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IL SANGUE GIALLOROSSO, l’oro italo-americano e le bandiere ammainate: un gioco preso molto sul serio

Forse in certi casi è anche giusto che il gioco del calcio sia preso sul serio. Nel bisogno di stringersi attorno a una bandiera – come ai tempi delle Legioni comandate da Giulio Cesare – vi sono motivazioni più complesse rispetto a quelle fornite dai sociologi, intenti a liquidare il fenomeno con una punta di gelida arroganza.

Eppure il disincanto degli abitanti della Città Eterna, insieme al cinismo bonario caro ad Alberto Sordi, cede di schianto dinanzi alle bandiere ammainate. Ed è una questione degna di essere dibattuta, anche se ha ragione Woody Allen nel sostenere con la sua proverbiale ironia che il cuore e il cervello non si danno nemmeno del ‘tu’.
Quando Rossella Sensi e Unicredit firmarono l’accordo per azzerare il debito contratto da Italpetroli, nella sede dello studio del legale arbitrale fu svuotato l’ennesimo vaso di Pandora. Daniele De Rossi, allora “Capitan Futuro” della AS Roma, definì “papponi” gli operatori di finanza pronti ad acquisire la società. Al cuore certo non interessano i calcoli del cervello sulla capacità di indebitamento.

Qualunque discorso inerente al capitale di rischio e alle tecniche di acquisto avvezze ad assets sale, ‘buffi’ utili, come si suol dire nella Capitale, ed esuberi di denaro contante, è tradotto così in automatico nell’empia furbizia di portare l’acqua al proprio mulino. Arte in cui comunque sono maestri sia molti italiani, a parte gli ‘aristoi’ davvero fedeli all’egemonia dello spirito sulla materia, sia tantissimi americani. Ed è forse un caso che sia stato proprio l’italo-americano James Pallotta l’imprenditore che, dopo essere subentrato alla famiglia Sensi caricando l’operazione ‘a buffo’ sui bilanci del passaggio di consegna, ha spinto prima il Capitano per eccellenza Francesco Totti ad appendere gli scarpini al chiodo e poi, nel tempo di appena due anni, l’erede designato Daniele De Rossi a cambiare aria?

Bisogna inoltre anteporre il cervello al cuore, al di là della fede calcistica, per non avvertire il classico nodo alla gola nel vedere proprio De Rossi, al termine dell’ultima partita di campionato col Parma, baciare la pista d’atletica che precede la Curva Sud.
In tal modo, de facto, persino l’angolazione ‘diagonale’ del campo nel settore dei Distinti, il colpo d’occhio perfetto ad appannaggio dei vip, col servizio stampa a due passi, in Tribuna Monte Mario e il piglio borghese del settore per famiglie hanno acceso la fantasia verso quella pista riempita solitamente d’improperi giacché rea di imporre allo stadio Olimpico la forma di un uovo. Il livellamento ugualitario innescato dai palpiti dalla commozione porta a trarre partito, in maniera contraddittoria, dal poeta statunitense Ezra Pound che definì l’ultimo conflitto mondiale la guerra del popolo ed ergo del sangue contro le banche e quindi l’oro.

Tuttavia ogni giornalista che si rispetti, e che rispetta soprattutto i lettori, non deve carezzare utopie, specie se di comodo, ma esibire fatti incontrovertibili. La storia del club giallorosso parla chiaro infatti: più o meno tutti i capitani storici della squadra capitolina sono stati maltrattati, a partire da Attilio Ferraris sino ad Agostino Di Bartolomei e Giuseppe Giannini.
I sospiri in retromarcia, messi alla berlina dallo scrittore Cesare Marchi per chiarire l’abitudine a idealizzare il passato, cedono al bisogno di riflettere. I padroni del vapore, anche nostrani, se ne sono ‘fregati’ degli idoli del popolo?
O la spiegazione, con tutto il rispetto per l’arguto Marchi, richiede un ‘debito’ salto indietro all’epoca in cui c’era la lira?

