivati. In campo la sfida fu tosta. Abbiamo versato ogni goccia di sudore. Senza mai tirare indietro la gamba. E loro hanno fatto altrettanto. Una partita maschia. Volevamo vincere. O, almeno, convincere. Guadagnarci il rispetto di chi ci considerava una squadra forte in Italia ma una squadra materasso in Europa.  Tutto sommato sul rettangolo di gioco non si andò mai oltre il consentito. Rientrava tutto nella foga agonistica. E hai ragione: sono cose da campo. Fuori dal campo l’allenatore del Real Madrid, invece, andò fuori dal seminato. Esagerò. Ci fece incazzare.

4). D). Era una tattica. Per farvi perdere la concentrazione. Fu furbo?
R / Più che altro fu uno stronzo: ci chiamò mafiosi. Ci offese profondamente. A quel punto lo inseguimmo negli spogliatoi.

5). D). Quanno ce vo… All’andato hai giocato col numero 2 sulle spalle. Ciro Ferrara, il tuo pupillo, col 3. La maglia di Francini. Che al ritorno vi ha illuso segnando il gol dell’uno a zero. Ti pesa ancora esserti accomodato in panchina sul più bello?
R / Le decisioni dell’allenatore vanno sempre accettate. È chiaro che avendo sempre giocato titolare speravo di farlo anche e soprattutto in quella circostanza. Si trattava di un match decisivo. Se avessimo superato il turno ci saremmo scrollati di dosso l’etichetta di matricola. Di squadra inesperta. Sono ed ero un uomo ragionevole. Compresi il punto di vista del nostro allenatore, Ottavio Bianchi, che volle puntare su forze fresche. Smaniavo ugualmente di dare il mio contributo alla causa partenopeo in un giorno così importante magari entrando nel corso del match. Non accadde: amen.

6). D / I riferimenti per tutti i punti prima della prova del nove eravate comunque tu e Maradona. Ciro Ferrara (nella foto), una volta affiliato alla prima squadra, avvertì il timore reverenziale. Lo sollevaste dall’impasse?
R / In effetti Ciro era molto reverente. Il rispetto per l’anzianità, diciamo cosi, e per il giocatore più rappresentativo va benissimo. Ma facevamo tutti parte di un gruppo. Della stessa squadra. Per remare nella stessa direzione occorrono umiltà e complicità. Gli spiegammo che doveva passare al “tu”. Non c’era affatto bisogno del “lei”. Contano altre cose per vincere. 

7). D / È il carattere di squadra a fare la differenza?
R / Nel modo più assoluto. Ognuno ha il suo carattere. Ma la squadra ha la precedenza. Quindi il carattere d’ogni singolo è al servizio della squadra. Del collettivo.

8). D / La tranquillità pure è importante. L’esperienza insegna a preservarla prima delle sfide decisive. È difficile trasmetterla?
R / Penso che sia compito del giocatore che ha più anni di carriera sulle spalle trasmettere determinati valori e stimolare i compagni più giovani a dovere. Ovviamente la tensione eccessiva prima di una sfida attesissima anche dai tifosi può diventare un problema. Occorre concentrazione, fuori discussione, ma allo stesso tempo la giusta tranquillità. Altrimenti un campione, come era Diego, rischia di predicare nel deserto. I leader tecnici sono fondamentali. Attorno a loro si devono muovere all’unisono compagni di squadra con gli attributi, il rispetto dei ruoli e la giusta dose di tranquillità.

9). D / E altresì di umiltà.
R / Senza umiltà un giocatore di calcio non va da nessuna parte. Fare parte di una squadra comporta delle responsabilità. Fra queste c’è quella di tenere sempre i piedi per terra.

