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Il Novecento sconosciuto: XX rughe d’espressione racchiuse in cento sfumature chiare e oscure

Il passaggio dal vecchio al nuovo, come dalla notte oscura all’alba di un nuovo giorno, non è mai indolore. Il Novecento si apre e si modella sullo scheletro del suo predecessore, rubandone i contorni prima di giungere ad una personale e piena maturazione di idee e contenuti. Spirito anticonformista e laceranti tensioni utopiche fanno da faro nel mare oscuro dei moti dell’animo umano che si era perso nella “Sturm und Drang”, tempesta di cuori languidi e tremanti ma disposti a modificare radicalmente il linguaggio umano.

Si voleva la conversione radicale della parola in poesia; la scrittura doveva però potersi esprimere anche tramite un pennello immerso nella tela immacolata dell’ignoto e la implacabile sete di verità e di assolutezza era l’esigenza primaria da soddisfare.  Il filo sottile e contorto che i figli dei “Romantici” sono chiamati a seguire e allungare è un misto di tessuti pregiati ma dai colori indefiniti.  I primi passi del neonato XX Secolo sono maldestri e appesantiti da incertezze emotive e sociali e il cordone ombelicale viene tranciato di netto in un clima di “decadentismo” nel quale si respira un’aria intrisa di sogni bruciati e alacri odori. Il salvatore dell’umanità, colui che solo può trascinare nel fiume della vita tutti i suoi simili, evitando il totale annientamento umano è il poeta.

Il vate è l’unico che è in sintonia con i messaggi oscuri e indecifrabili dell’Infinito e del trascendente, traducendone l’arcano contenuto ai propri simili. L’artista è un solitario poichè è portatore di un messaggio proveniente da un mondo ignoto e irraggiungibile e soprattutto impenetrabile all’uomo comune. L’espressione della realtà, così come viene colta dalla propria intimità, è l’esigenza primaria che il poeta, il pittore, l’artista avverte impellente.

Raccontare la storia di una giornata oppure di un’esperienza di vita che ha comportato il solco di una ruga, tuffarsi nella realtà nel senso più letterale del termine è l’esigenza dell’artista;  l’elaborazione e la traduzione nelle svariate correnti artistiche che si susseguono frenetiche e libere, fa da riempitivo a giornate logoranti e cupe, dalle quali non ci si poteva liberare. La guerra, il logorio delle trincee, la paura di non sopravvivere a tanto dolore e fatica e lo sconvolgente riproporsi, a distanza di una manciata d’anni, dello stesso scenario bellico, fa inorridire l’artista che, per sua stessa natura, è tanto sensibile perché troppo fragile. L’unica via che permette la fuga da una realtà violenta e abbrutente è l’inconscio, la psiche che contiene spazi immensi nei quali adagiare forme e colori che piacciono e che custodiscono sogni silenziosi e segreti inconfessabili. La scappatoia che offre l’invisibile fa da ponte sul quale poggiare mattoni creativi e colorati, con i quali costruire nuove strutture che accolgano pensieri, idee e rivestano città e campagne disabitate. L’artista scende ancora in campo, a soccorrere i suoi simili, superstiti frastornati ma assetati di vita e di speranza e la compattezza con la quale si risveglia l’umanità intera, contribuisce ad accorciare le distanze tra passato e futuro, prediligendo un continuo presente che pare non dover mai aver fine.

L’opera d’arte deve infatti testimoniare, deve riportare con fedeltà e novizia di particolari quel che è, compresa l’essenza dell’esperienza, l’emozione non il ricordo. Dettaglio di scena, colore, forma e l’opera parla, narra la vita quotidiana, narra la realtà.  La fa da padrona la semplicità con tutte le sue limitatezze. Non c’è più l’esigenza di negare a sé stessi la verità; anzi, l’esaltazione della natura umana e la ricerca spasmodica di identità spinge l’artista ad essere fedele e costante a ciò che guarda, alla vita che scorre silenziosa e imperturbabile sotto un cielo che non è mai lo stesso.

Espressionismo, cubismo, astrattismo, dadaismo, surrealismo, espressionismo astratto, realismo, minimalismo: correnti di pensiero o piuttosto pensieri ri-correnti degli artisti di un Secolo fa? Una volta devo averti incontrato, non ricordo né dove né quando ma ricordo d’averti a lungo parlato. Dubito però d’averti davvero conosciuto, Novecento.                                                                                

                                                                                                                                        om Enrico Paniccia

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