ATTILIO FERRARIS E GIACOMO LOSI: DUE ‘CORI DE ROMA’ MESSI DA PARTE DALLA SOCIETÀ
“Chi desiste da’ ‘a lotta è un gran fijo de ‘na mignotta!“. Con questo motto, romanesco sin nel midollo, Attilio, detto Tillio, caricava i compagni di squadra. Il gioco del calcio era, ed è tuttora, la grande medicina contro la noia e i colori giallorossi andavano difesi con agonismo ed entusiasmo. Come squadra della Città, con buona pace dei pregressi cugini laziali, la AS Roma poteva operare il sorpasso all’istante. In virtù del ‘nomen omen’ con la metropoli e della grinta testaccina degli ex componenti di Fortitudo, Roman e Alba. La fusione voluta dal dirigente sportivo Italo Foschi trovò appunto nel nuovo impianto, a campo Testaccio, il proscenio ideale.
Anche senza conquistare lo scudetto, talora sfiorato, il team sorretto dalla leadership di Tillio, conosciuto come Ferraris IV, per distinguerlo dai tre fratelli, anch’essi calciatori, rispecchiava il carattere del suo capociurma: verace, grintoso, capace di tappare i buchi a centrocampo per arpionare palloni preziosi e far ripartire l’azione con gli avversari sbilanciati. Ma anche incostante, impertinente, dedito ai vizi, sin troppo sensibile al sorriso delle ninfe. In Nazionale si guadagnò l’appellativo di “leone di Highbury”, al termine di un inobliabile match giocato nel tempio del football inglese, mentre fuori dal rettangolo verde preferiva le curve della soubrette di colore Josephine Baker al tedio dei ritiri. Disse di voler solidarizzare con l’Africa. I membri degli Enti Provinciali Sportivi Fascisti la presero a ridere, divertiti dalla sana impertinenza; la società, invece, finì col metterlo fuori rosa.
Vittorio Pozzo, il commissario tecnico dell’Italia, alla vigilia dei Mondiali del 1934, lo pescò in un locale, dove non servivano succo di frutta, e seppe dargli lo sprone giusto. Rigenerato, vincitore della competizione, ritenuta il massimo torneo calcistico per le squadre nazionali, Ferraris IV passò alla Società Sportiva Lazio. Capita nelle grandi storie d’amore.
“Giacomino” Losi, al contrario, che non era nato né cresciuto all’ombra del Colosseo, divenne “er Core de Roma” grazie alla tempra da uomo, piccolo fisicamente, eppure, tutto d’un pezzo. La dedizione alla causa contraddistinse la lunga militanza e guidò gli interventi in difesa. A proteggere il Forte. Il tocco di palla era deciso. L’approssimazione si affacciò solo al termine di una carriera impreziosita dalla conquista della Coppa delle Fiere. Il capitano, originario di Soncino, divenne pensionabile per limiti di età. Lo decise l’allenatore Helenio Herrera, chiamato “il Mago”. L’atleta lombardo, col cuore capitolino, andò in serie D. Il crepuscolo nella Tevere Roma, con gli stessi colori sociali, coincide col tonfo di Herrera sancito dagli sfottò dei tifosi giallorossi al grido: “A Mago, facce sparì l’arbitro!”