10). D / Altrimenti la mitomania prende vantaggio sulla tempra dei giocatori che non si fanno umiliare ma cementano l’umiltà. Quando Gigi Riva (nella foto), reduce dal Mondiale del 1970 e della partita vinta ai supplementari contro la Germania Ovest, ti paragonò come marcatore diretto a Berti Vogts fu un tributo molto gradito?
R / Non posso negarlo. Venivo da Sassano. In provincia di Salerno. Trovarmi nel Napoli in serie A ad affrontare un attaccante del calibro di Gigi Riva fu un bel salto. Da far venire le vertigini. Mantenere i piedi per terra aiuta. Cercai sin dal nostro primo incontro di marcarlo col massimo dell’impegno. Impedendogli il più possibile di girarsi. Altrimenti sarebbero stati dolori. Ne vennero fuori sfide intense ma contrassegnate dalla reciproca  lealtà e umiltà. Il paragone tuttora mi lusinga: Berti Vogts è stato un difensore tosto nella lotta ma molto corretto. 

11). D / Marcando un avversario della stazza di Giorgio Chinaglia (nella foto) l’incantesimo si è rotto o ne hai comunque misurato la superiorità rispetto ad altri centravanti?
R / Ne ho sempre apprezzato la leale vigoria. Giorgio era una vera e propria forza della natura. Voleva vincere. Viveva per il gol. Ci teneva tantissimo a mettere il suo sigillo personale alla vittoria della sua squadra. Nei primi anni Settanta affrontare la sua Lazio non era affatto semplice. Tuttavia la lealtà dell’atleta non gli è mai mancata. 

12). D / Da giovane hai affrontato quindi i migliori attaccanti in circolazione uscendone nel peggiore dei casi con l’onore delle armi. Da giocatore esperto ti sei scontrato con un giovanissimo Gianluca Vialli. In realtà, col Mondiale del 1986 alle porte, volevi fare da paciere. Il Gianluca Nazionale, poco più che ventunenne, fraintese. L’adrenalina gioca brutti scherzi?
R / Vialli era sin da giovanissimo un attaccante temibile. Ricco di personalità. Lui e Salvatore Bagni erano i simboli di quella compagine azzurra. Io vedendoli discutere sul campo nell’ultima giornata di campionato prima di un Mondiale finito male per noi ma allora attesissimo cercai di farli ragionare. Affinché sbollissero la rabbia. Vialli in particolare, solitamente correttissimo, si risentì. Scambiando le mie buone intenzioni per un atteggiamento di superiorità. Mi diede dell’impiccione e del giocatore ormai superato. Gli feci capire a modo mio che ero ancora capace di mettere in riga i giocatori irrispettosi. Senza infierire. Vialli comprese perfettamente che il mio intervento di gioco avrebbe potuto essere molto più deciso, se non impietoso, pregiudicandogli il Mondiale.  

VIALLI Gianluca: da Cremona al Paradiso del calcio | Storie di Calcio

13). D / Fu l’avvertimento del veterano a fine carriera al giovane emergente. Ho sempre ammirato in Vialli la grinta in campo, da leader, e la compostezza fuori dal campo. Sono doti che servono ad affrontare sfide nella vita più difficile d’ogni partita di calcio?
R / Il gioco del calcio e lo sport in generale insegnano molto secondo il mio punto di vista. In primo luogo che non si può sempre vincere. Ma, al di là della cosiddetta cultura della sconfitta, quello che conta, dopo aver appesi gli scarpini al chiodo, è affrontare la vita di tutti i giorni. Lontano dagli applausi scroscianti dei tifosi. Ma anche dai fischi assordanti. Perché ci sono anche quelli. È tutto diverso. Il silenzio della vita diciamo normale comporta più oneri e meno onori. Ed è la che si misura la forza di carattere. Temprata dall’esperienza sul campo per distinguersi pure fuori dal campo.

14). D / Dove conta realmente. Vialli, Sebino Nela e Siniša Mihajlović  si sono ritrovati ad affrontare malattie da far tremare le gambe.
R / Sono tutti e tre uomini veri. Dei leader che in campo hanno imparato a dare l’esempio.  Hanno la stoffa degli indomiti lottatori. Ed è una lotta più dura di qualsiasi altra affrontata sui campi di gioco quella che stanno affrontando. Gli auguro di uscirne bene. Lo meritano.

