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Francesco Panico: l’Arte non guarda alle classi sociali

L’Italia è una fucina di arte

Il sottobosco artistico di Roma è immensamente ricco, tuttavia lo si nota per caso, dopo essere usciti magari da una inaugurazione di mostra di qualche nome ultrareclamizzato, perplessi e talvolta senza un sentimento preciso.  I critici si danno da fare con paragoni stellari, parole che ripescano dalla inventiva dannunziana, allusioni politico-sociali ed altre chiavi, anche giuste, per un linguaggio che appare sempre più rarefatto e identitariamente labile.

Su Francesco Panico ci si imbatte per caso, ricercando arte per professione, lieti di quell’oasi imprendibile strappata a forza nel deserto della creatività : usciti da casa di amici, che additano i paesaggi di Galizia, o sono conquistati dal realismo magico di Francesco Trombadori. Si osserva però davanti a quelle tele l’aderenza alla grande tradizione italiana classica, che peraltro non deve cedere; è, per gli artisti, infatti, un punto certo, un basso continuo.

L’incontro con Francesco Panico è stato dovuto dall’uscita di un evento e per informazione quasi confidenziale data dal figlio Raffaele, giornalista di vaglia (Direttore di L’Avanti, Umanità, Rinascita) ed autore di libri di storia (per citarne alcuni: Alessandro Aleandri, la Pianura Pontina nel Settecento, l’Italia nella coscienza di Niccolò Tommaseo e Gabriele d’Annunzio, e, per ” l’Italia dimenticata”, raccolta di lavori storici, il Premio della Presidenza del Consiglio gli anni 2000 e 2001).

L’esito di un esame approfondito su Francesco Panico è stato un insieme di articoli su giornali e critiche in occasione di una manifestazione, purtroppo non vicina nel tempo ma abbastanza esaustiva per avere presente che il pittore ha avuto un largo spazio di interesse ed accoglienza critica ottima.(Giovanna Canzano, il Giornale della Libertà, Dante Fasciolo, Giuseppe Spezzaferro su l’Intellettuale.net, ed altri)

Ci si rammarica invece che questo artista completamente autodidatta abbia lasciato, forse anche per incuria di qualche suo conoscente, pochissime opere. Per fortuna qualcuna di esse ha un porto sicuro in molte collezioni private ed anche all’estero, e nonostante il numero scarso i lavori attualmente a disposizione sono ricchi di messaggi e sorprendenti.

Istintivamente signore, ottimo lavoratore tanto che gli era facile guadagnarsi la fiducia dei dirigenti a Parabiago, dunque lontano dalla Napoli (dov’era nato il 1932), disturbata da pregiudizi riferiti al carattere degli abitanti, pensato come proclive all’ozio vista la bellezza della città, Francesco Panico dipingeva soprattutto la notte, per nulla togliere al lavoro e per isolarsi nelle considerazioni suscitate dalle esperienze del giorno: più di una tela raffigura gente comune, altri hanno l’impronta evidente della dettatura di un pensiero.

Un buon numero di critici lo includono fra i pittori operai, qualcun altro accenna a prese di posizioni sociali o lo ritiene espressionista: in realtà Panico è tutto questo e, in tal modo, si manifesta assolutamente personale ed assolutamente indipendente da qualsiasi corrente o categoria: è semplicemente un artista che parla dal proprio sè, senza scuola, con gli occhi soltanto che lo guidano e lo fanno comprendere. Logico che, essendo operaio di fabbrica, il mondo che lo cimenta nel giorno riappaia sulle tele, ma ciò avviene con grazia, con amore, senza istanze sociali ed armato della semplice evidenza di esistere nell’equilibrio perfetto del fare artistico che lo separa da rabbie, contrasti, concorrenze. Il risultato è l’operaio con il quale si discorre, quello che viene a lavorare, non l’operaio di piazza e, quando anche questo possa sembrare, la visione che Panico gli dona è quello della naturalità, della vita piena e dominata anche nel pensiero di un problema.

Si stia attenti alla severa inquadratura dei soggetti nella tela, che rimandano alla sacralità della professione (i falegnami) come il Cristo falegname preraffaellita: il lavoro è dimensione del cammino che porta in alto; Talvolta lo si mette da canto momentaneamente assopendosi sulle pagine di giornali che non hanno più seguito: la disposizione di essi, quasi rotante, circonda l’uomo che non vi trova il proprio se’, ma che li apprezza come veicolo di meditazione durante il riposo.

La disposizione di ombre e colori chiari creata nel “S.Crispino” (opera premiata il 1974) si raggruma nel viso del religioso, emozionandolo ed emozionando l’osservatore, con una ricerca della luce che non incide, ma porta al fulcro della veduta, al miracoloso che si vuole raccontare. In altri soggetti essa diviene protagonista (il sonno dell’operaio e le bottiglie) avvicinandosi progressivamente oggetto dopo oggetto: una luce dorata, consolatrice, sotto la quale i vetri diventano birilli, gioco, sotto la mano del protagonista che comunica che, dormiente o no, la realtà giornaliera è sotto il suo dominio. La luce scivola, segue il rotondo dei contorni, esalta con dolcezza le ombre, lascia l’uomo padrone, ma gli rammenta che è lei a dare le direttive ed il senso alla ragione umana.

La tecnica più frequente di Francesco Panico è l’olio, su tele che preparava da solo, chimicamente fattosi esperto dalla lunga esperienza di lavoratore, ma si hanno anche incisioni, stampe: anche qui gli strumenti sono composti da lui, come, sovente, le cornici; vi sono poi disegni a matita, tracciati preparatori. Il pittore si è completamente immerso in questa voce che ha trovato misteriosamente ed inaspettatamente in sè, in quel regalo natalizio consistente in colori tavolozza e pennelli, che lo ha votato anche a trovarne i supporti e qualcuna delle sue infinite vie. La luce dorata suggerisce la personalità dell’artista come priva di violenze e di prese di posizione, ma ricca di spiritualità innata e senza dottrine, senza scuole, un linguaggio limpidissimo anche nelle rese terrose, volute, dell’opera, anche nella penombra degli interni. Non si può dire espressionista, gli manca quel fondo disperato, pessimista, gridato da colori troppo decisi: semplicemente Francesco esprime l’amore per il mondo e per il prossimo, presi come sono.

Pittore operaio l’hanno definito perchè erano gli anni dei preti operai e la spiritualità di Panico li ha deviati; quelli erano anni nei quali questa definizione era di moda, oppure hanno avuto timore di riconoscere qualcosa di magico che si riteneva sorpassato, o troppo borghese, o politicamente scorretto. Adesso si ricerca il filo conduttore che lo anima come qualche parola veramente potente che si pensa perduta. Francesco Panico si riflette nell’equilibrio che è in lui e che trova intorno a sè. La sua ricerca è il dialogo con chiunque, offrendosi alla sua vista, gli fornisce l’importanza di un legame amichevole, umano, senza pregiudizi nè etichette. Si dovrebbe avere maggiore attenzione e stima a questo ed altri artisti che abbiano il bene della pulizia espressiva e pensata, senza supporti di propagande e senza correre dietro a messaggi o assenti o troppo esili per potere infiammare lo spirito degli uomini che sono come raminghi, così, “come legni sanza vela e sanza governo”, animi flebili che porta via il vento della dissoluzione che minaccia tutto il mondo attuale.

Marilù Giannone

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