L’UMANITÀ DI AGO: UN UOMO RITENUTO TROPPO TRISTE PER IL GIOCO DEL CALCIO
A pronunciare questa battuta, equiparabile a un epitaffio, sembra sia stato Giuseppe Ciarrapico, detto “il Ciarra”.  Almeno lo dà a intendere il regista Paolo Sorrentino nel suo toccante film “L’uomo in più”. In effetti l’ex calciatore di celluloide Antonio Pisapia, che vorrebbe tornare ad allenare la squadra dove ha militato da leader silenzioso ed eminentemente concreto, presenta diversi punti in comune con Di Bartolomei, conosciuto come Ago. Non un punto di riferimento, vogliate perdonare il mix di cacofonia ed enfasi, bensì un riferimento per tutti i punti. Anche quando, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, la piazza ‘de noartri’ lo voleva nel ruolo, molto impraticabile, di presidente-manager. Servivano i soldi: a ogni pasto consumato a Trigoria dai giocatori, erano centomila lire ad abbandonare le esigue casse societarie. La Banca di Roma era all’atto pratico la proprietaria di un Sogno a rischio di fallimento.
L’indebitamento di 50 miliardi del vecchio conio spinse il presidente Ciarrapico ad accompagnare alla porta una sorta di monumento vivente alla romanità calcistica, che da lì a poco, nella sua casa cilentana, in quel di Santa Maria di Castellabate, si sparò un colpo mortale di pistola dritto al cuore. Esattamente dieci anni prima, il 30 maggio 1984, aveva disputato con la fascia di capitano al braccio la finale di Coppa dei Campioni proprio allo Stadio Olimpico di Roma contro il Liverpool. Nella lotteria dei rigori fece il suo dovere, con un tiro talmente forte da non dare modo al portiere dei Reds d’innervosirlo con smorfie clownesche, ma non bastò. Sarebbe stato il degno epilogo di un percorso coronato la primavera prima con la conquista dello scudetto.
Ago era lento, però faceva correre velocissima la sfera di cuoio, con precisione chirurgica non solo nelle bordate destinate a levare le ragnatele agli incroci dei pali, ma anche nel fornire assist precisissimi ad attaccanti, come Roberto Pruzzo, alla spietata caccia del gol. Il pur sensibile presidente Dino Viola, subentrato ad Anzalone, colpevole di aver reclutato maghi senza bacchetta, dopo la Waterloo in casa con la squadra dei Beatles, rinunciò ad Ago e al suo estimatore. Il mister svedese Nils Liedholm. Fautore della ‘zona passeggiata’. Il rampante conterraneo Sven Goran Eriksson scalpitava con la ‘zona pedalata’. Il ‘Barone’ Nils fece i bagagli. Direzione Milan. E si portò dietro Diba. Fu Arrigo Sacchi, celebre artefice di un calcio ancor più moderno ed estremamente feroce, a dare poi ad Ago l’ultimo benservito.
Paolo Maldini, suo compagno di stanza ai tempi della militanza tra le file del ‘Diavolo’ rossonero, lo ricorda al telefono con Giulio Andreotti. A unirli non era il potere, che logora chi non lo ha, bensì la romanità. Non abbastanza disincantata da riuscire ad anteporre all’insano gesto l’umorismo sdrammatizzante. Nei canti dei tifosi giallorossi, persino di coloro che esibiscono certe ferite ‘onorate’, frutto degli scontri con le forze dell’ordine, insieme alla cifra dell’odio, c’è un posto d’amore per lui nel loro cuore.