15). D / Assumersi le responsabilità è la prerogativa degli atleti duri nello scontro ma umili nell’anima?
R / Il gioco del calcio è uno sport serio. L’assunzione di responsabilità parte dalla preselezione e accompagna i giocatori pure dopo la fine della carriera. Ed è una cosa basilare. Gli scontri  e gli incontri sportivi sono un conto; quelli umani, nella vita di tutti i giorni, un altro. 

16). D / L’assunzione di responsabilità è dunque l’antidoto migliore all’ossessione dei risultati?
R / Esiste nella vita il senso del limite. Un atleta cerca la perfezione.  Il miglioramento continuo. Ma poi accetta i limiti. Rimanendo quando è un fior di atleta un essere umano che tira fuori il carattere quando occorre.

17). D / Ed è per questa ragione che i giocatori del Napoli erano tutti serrati attorno a Maradona?
R / Diego, di ché ne dicano o ne pensino i suoi detrattori, aveva carattere da vendere. E si prendeva le sue responsabilità. Decisi di cedergli la fascia di capitano perché compresi che era una persona in grado di spingere la squadra ad andare oltre i limiti.

18). R / Vuoi bene a Napoli. Però il tuo carattere schivo è molto diverso dall’indole espansiva dei napoletani. Il senso d’appartenenza è un limite da trascendere o un valore da difendere?
R / Lo reputo un valore da difendere. Sono legato alle mie origini e fiero che il carattere le riflettano. Non è stato difficile comunque ambientarsi a Napoli. Lo ha reso facile l’umanità dei napoletani. È un patrimonio che fa bene al cuore. L’importante è restare fedeli se stessi apprezzando la diversità di chi ci accoglie e di chi accogliamo. È il valore migliore.

19). D / E sono i valori migliori ad alimentare i sogni. Un sogno proibito prima dello storico scudetto era quello di dire la propria in Europa. Come valore che squadra eravate a metà degli anni ’70?
R / Come valore rispetto ad altre squadre più blasonate e attrezzate eravamo modesti. Sicuramente inferiori rispetto ai giocatori che facevano stropicciare gli occhi agli ammiratori del bel calcio. Avevamo tuttavia un grande orgoglio. Quando ci capitò l’Anderlecht in Coppa delle Coppe cercammo di farci valere. Nonostante i limiti tecnici della nostra squadra.

20). D / Fosti tu, dopo aver neutralizzato i temibili attaccanti avversari, a segnare il gol che decise la sfida della semifinale d’andata. Nel ritorno il risveglio dal sogno di arrivare in finale fu amaro o prevedibile?
R / Dopo esserci aggiudicati la partita dell’andata ci abbiamo sperato. Col cuore. Ma razionalmente, con la testa, c’era d’aspettarsi che l’Anderlecht sarebbe stato capace d’imporre la propria superiorità sul campo amico. 

21). D / Il gol segnato al San Paolo resta un bel ricordo?
R / Lo scenario dello stadio partenopeo, l’orario, gli spalti stracolmi, oltre i settantamila paganti, in festa per la mia rete, li porterò sempre nel cuore.

22). D / Il cuore nel gioco del calcio riguarda i celebri sospiri in retromarcia o riguarda anche i tempi, (ri)chiamiamoli, moderni?
R / Le cose sono molte cambiate. Capisco cosa intendi con sospiri in retromarcia. Ma prima nel gioco del calcio il cuore assumeva un ruolo di primo piano. Oggi i calcoli professionali e gli interessi economici hanno la precedenza.

23). D / La squadra per cui batte il mio cuore è la Roma. I tifosi ti avrebbero voluto. Ci fu un accordo. Poi saltò. Cosa successe?
R / La società mi aveva venduto. Era tutto fatto. Poi saltò tutto per un lieve intervento chirurgico che mi fecero per togliermi la calcificazione dalla caviglia destra.

24). D / Peccato. Con Sebino Nela avreste formato una coppia di terzini niente male. Lui aveva una tecnica in velocità e una forza fisica fuori del comune. La forza d’animo chiude il cerchio?
R / La forza d’animo è indispensabile per gli atleti e gli esseri umani che affrontano prove difficili a testa alta. Le doti tecniche hanno importanza: non c’è dubbio. Ma è ancora più importante, quando si cade, sapersi rialzare. La vera forza è quella mentale. Funge da collante agli altri requisiti necessari per fare una carriera a certi livelli nel gioco del calcio.

