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#foodporn: l’hashtag che ha cambiato il rapporto con il cibo

#foodporn: così la degenerazione del cibo è diventata un fenomeno di costume.

L’hashtag da sempre in cima alle ricerche su Instagram ha cambiato il rapporto con il mangiare sostenendo la teoria che quantità è anche qualità.

di Francesco Seminara via la repubblica.it

 


 
Food Porn. Quando abbiamo iniziato a farci del male utilizzando queste due parole? Non c’è una genesi nota, ma partiamo dalla definizione, sempre che ne esista una valida.
Con questa espressione poco elegante, si indica la rappresentazione fotografica digitale di una pietanza, un ingrediente, o l’atto stesso di portare quel determinato cibo alla bocca, spesso con espressioni pittoresche.

Fra le fantasiose teorie riguardanti la paternità del nome, la più accreditata è quella che ci riconduce sulla strada del microbiologo e nutrizionista americano Michael F. Jacobson. Fu proprio lui, fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, a parlare di junk food e food porn, termini strettamente correlati, quasi da fondersi insieme, che erano argomento ricorrente durante le sue conferenze al Center for Science di Washington, dove insieme ad altri colleghi scienziati, metteva in guardia gli americani sul rischio obesità derivante dall’utilizzo spropositato di bevande analcoliche e alimenti ricchi di grassi saturi.

Una battaglia tanto nobile quanto donchisciottesca quella del Prof. Jacobson, giacché stando all’ultimo dato Ocse pubblicato, gli Stati Uniti mantengono ancora la pingue vetta del non invidiabile podio. Si pensava, quantomeno, di aver fatto un passo avanti dal punto di vista ideologico incorporando i due termini, al fine di una corretta informazione alimentare. Macché.

Fra i “regali” del meraviglioso mondo social, c’è anche quello della mistificazione della realtà e del totale stravolgimento dei suoi valori. Se il termine junk food è presente solo nel vocabolario dei boomer, il fratello a luci rosse, food porn, sta vivendo una nuova gioventù, essendo risorto dalle ceneri analogiche degli anni ’80 con un’abile operazione di maquillage grammaticale, univerbandosi grazie al suo famoso hashtag e diventando così #foodporn

La parola piace tanto, tantissimo. Da sempre in cima alle ricerche di Instagram. Sotto questo cappello si sviluppano le più disparate attività commerciali: dai siti internet che consigliano ristoranti con le suddette caratteristiche, agli influencer del cibo, consiglieri fidati del popolo social, che si spacciano spesso per professionisti dell’informazione gastronomica, generando confusione fra gli utenti. Basta digitare il famoso hashtag per imbattersi in un’orgia, è il caso di dirlo, di condimenti strabordanti su un’accozzaglia di ingredienti. Il fatturato che si aggira attorno a questo hashtag è davvero imponente, considerando che parecchi ristoratori, bar e produttori si rivolgono spesso a “foodporn grammer” per pubblicizzare le loro attività.

 

E chi sono questi fantomatici divulgatori del cibo pornografico? Per lo più ragazzi senza competenze nel settore enogastronomico, che mangiano in modi poco ortodossi di fronte a uno smartphone, sbrodolandosi e sporcandosi ovunque, a testimonianza della sovrabbondanza delle portate e della loro natura umorale. Lo schema è sempre lo stesso: vocabolario limitato e ridondante, una risata ogni due parole, musica da spiaggia in background, per colpire un target di pubblico che di regola non supera i 25 anni.
Esiste anche una nuova frontiera della pornografia alimentare: il neonato quality food porn, ancora più provocatorio dell’originale, perché accosta le medesime tecniche a materie prime di qualità e presidi slow food. Non si parla quindi più del produttore, della sua passione e delle difficoltà che ha incontrato per coltivare, preservare e trasformare un prodotto. Solo una serie di immagini evocative, iper-contrastate e acchiappa “like”.

Spiace vedere quindi la ‘Nduja di Spilinga, il pistacchio di Bronte, la provola di Agerola, solo per citarne alcune, mortificate alla mercé di un hashtag di grande impatto, ma senza cuore.

Ecco perché non ci piace il #foodporn 
Non è sostenibile, rappresenta la quintessenza dello spreco alimentare: due, tre, quattro pizze accatastate una sull’altra, panini con più di cinque hamburger, montagne di gelato et similia, il tutto per un reel di pochi secondi che promoziona quel locale.

È altamente diseducativo, non solo per i motivi di cui sopra, ma perché instilla nei giovanissimi il concetto che il cibo per essere buono deve essere necessariamente “instagrammabile”.

Non è sano, non è bello. Grazie a questo hashtag è stato sdoganato il concetto che la quantità è anche qualità, e per quantità non intendiamo i 20 grammi di pasta in più in trattoria, luoghi per altro assenti dalla divulgazione digitale, ma di chili di grassi saturi. Mangiare è un atto d’amore, non uno stupro. Il cibo va gustato, non ci s’ingozza.

Non favorisce la cultura gastronomica e la sua divulgazione. Non tutti possono parlare di tutto, specie chi non ne ha alcuna contezza. Sarebbe una buona regola per ogni settore, specie nel panorama enogastronomico i cui professionisti, i giornalisti di settore, vengono spesso malamente accostati a influencer e blogger, quando sono in realtà lo loro nemesi. La cultura enogastronomica è fatta di studio al pari di qualsiasi altra materia.
In ultima analisi uno sguardo alle generazioni del futuro. Sarebbe utile che cenni di storia della cucina, di quello che succede nei campi e il rispetto per la materia prima venissero insegnati anche in età scolare, al fine di contribuire allo sviluppo di una coscienza gastronomica ed evitare simili aberrazioni.

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