IL CANTO DEL CIGNO DI GIUSEPPE GIANNINI: UN PRINCIPE DETRONIZZATO DAI PARTICOLARI SENZA IMPORTANZA
“Non è da questi particolari che si giudica un giocatore” spiega il cantante Francesco De Gregori nel celebre brano “La leva calcistica del ’68”. Però è stato un particolare, senza importanza per il cuore, come un calcio di rigore, ad accelerare l’addio di Giuseppe Giannini dall’amata Roma.
A soprannominarlo così fu Odoacre Chierico, un guascone con la battuta pronta. L’incedere elegante, palla al piede, lo designò a erede di Paulo Roberto Falcao.
Dopo il mesto incontro perso ai rigori (hai voglia a ripetere che contano poco, ci perdoni l’ardire De Gregori) e la partenza per il capoluogo lombardo del leader taciturno Ago, il campione brasiliano, che peraltro si era rifiutato di calciare un penalty nella lotteria favorevole al Liverpool, cominciò a piantare grane. Dino Viola, il presidente che con la conquista dello scudetto aveva liberato i tifosi giallorossi, ivi compreso il sottoscritto, “dalla prigionia del sogno”, mise Falcao con le spalle al muro. Su quelle dell’allora giovanissimo Giannini, una volta rescisso il contratto col fuoriclasse di Porto Alegre, furono riposti oneri pesanti. Correva voce che il Principe avesse poca personalità. Non vi fu invece mai un rifiuto codardo o accidioso da parte sua. Alle geometrie perfette, garantite dai tocchi di palla pregiati, seguirono le meritevoli assunzioni di responsabilità. Nel momento in cui Dino Viola venne a mancare, il capitano Giannini depose un mazzo di fiori nella tribuna presidenziale nel ricordo di una figura paterna per tutti i giocatori e ogni tifoso.
Nei derby contro la Lazio, il Principe rappresentò l’anima dell’intero gruppo, nelle partite di cartello in campionato e nei match di Coppa Uefa, con un’altra vittoria mancata per un soffio, spese ogni goccia di sudore. Con strenuo impegno. Anche quando si affacciò lo spettro di un commissario liquidatore, a causa delle ‘pinzillacchere’ di Ciarrapico, intento a rifiutare ad Agostino Di Bartolomei addirittura il ruolo di usciere, Giannini risultò sempre dedito alla causa. Le spese di trasporto spettarono chiaramente ad altri. Lui guidò la squadra sul campo infilando tre rigori su tre nella finale di ritorno di Coppa Italia col Torino. Il trofeo fu agguantato lo stesso dai granata. Il portiere Luca Marchegiani, passato l’anno seguente alla Lazio, si vendicò parandogli il penalty che avrebbe permesso di riacciuffare gli apostrofati cugini nel derby. Franco Sensi, subentrato al precario re delle bollicine Ciarrapico, diede un caro saluto nel giro di due anni pure al Principe. Trovò un impero pieno di debiti, settanta miliardi di lire circa, ed era intenzionato a riportare nella sponda giallorossa lo scudetto vinto da Diba e Viola. La Banca di Roma diede garanzie per scongiurare la messa in liquidazione. Si aprì un capitolo nuovo, con Sensi, figlio di uno dei fondatori del Campo Testaccio, che esortò il socio Pietro Mezzaroma ad andarsene, per non disperdere tutto in una doppia direzione, con Giannini costretto a ricordarsi dell’errore dal dischetto e col ‘Pupone’ chiamato a sostituire il suo idolo nel cuore dei tifosi.

