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Cosa ne è rimasto del concetto di patria e tradizione?

Se lo chiede Umberto Galimberti, filosofo.

Parole come patria, valori o tradizioni secondo Umberto Galimberti sono morte in quanto richiamano scenari che non esistono più e questo lo diceva già Immanuel Kant, il quale pensava che anche il concetto di Stato dovesse essere abolito e questo spiega perché da 150 anni la filosofia non è più molto in voga come facoltà universitaria (o perlomeno così a molti piacerebbe fosse).

Alla manifestazione Dire (di cui non si trova materiale con una ricerca on-line) il filosofo Umberto Galimberti, a Modena per il Festivalfilosofia, ha risposto così sul significato di alcune parole tornate molto alla ribalta nel discorso politico. E proprio su questo filo rosso di “parole che non descrivono più il nostro mondo, ma che vengono da quelle greche e giudaico cristiane e rimandano a uno scenario che non esiste più”, lo studioso ha proposto “l’etica del viandante”, sua nuova opera, su cui ha tenuto lezione a Carpi.

Il viandante non è un viaggiatore perché non ha mete escatologiche o temporali, cammina per fare esperienza. Confonde i confini, mette in atto una deterritorializzazione, non è al centro dell’universo al contrario di come vorrebbe il cristianesimo, ed è interconnesso alla catena dell’essere”. Si tratta di “una sfida mai vista prima, in cui la prima patria è la nostra terra. Viandanti non sono i migranti, ma siamo tutti”.

Questo studio comunque non conduce a una ipotetica pace globale, in quanto non ci sarà Nessun lieto fine; in cambio cambieranno le carte in tavola in quanto “Le guerre continueranno per la distanza di valori” ha detto Umberto Galimberti, e questa è per lui la parola maledetta che in realtà è soltanto un coefficiente sociale; al giorno d’oggi conclude Umberto Galimberti, anche cercare un senso della vita, indipendentemente dal lato filosofico della questione, è diventato un mezzo per continuare a vivere: questo è il destino dell’età della tecnica.

L’Occidente di oggi ha due radici: il mondo greco e la tradizione giudaico-cristiana. Per quanto dischiudano orizzonti completamente diversi, entrambi elaborano un mondo dotato di ordine e stabilità. Ma noi viviamo nell’età della tecnica. È finito l’incanto del mondo tipico degli antichi. È finito anche il disincanto dei moderni, che ancora agivano secondo un orizzonte di senso e un fine, per passare alle realtà risvegliate o addormentate, a secondo della visione del mondo che si voglia intraprendere, ovvero al disincanto del post-moderno.

La tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela la verità: la tecnica funziona e se non funzioni secondo tecnica sei fuori dai giochi. L’etica, come forma dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza, chiusa nel suo guschio d’armatura arrugginita già dai tempi di Max Weber e il suo “l’etica protestante e lo spirito del capitalismo”.

Il mondo è ora regolato dal fare come pura produzione di risultati. Ed in questo mondo l’unica etica possibile, scrive Umberto Galimberti, è quella del viandante. A differenza del viaggiatore, il viandante non ha meta. Il suo percorso nomade, tutt’altro che un’anarchica erranza, si fa carico dell’assenza di uno scopo. Il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Cammina per non perdere le figure del paesaggio che cambiano come marionette, come le ombre della caverna di Platone, fatte di questa post-modernità che ci ha tolto tutto e che costringe a un cambiamento del punto di vista per non rimanere in un irriconoscibile passato non avverato.

In quest’ottica Umerto Galimberti scopre il vuoto delle leggi umane e il sonno della politica, ancora incuranti dell’unica condizione comune all’umanità: come l’Ulisse dantesco, tutti gli uomini sono uomini costretti a vivere su una frontiera. Oggi l’uomo è cosciente di non essere al centro. L’etica del viandante si oppone alla vecchia etica antropologica del dominio della Terra e denuncia il nostro modello di civiltà e mettendo in evidenza che la sua diffusione in tutto il pianeta porta sempre di più alla fine della biosfera.

L’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro. Il viandante percorre invece la terra senza possederla, perché sa che la vita appartiene alla natura. Così ci guida Umberto Galimberti: “L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da elaborare, ma il paesaggio che essi percorrono è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora”.

In sostanza nell’età della tecnica non comprendiamo più il mondo a partire da un senso ultimo, questo senso ultimo è uscito fuori dalla realtà possibile. La storia non è più inscritta in un fine ultimo, ben visibile: vuoi che questo fosse il concetto di famiglia, quello dei valori, del guadagnare col denaro un posto nell’elitè economica.

L’unica etica al giorno d’oggi possibile per il filosofo contemporaneo è quella che si fa carico della pura processualità, vedere queste ombre che scorrono come marionette in un teatrino male illuminato: si scorre senza meta, come il percorso del viandante.

foto wikipedia                                                           ©Francesco Spuntarelli