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Giornata internazionale delle Donne e Ragazze nella Scienza

Oggi, 11 febbraio, è la Giornata Internazionale delle Donne e Ragazze nella Scienza. L’evento, stato promosso per la prima volta  dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 22 dicembre 2015, vuole essere un’occasione per ricordare e far riconoscere il ruolo fondamentale che tante donne hanno nelle discipline scientifiche.

Purtroppo fin da piccole le ragazze non sono mai state incoraggiate a intraprendere carriere che riguardano i campi della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica (STEM) e questa giornata ha l’obiettivo di promuovere una maggiore partecipazione delle ragazze alla formazione e alle professioni scientifiche, eliminando i pregiudizi e gli stereotipi che rendono le carriere femminili un percorso a ostacoli.

Fortunatamente adesso sempre più giovani donne intraprendono studi e carriere considerati fino a poco tempo fa prettamente maschili.

A riguardo la nostra redazione riporta un’intervista fatta da Elena Dusi per D – La Repubblica delle Donne a CHIARA CAPPELLI, prorettrice della Normale di Pisa e professoressa di chimica-fisica, vincitrice di un bando europeo da 1,6 milioni di euro sull’interazione fra luce e materia in materiali nano strutturati. La curiosità è che ovunque vada viene scambiata per la segretaria, in pratica, di sé stessa,  “È capitato a volte. Se sono insieme a un collega uomo, lui è il professore e io la segretaria”.

Che effetto le fa?

“L’imbarazzo maggiore è dell’interlocutore, quando se ne rende conto. Per evitarlo in genere prima dei meeting mando una mail in cui chiarisco chi saranno gli interlocutori. Fa sempre dispiacere, quando accade una cosa del genere”.

A lei non fa rabbia?

“Lo noto ovviamente, ma ci sono abituata. Come quando nelle riunioni io sono dottoressa e gli uomini professori. O qualcuno, in modo affettuoso e bonario per carità, mi dice ciao bella o ciao cara. A una collega venuta dall’estero farebbe un grande effetto, ne sono sicura. Io percepisco più che altro il segnale di una mentalità all’antica”.

La Normale con 227 ragazzi e 72 ragazze nel corso ordinario è uno degli ambienti più squilibrati dal punto di vista dei sessi. Va un po’ meglio fra i dottorandi: 193 a 114. Perché tanta disparità?

“Il problema è a monte. Lo squilibrio è già fra i ragazzi che si presentano al concorso. Noi valutiamo i compiti in modo totalmente anonimo. Non sappiamo il nome o la provenienza del candidato che ha fatto quello scritto. L’ambiente da noi è effettivamente molto maschile, ma non maschilista. Mai e poi mai sono poi gli studenti a fare discriminazioni fra professori e professoresse”.

Quante studentesse ha in classe?

“Le nostre sono classi molto piccole. Sono capitati gruppi di tre ragazzi su tre o, eccezionalmente, di tre ragazze su sei. La prevalenza comunque è nettamente maschile”.

Ci sono differenze fra maschi e femmine?

“Le studentesse, pur essendo poche, sono bravissime. Ma pensano di valere meno dei loro colleghi maschi. Questo si percepisce nettamente. Vanno in crisi più facilmente, di fronte all’impegno richiesto alla Normale. Da noi un 18enne fresco di liceo si trova di fronte a una mole di lavoro veramente spiazzante. Maschi e femmine vengono spiazzati allo stesso modo, ma le ragazze fanno più fatica a reagire, si deprimono più facilmente, pensano di aver fatto una scelta al di sopra delle loro capacità. Cosa che spesso non è vera”.

Lei pensa che il problema sia a monte e che voi vediate solo gli effetti di uno squilibrio fra i sessi che nasce da più lontano. Ci spiega meglio?

“E’ un problema culturale che parta dalla storia dell’Italia. Le nostre scuole sono pensate per mamme degli anni ’50, che fanno trovare il pranzo pronto ai figli e li accudiscono il pomeriggio. Le bambine, crescendo in questo ambiente, respirano quello che dovrà essere il loro ruolo nella vita. Né la scuola le incoraggia a osare. La mia storia è stata molto diversa. Nella mia famiglia mio padre cucinava spesso e mia madre aveva gli orari di lavoro più lunghi. Quando ho scelto di fare chimica all’università, pur venendo da studi classici, non mi è mai passata per la testa l’idea che la scienza potesse essere una materia poco adatta per una ragazza”.

Come mai ha scelto chimica?

“Così, senza conoscerla. Pensavo che potesse piacermi. E mi è piaciuta così tanto che ho scelto di occuparmi dei suoi aspetti più teorici, che si avvicinano alla fisica e alla meccanica quantistica”.

Come si organizza per lavorare?

“Ho due figlie, una al liceo e una alle elementari. Prima della pandemia, quando partecipavo ai congressi, potevo allontanarmi grazie a mio marito e ai nonni, che per fortuna sono a Pisa. Adesso lavorando da casa le cose sono ancora più complicate. Mia figlia l’anno scorso era in prima elementare. Non dico che sono stata io a insegnarle a leggere e scrivere, ma poco ci manca. Il lockdown è stata forse la sfida più grande per le donne, e non solo scienziate”.

Con le sue studentesse riesce a farsi un’idea di quali difficoltà hanno superato per arrivare dove sono?

“Molto spesso dietro la loro scelta c’è una spinta forte di un professore delle superiori, a dimostrazione che forse il problema sta proprio nell’autostima, nella capacità di autopromuoversi, credere in sé stesse e osare. Anch’io rispetto ai miei colleghi credo di essere più propensa a chiedermi: ma sarò all’altezza, non starò facendo il passo più lungo della gamba?. La decisione di provare il concorso per l’Erc è stata preceduta da un lungo periodo di riflessione, in cui ho ripercorso in modo critico tutta la mia carriera”.

Cosa consiglia alle sue studentesse quando le vede in crisi?

“Di buttarsi. Per riuscire nei propri progetti bisogna imparare a uscire dalla propria zona di comfort. Di allontanarsi fortemente dalla propria zona di comfort”.

 
 
 
 

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