LA CLASSE CRISTALLINA DI FRANCESCO TOTTI: IL ‘PUPONE’ COI CERCHI SUGLI OCCHI
Il tifo organizzato, mentre Sensi rileva il pacchetto azionario da Mezzaroma per divenire l’unico capo, non è più in mano al CUCS (Commando Ultrà Curva Sud). Il Principe resta però una bandiera fondamentale. “Quando al cielo si alzeran le bandiere” cantavano negli anni Ottanta all’unisono i supporter della ‘Magica’ per esorcizzare la paura di essere una Rometta. Totti si era comunque procurato un rigore, facendosi beffa del difensore Paolo Negro, e Giannini aveva gettato al vento l’occasione. Ammainata la vecchia bandiera e innalzata quella di Totti, i vari gruppi ultras della Curva Sud cominciano ad accapigliarsi tra loro.
Le ragioni delle discordie non sono dovute a questioni di lana caprina, tipo le pur suggestive coreografie, bensì alle promesse di Sensi. Alcuni gli credono, molti lo chiamano “bla bla”, una frangia ipocrita ed estrema mal digerisce che non gli permetta di mettere sù un mercatino, vendendo sciarpe e gadget d’infima qualità, per rientrare delle spese d’innumerevoli trasferte trascorse a combattere il freddo. Si vocifera che Ciarrapico fosse più aperto in tal senso. Sono chiacchiere di corridoio. Serve una sana completezza d’informazioni per rispettare il concetto, sia in prassi sia in spirito, di obiettività. Le porzioni di realtà, al contrario, sono ingigantite dai litiganti ed esacerbate a seconda di necessità più o meno nascoste e disattese. A mantenere le promesse ci pensa Totti. Ad applaudirne le giocate, condite di “cucchiai” spettacolari e passaggi “no look” perfetti, è l’intero Stadio. Al pari dei tifosi che guardano la partita in televisione, nel salotto di casa.
Nel frattempo Eriksson – l’allenatore svedese che era arrivato a un passo dallo scudetto con la Roma di un Giannini alle prime armi – sta raccogliendo risultati importanti con la Lazio, quotata addirittura in Borsa dal patron Sergio Cragnotti. Allora anche i “lupi”, per allontanare la rima dei “tempi cupi”, approdano a Piazza Affari. Sensi mira all’eccellenza e acquista dalla Fiorentina il campione argentino Gabriel Omar Batistuta. Una forza della natura. Totti è la luce, lui la clava. Arriva lo scudetto, grazie al ‘Pupone’, al centravanti noto come il ‘Re Leone’, al futbol bailado del brasiliano Cafu, il ‘Pendolino’ che sulla fascia destra corre come uno scippatore. Il trionfo, nonostante l’esperienza in panchina di Fabio Capello, non si rivela un balsamo di lunga durata. Servono ulteriori investimenti. Le stelle una a una tramontano. Solo Totti resta intatto. Sembra un’Araba Fenice: rinasce dalle sue ceneri. A crollare invece sono le quotazioni. Il mercato azionario non guarda in faccia all’astro nascente De Rossi.
I rialzi effimeri e la volatilità del titolo si vanno ad aggiungere ai bagni di sangue dovuti agli acquisti più ambiti. La bolgia dei creditori è particolarmente ostile. I pagamenti degli stipendi sono sospesi. I debiti verso i fornitori mettono a rischio i rapporti di compravendita e di comproprietà. Sensi, ormai logoro, anche a causa dei faticosi contratti per i diritti tv con Sky e dell’impari lotta con le eminenze grigie del pianeta calcio, passa il testimone alla figlia Rossella, che, nonostante la costosa eredità, si rivela una curiosa emule di Cameron Diaz in “Ogni maledetta domenica”: ben educata, grintosa, pronta a dire la sua in un ambiente di uomini. Con Luciano Spalletti in panchina Totti si aggiudica, alla soglia dei trentun anni, la Scarpa d’oro. Il ragazzo si è fatto uomo. La classe è sempre cristallina, riesce ogni volta a motivare se stesso. Meno il gruppo. Lo slogan Roma Caput Mundi è un macigno pesante.
La società, intanto, sembra un guscio di lumaca che s’infrange al minimo contatto. Totti sopporta poco le ‘carezze’ dei marcatori diretti, tranne recuperare a tempo di record dopo la frattura del malleolo, e quando chiede il prolungamento del contratto alla stessa cifra, Rossella prende tempo. Gli è affezionata, ma le montagne russe della Borsa presentano conti salati. Lei ci mette il cuore. E pure il portafoglio. Però non è sufficiente. Il padre coniuga la vita all’imperfetto, dopo una lunga malattia. Totti porta la bara sulla spalla. Ha i cerchi sotto gli occhi: il dolore è immenso. Il patrimonio è tuttavia svalutato. Franco Caltagirone ha la liquidità necessaria per risolvere al meglio; vuole costruire la Cittadella dello Sport in ventinove ettari edificabili a Torrevecchia. Salta tutto.
L’approdo di Pallotta segna il bisogno di credere in progetti a lungo termine. Quelli a breve scadenza, afferma, meglio lasciarli perdere. L’italo-americano si è fatto le ossa a Wall Street e abbraccia il giocatore-simbolo Francesco Totti. È una strategia di marketing da manuale. Mentre è in altre faccende affaccendato, per dimostrare ai correntisti delusi che Tor di Valle, l’area prescelta dove costruire uno stadio di proprietà, è quella giusta, ‘Checco’ continua a timbrare il cartellino. A modo suo. Sulla scorta di un talento senza pari.
Il ritorno di Spalletti è una minestra riscaldata. Che lo condanna all’oblio. L’età ci sarebbe. Francesco non ci sta, invece, e con una manciata di minuti a disposizione, neanche fosse il figlio di Gheddafi nel Perugia, ribalta gli incontri. Pallotta gli rinnova il contratto per l’ultima volta. Lo attende un ruolo da dirigente. Italo Cucci conia così il termine ‘diriniente’. Come dargli torto?

