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Il Grande Vajont: cinquantasette anni dopo la tragedia che costò la vita di duemila persone

Il 9 ottobre 1963 il versante settentrionale del monte Toc franò nel bacino idroelettrico della diga del Vajont, sollevando un’onda che distrusse completamente Longarone e diverse frazioni del Comune di Erto e Casso.

La tragedia che si consumò nella valle del Vajont, al confine tra le province di Belluno e di Pordenone, scosse il Paese e il bilancio fu di quasi duemila morti.

La portata di questo disastro ambientale e umano ha spinto il Parlamento a scegliere la data del 9 ottobre per istituire la «Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri naturali e industriali causati dall’incuria dell’uomo».

La diga del Vajont tra grandi ambizioni e preoccupazioni

La storia della diga del Vajont risale al 1926, quando i dirigenti della SADE (Società Adriatica di Elettricità) del conte Giuseppe Volpi di Misurata incaricarono l’ingegner Carlo Semenza di progettare un bacino idroelettrico sul monte Toc, nel Comune di Erto e Casso.

L’idea era quella di costruire una «banca dell’acqua», all’interno della quale far confluire le acque degli affluenti del fiume Piave.

Nei periodi di siccità, la diga avrebbe potuto riversare nei torrenti quantità d’acqua sufficienti a mantenere in funzione le tante centrali idroelettriche posizionate in punti strategici sul territorio.

Nonostante le rassicurazioni derivanti dalle perizie geologiche del professor Giorgio Dal Piaz, le fondamenta geologiche del monte Toc, sulle quali la diga sarebbe stata edificata, non erano idonee.

Tutta la zona del Comune di Erto e Casso era stata edificata su antiche paleo-frane sedimentatesi nel corso dei secoli.

Quando, nel 1957, iniziarono i lavori di costruzione, i dirigenti della SADE ignorarono i segnali di cedimento che si facevano sempre più evidenti, anche agli occhi della popolazione.

Frane, scosse sismiche, fessurazioni aumentavano in intensità e in frequenza, preoccupando gli abitanti del posto. Nel 1959, i valligiani fondarono il «Consorzio per la rinascita della valle ertana», attirando l’attenzione della stampa sulla questione del Grande Vajont.

La giornalista Tina Merlin, dell’Unità, diede voce ai timori e alla rabbia di quelle persone alle quali erano stati confiscati i terreni per la costruzione di una diga che ora sembrava minacciare la loro stessa incolumità.

L’inchiesta della Merlin si concluse con una denuncia a suo carico per aver diffuso «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico», ma verrà assolta il 30 novembre 1960 dai giudici del Tribunale di Milano.

Le autorità statali sottovalutarono il pericolo. La SADE poteva contare sull’appoggio di personalità influenti interne al Ministero per i lavori pubblici ed ebbe completa autonomia nella realizzazione delle perizie geologiche e dei collaudi.

La notte della tragedia

Le cause del disastro del Vajont sono imputabili a gravi negligenze a carico sia dei dirigenti della SADE (ENEL, in seguito alla nazionalizzazione del 1962), sia di chi al Ministero dei lavori pubblici avrebbe dovuto vigilare sul loro operato.

Le fessure che si aprivano nel terreno, così come le costanti scosse sismiche, furono ignorate e addirittura occultate.

Gli appelli e le denunce della Merlin rimasero inascoltati. Pertanto, non si può considerare quella del Vajont una catastrofe inaspettata e imprevedibile.

Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963, dal versante sinistro del monte Toc una massa rocciosa di 270 milioni di metri cubi franò nell’invaso della diga del Vajont.

L’impatto provocò un’onda alta centinaia di metri, che scavalcò lo sbarramento della diga. Una valanga di acqua, fango e detriti rocciosi si riversò a valle con una potenza distruttiva impressionante.

Ai piedi del monte Toc, al di là del Piave, in terra veneta, il Comune di Longarone ne fu travolto e raso al suolo.

La potenza con la quale la valanga si abbatté sulla valle del Piave è stimata di intensità pari o superiore a quella della deflagrazione della Little Boy, la bomba atomica sganciata su Hiroshima nel 1945. Si contarono 1450 morti solo nel Comune di Longarone.

Una seconda onda si sollevò anche in direzione delle frazioni del Comune di Erto e Casso, sopra la diga, portando anche lì morte e distruzione.

 

Una diga da primato che l’ambiente ha rifiutato

La diga del Vajont doveva essere il vanto dell’ingegneria italiana: si trattava della diga a doppio arco più grande al mondo, con uno sbarramento alto 261,60 metri e una capacità d’invaso pari a 168,75 milioni di metri cubi.

La diga sopportò, la notte di quel 9 ottobre, una sollecitazione dieci volte superiore a quella per la quale era stata progettata e collaudata.

A cinquantasette anni di distanza, il Grande Vajont rimane il settimo bacino idroelettrico più grande al mondo, sebbene non più in funzione.

La diga è stata dismessa dopo il tragico evento che costò la vita a duemila persone, perché le cause principali del dissesto idrogeologico sono imputate proprio alle operazioni di invaso e svaso del bacino idroelettrico.

Oggi è ancora possibile osservarla percorrendo la strada che da Longarone sale sul monte Toc, in direzione di Erto e Casso.

Le caratteristiche geologiche del monte Toc non permettevano l’installazione di un bacino artificiale di quelle dimensioni. Inoltre, se non ci fosse stato il lago artificiale formato dalla diga, un’eventuale frana, anche di grandi dimensioni, non avrebbe provocato un disastro di tale portata. 

La negligenza e la sottovalutazione del pericolo da parte degli addetti ai lavori provocarono quello che la Merlin definì l’«olocausto di duemila vittime».

Non è un caso se il Parlamento (L. n. 101/2011), nel 2011, ha scelto proprio la data del 9 ottobre per istituire la «Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri naturali e industriali causati dall’incuria dell’uomo», un’occasione per ricordare i pericoli derivanti dallo sfruttamento selvaggio dell’ambiente.

Francesco Leccese

 

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