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Alitalia: uno tsunami finanziario

Raggiunto l’accordo per la manovra, gabbato il santo popolo dei contribuenti, ci aspettano la bagarre dell’opposizione e il negoziato con l’Unione europea. Roba da ridere, ma non è finita. Ora dovrà cominciare la fase degli investimenti, quelli veri, altrimenti si è solo giocato.

 Tra i primi nodi, a questo proposito, c’è quello dell’Alitalia. Quanti miliardi abbiamo gettato sull’Alitalia lo sa solo Iddio, ma non è finita. Per capire davvero come stanno le cose trascrivo qui di seguito un articolo di Riccardo Ruggeri, le cui riflessioni, che condivido, sono state  pubblicate sul sito web de Il Giornale.

Il titolo, di per sé, è già emblematico: “Per Alitalia c’è una sola soluzione: fallire”. Le argomentazioni sono quelle che seguono:

 “La soluzione Alitalia è una sola: fallire con dignità nel silenzio composto di tutti gli Italiani. Avverrà? No. Da una decina d’anni mi tocca scrivere di Alitalia. Se fossi un ecclesiastico sarebbe l’equivalente di un canonicato, una sinecura. Riprendo i tanti Camei che ho scritto, elimino il polverume, una rinfrescata, qualche battuta nuova per contestualizzarla, e oplà il Cameo è aggiornato all’oggi.

 All’inizio mi lanciavo pure in proposte, mi lasciavo coinvolgere, da anni no, ormai ho scelto: vorrei che l’Alitalia venisse lasciata fallire, in fretta seppur con dignità, nel silenzio composto di noi cittadini, visto che alla fine ci sarà costata come minimo 10 miliardi a partire dal fallimento del 2008 fino a oggi, ma non finirà così. Speravo che il Governo Conte lo facesse, invece no, Luigi Di Maio ha indossato la divisa spaziale di stratega dei cieli: avremo la stessa sceneggiata? Se sì il finale sarà stesso. L’Alitalia è la metafora del fallimento delle élite pubbliche e private italiane, politicamente rappresentate da Pd e da Fi, che ci hanno governato in questo osceno quarto di secolo: hanno dilapidato gran parte del patrimonio statale, senza neppure capire dove stava andando il mondo.

Alitalia è stata, in successione, un’azienda pubblica, semi pubblica, semi privata, privata. E da privata, ricordiamolo sempre, è fallita, pur avendo al vertice, non dei boiardi di stato, ma tre miti del management privato internazionale: Luca Cordero di Montezemolo, James Hogan, Cramer Ball. Si leggano i nomi dei Ceo che si sono succeduti negli ultimi quarant’anni, la crème de la crème delle élite manageriali del paese, eppure hanno tutti fallito. Apro parentesi: le aziende falliscono solo per colpa dei Ceo e degli azionisti, mai per colpa del mercato, dei sindacati, dei dipendenti.

 C’è una fake news (istituzionale) che circola dal 2008 (prevedo tornerà presto di moda): “Prodi aveva fatto il capolavoro, Berlusconi l’ha distrutto”. Un falso, entrambi erano due vecchie lenze della politica e del business parastatale. Loro sapevano benissimo che Alitalia era irricuperabile, ma sapevano pure che non poteva fallire, perché nelle sue viscere c’era un asset negativo, che dai bilanci non emergeva.

Era l’esercito dei “50.000” (allora, oggi sono molti meno) che, o come dipendenti della compagnia o come dipendenti dell’indotto, erano quasi tutti concentrati nella capitale. La “Bomba Roma”, l’avevo chiamata. Prevedevo che fosse impossibile per Roma rinunciare a migliaia di lavoratori ad alta retribuzione. Così è stato, i loro stipendi sono, in parte, sopravvissuti, l’Alitalia è morta, lo Stato ha sborsato montagne di quattrini, ma la bomba (seppur smagrita) è ancora lì.

 I colti dicono: ma Prodi era riuscito a venderla. Vero, ma imbrogliando Air France. Quando i Francesi se ne fossero accorti (facile), avrebbero fatto esplodere la “Bomba Roma”. (Nota operativa: se sei un politico o un manager serio, e vuoi vendere un’azienda fallita, prima la “ristrutturi”, e la consegni “pulita” al compratore, al limite fai lo “spezzatino”, ti costa meno e non ti torna poi indietro).

Allora, subentrò Berlusconi (si disse che vinse le elezioni con questa mossa), l’affidò a degli incapaci come lui, tutti rigorosamente privati, si spacciavano pure per imprenditori, per manager, ma non lo erano, alcuni avevano già fallito (clamorosamente) nelle imbarazzanti privatizzazioni della Seconda Repubblica.

Dieci anni dopo, malgrado la gestione di privati e di manager prestigiosi tornammo alla casella di partenza. Ora c’era Renzi, uomo ambizioso, ma l’Alitalia era invendibile in Europa: chi se non un idiota compra un’azienda quando può acquisirne gli asset dal fallimento? Ma è invendibile anche nell’extra Europa, non solo per il vincolo europeo del 49%. Il presupposto strategico è sempre lo stesso: prima il venditore deve ristrutturala. Ma chi aveva gli attributi per farlo? Allora dissero: Carlo Calenda. Scrissi, non scherziamo (scopriamo ora che non riesce neppure a organizzare una cena a quattro). Poi, Matteo Renzi.

Scrissi, non è intellettualmente strutturato alla bisogna. Come finirà? Il subentrato Governo Gentiloni la coprirà di cipria, le fornirà via via “cassa”, attraverso prestiti statali che nessuno mai rimborserà, fingeranno di fare trattative, e Alitalia “brucerà cassa”, serenamente, come ha sempre fatto. Questo scrivevo un anno fa. Così è andata.

Poi è arrivato il 4 marzo, il governo del cambiamento, e siamo tornati alla casella di partenza Che fare? Lo ripeto fino alla noia. Fallire con dignità, nel silenzio composto di politici, economisti, magistrati, cittadini, dipendenti compresi. Succederà? Non credo. Ricomincerà la giostra, al posto di Renzi e di Calenda ci saranno Conte e Luigi Di Maio. E fra un anno, forse, scriverò un nuovo Cameo, sempre lo stesso. Prosit.

Riccardo Ruggeri, 15 ottobre 2018”

 

A me pare che ci sia poco da aggiungere. Siamo partiti con il No Tav, il No TAP, il No Gronda, il No Taranto, il No Alitalia, ed ora si profilano le prime inversioni di tendenza.

A Taranto si è salvato il più grande impianto siderurgico di Europa, e va bene, con la TAV e la TAP negate rischiamo di pagare miliardi di penali per infrastrutture importanti per il Paese. In cambio di che? Per l’Alitalia si profila, invece, l’ipotesi di nazionalizzare stipendi e fallimenti.

Siamo così oculati che a Lodi neghiamo il pasto ai bambini extracomunitari che non possono dimostrare d’essere poveri, con certificati dal Togo, dal Niger, dal Ciad, dall’Eritrea ed altri miserandi, tutti Paesi noti per le loro eccellenti amministrazioni civili, che sfornano certificati di povertà telematici a tutto spiano, ovviamente, e poi non ci curiamo dei miliardi che gettiamo dalla finestra?