L’ADDIO DI DANIELE DE ROSSI: UN LEADER PIÙ FORTE DEGLI ACRONIMI
Totti, da mezzala di regìa in grado di carezzare il pallone con la suola e di colpirlo d’interno collo o di esterno con una potenza alla Gigi Riva, ha fatto sembrare facili, a vedersi, cose in realtà difficili se non impossibili. De Rossi invece è divenuto oggetto di una curiosa sopravvalutazione dal punto di vista tattico. Le leve lunghe, l’abitudine a giocare a testa alta, la corsa elegante costituiscono l’origine di un equivoco: un conto sono le doti di un combattivo cursore del centrocampo, capace di fiondarsi in attacco a firmare reti decisive, e un altro sono i lanci coi contagiri dei suggeritori raffinati. La questione è venuta a galla con un’altra ‘minestra riscaldata’: il ritorno del mister boemo Zeman lo aveva messo alle strette senza nondimeno renderlo un corpo estraneo alla squadra. Campione del mondo, insieme a Totti, assai meno abile a comunicare a voce il proprio pensiero, tanto con la maglia azzurra quanto con quella per cui batteva il suo cuore di tifoso da ragazzino De Rossi resta uno che pensa più al gruppo ché a mettersi in vetrina. Ed è il requisito ‘prìncipe’ di un trascinatore che vede nel calcio una scuola di etica. Capitan Futuro è rimasto a lungo in attesa dello scettro ufficiale per via della longevità di Totti. Il Capitano dei Capitani all’ombra del Colosseo. Canzonatorio coi laziali, svelto a preferire i motteggi, ma autoironico al punto da promuovere un libro di barzellette su se stesso. All’inverso, nessuno si è mai azzardato a prendere in giro De Rossi. Salvo qualche amnesia, dovuta all’eccesso di agonismo, Daniele si è fatto rispettare. Pure grazie all’alta densità lessicale profusa in ogni lucida analisi pronunciata a partita conclusa. “L’era Pallotta” l’ha però innervosito sin dall’inizio. Prima di Zeman, reo di dire pane al pane senza pensare al vincolo dell’ambiente con un allenatore in campo che mobilita le passioni, anche Luis Enrique rimarcò di avere il bastone del comando. C’è chi sostiene che ci fosse lo zampino del dirigente Franco Baldini, vicino al tecnico iberico. Certamente il cambio in panchina con Rudi Garcia ha ridato speranza. Per poi pagare dazio all’inattitudine a rovesciare gli ostacoli.
Si sono dimostrati più costanti gli ultras a “macinare chilometri”. Pallotta, al contrario, di strada ne ha fatta poca. Sono scattate le manette per il costruttore Luca Parnasi, interessato ad acquistare in combutta con l’affarista italo-americano l’area prescelta per edificare lo stadio. Il progetto, messo in piedi dal rinomato architetto Dan Meis per un impianto con 60.000 posti, negozi e ristoranti, non ottiene il beneplacito degli uffici competenti del Comune. Frattanto col gol del nuovo astro del firmamento autoctono, Nicolò Zaniolo, in Roma-Fiorentina, l’apporto gladiatorio di De Rossi in panchina passa attraverso un’esultanza con le vene del collo in evidenza e i pugni serrati. È questa la materia di cui sono fatti i leader. Quella di cui sono fatti i sogni d’ascendenza shakespeariana, in merito alla proprietà dello stadio e alla rete di vendita ramificata dei prodotti targati Roma, muore all’alba. Mala tempora currunt? Certamente sì. I tifosi casalinghi, accusati di pusillanimità da quelli decisi ad anteporre lo stadio alle sale da ballo, ostentano rassegnazione ma masticano amaro in verità. La Roma è bella, ma non balla. Appunto.
Con buona pace dei motti sull’eroismo tragico e sul martirio in battaglia, la Curva Sud assiste senza nemmeno l’arma dell’ironia al saluto dell’ultima bandiera ammainata. Totti, da par suo, in tribuna, al contrario di Nedved che insieme ad Andrea Agnelli sembra un ‘tarantolato’ voglioso di (ri)scendere in campo, appare come una sfinge. Incapace di aiutare De Rossi. I pettegolezzi sul piano ordito dal Capitano in doppio petto per farlo fuori non sono da fischi, ma da pernacchie.
Passando ad altro, riflettendoci con obiettività, neanche Ferraris IV lottò con le unghie e con i denti per persuadere il c.t. Pozzo a convocare per i Mondiali del 1938 il fraterno amico ed ex compagno di squadra Fulvio Bernardini. Francesco ha ancora otto viti infilate nella caviglia. Magari, scoprendo la funzione ludica dello sport lontano dal terreno di gioco, diverrà un dirigente che sa il fatto suo. In maniera diametralmente opposta da Baldini che, col terzo ritorno alla corte della ‘Lupa’, a dispetto degli incarichi internazionali con gli sponsor, è divenuto il simbolo della minestra riscaldata.
Frattanto ad animare De Rossi c’è una sana voglia di riaffermazione. Più forte dell’acronimo con la scritta DDR (“Dono di Roma”). Più delle magliette promosse dal Corriere dello Sport e vendute nelle edicole della Capitale al pari di un ‘aglietto’ con cui consolarsi dopo un’altra occasione buttata alle ortiche. Più forte dello stipendio di 6,5 milioni di euro più bonus, che lo aveva incoronato Paperon de’ Paperoni dei calciatori. Più forte degli accordi e dei disaccordi che ne mettono in rilievo la scarsa efficacia nei derby rispetto ad Ago, Giannini e Totti. Al di là dei corsi e ricorsi storici, che innescano vani confronti del popolo con le banche, ignorando l’equa soglia di competitività ed efficienza, la leadership costituisce una lezione di vita. Che mette d’accordo cuore e cervello. James Kerr ha scritto un libro sulle virtù carismatiche della nazionale di rugby a 15 della Nuova Zelanda, gli All Blacks. Il titolo del saggio sportivo, “Niente teste di cazzo”, seppur di grana grossa, vale assai più di un titolo quotato in borsa ed è rivolto ad ‘azionisti’ solo di passaggio.
La virtù della speranza rimane. Ad Maiora, Capitan Futuro.

MASSIMILIANO  SERRIELLO