25). D / Il rispetto tra colleghi nello sport rientra nell’ordine naturale delle cose?
R / Sono sempre stato puntiglioso di carattere. Una volta a San Siro contro l’Inter diedi uno spintone ad Altobelli mandandolo a ruzzolare dentro la porta: dagli spalti stava volando di tutto e lui aveva accusato il nostro portiere Garella, riverso a terra, di fare scena. Non c’è mai stato però, almeno per me, nessuno strascico polemico: eravamo tutti atleti che condividevano la stessa professione. Gli allenamenti, le disposizioni tattiche, le speranze, la corsa, lo stress, la gioia. Non c’è spazio per la cattiveria.

26). D / C’è spazio per la cattiveria agonistica?
R / Quello è un altro discorso. Il raggiungimento di un risultato nello sport comporta un notevole dispendio di energie e la giusta determinazione.

27). D / Per cui si cerca di dare il massimo e pur rispettando gli avversari non si molla d’un centimetro.
R / Certo. La perseveranza comporta qualche scambio d’opinione a muso duro.  Senza, ribadisco, code velenose.

28). D / Gli ex ragazzi della Sampdoria scudettata del 1991 hanno scritto nel libro La bella stagione che il calcio non è una guerra ma un gioco ed è tra amici che si gioca.
R / Sono d’accordo. Il legame dell’amicizia dà buoni frutti. L’intesa stabilita tra compagni di squadra rinvigorisce la costanza, la determinazione e la voglia di raggiungere gli obbiettivi prefissi. Diego Armando Maradona lo faceva divertendosi. Ed è stato capace di trasmetterlo alla squadra. Diego è stato un grande amico.

29). D / Il gioco del calcio è molto cambiato. I difensori sono penalizzati da questo cambiamento?
R / Decisamente. Ormai i giocatori di calcio stanno sotto l’occhio del ciclone. Che entra persino nello spogliatoio. Che prima era un luogo inaccessibile. Serviva per cementare il gruppo. Per trovare la giusta concentrazione.

30). D / Prima i fatti della pentola li sapeva solo il coperchio?
R / Ed era pure giusto così. Nello spogliatoio un tempo volava di tutto. Poi si puliva. Venivano chiarite le cose in sospeso. Ed era un fatto privato del gruppo. Non di dominio pubblico. La paura del risultato, i punti di riferimento nella prova del nove, i chiarimenti sono cose intime. Cose del gruppo. Che restano o dovrebbero restare nel chiuso dello spogliatoio.

31). D / Per dare il massimo sotto pressione i valori vanno condivisi in privato nello spogliatoio e in campo sotto gli occhi di tutti?
R / Diciamo di sì. Ma anche in campo prima c’era più riservatezza. E il contegno degli atleti era tutta un’altra cosa. Non ci si lamentava in continuazione con l’arbitro. Si faceva decisamente meno scena. Se c’era uno scontro duro, ai limiti del consentito, non sanzionato dal direttore di gara, si aspettava la partita di ritorno per mettere le cose in pari. E finiva tutto là. Con una stretta di mano.

32). D / L’egemonia della lealtà di una stretta di mano sul malanimo, dovuto all’ossessione del risultato col rischio di fare sceneggiate, è il simbolo di un calcio che non c’è più?
R / Il valore di una stretta di mano nello sport è indiscutibile. Senza bisogno di buttarsi le braccia al collo sia nello scontro con gli avversari sia nel momento della gioia per un gol con i compagni di squadra. I tempi sono cambiati decisamente in peggio. Ai miei tempi andavamo in giro con Maradona senza scorta né polizia. Sul campo vigeva un codice di comportamento. E chi lo sgarrava era ritenuto uno che faceva scena. L’alto livello di rendimento dipendeva pure dalla lealtà, dalla discrezione, dalla capacità di calibrare l’intesa di gruppo, il talento e il carattere.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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