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IMPRESA DI FIUME 1919 – 2019 (speciale consulpress)

D’Annunzio a Fiume ultima città del Risorgimento e la Costituzione Estetica dell’8 settembre

 Fiumanesimo: complessità dinamiche e interconnessioni tra la libera città Stato e il resto del mondo a cent’anni dal percorso

  Raffaele Panico

Impresa di Fiume, è parte importante dell’Italia dimenticata ed è uno degli aspetti delle varie questioni d’Italia. Quella Romana, anzitutto, l’annessione del Mezzogiorno e la scoperta della questione Meridionale, la questione poi dell’emigrazione di massa dal Regno dagli ultimi lustri dell’800, poi la questione Adriatica e, nel dopoguerra con la formazione della Repubblica la questione dei profughi italiani dalle province cedute col Trattato di Parigi; negli anni Cinquanta l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, infine, negli ultimi due decenni del XX secolo la questione Settentrionale con una formazione politica che proponeva una effimera ed inventata sorta di macro regione denominata Padania. Lo speciale intende inquadrare pagine di storia a cent’anni dal 12 settembre 1919 che legano la storia del Regno d’Italia e della Repubblica italiana elaborata tra corsi e ricorsi storici e problematiche ricorrenti e ritornanti della storia degli italiani ora proiettati nel XXI secolo.

Fiume, fino al 1947 città italianissima, era giuridicamente Corpus separatum: era lo sbocco al mare dell’Ungheria. Con la votazione promossa dal Consiglio nazionale della città di Fiume il 30 ottobre 1918, pochi giorni prima la vittoria del IV Novembre della Grande Guerra, con un plebiscito nel solco della tradizione risorgimentale si proclamava l’unificazione alla madre patria. Fiume nei secoli aveva dato prova di indelebile italianità a fronte di grosse difficoltà.

Dal 1848 durante le fasi della I guerra d’Indipendenza la città era stata occupata dai croati asserviti a Vienna, e nel ventennio di giogo croato si moltiplicarono le manifestazioni di italianità. Nel 1867 l’Ungheria ottenne una sua costituzione e Fiume tornò ad essere Corpus separatum. Il governo italiano per l’equilibrio del potere della diplomazia di fine Ottocento non prevedeva l’annessione di Fiume, nemmeno voleva la fine della Duplice monarchia austro-ungarica e lo smembramento dell’impero in stati nazionali, questi sviluppi non erano previsti nel Patto di Londra. Patto di Londra, tenuto segreto, firmato da Roma, da Londra, da Parigi e dalla Russia zarista; con la rivoluzione bolscevica e l’uscita dalla guerra della Russia, entravano nello stesso anno in guerra gli Stati Uniti, poi chiamiato l’“Associato” alla guerra, non a conoscenza e non firmatario ovviamente del segreto Patto di Londra, e col presidente Wilson di fatto nemico delle richieste italiane. Lo sbocco al mare per le nazioni continentali, Fiume per l’Ungheria, come poi il corridoio di Danzica per la Polonia, era una necessità vitale. Nell’estate del 1914 si pensava che la guerra durasse pochi mesi. Come sappiamo i sacrifici finirono per demonizzare il nemico per  l’estenuante sforzo bellico la guerra venne fortemente ideologizzata, la Francia promosse la “repubblicanizzazione” della guerra contro gli atavici imperi centrali; con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti si introdusse il principio di nazionalità promulgato dal Presidente Wilson, che cambiò le carte già firmate dalla diplomazia degli stati europei durante le trattative di pace. L’Italia non riuscì a conciliare le richieste del Trattato di Londra con il principio di nazionalità, così Fiume divenne una questione vitale.

Dopo Vittorio Veneto, disgregato l’Impero austro-ungarico, i mali d’Europa, come il vaso di Pandora, usciranno dai confini orientali. Anche per l’Italia vale questo dato di fatto: la confusione sull’applicazione integrale o estensiva del Patto di Londra.  L’ordinamento geopolitico post bellico del 1919-20 stabiliva uno squilibrio fra le potenze di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, e le potenze sconfitte o che dalla vittoria non avevano tratto grandi benefici, definite nullatenenti, la Germania, e dall’altra l’Italia e il Giappone. L’Unione Sovietica era la potenza proscritta a causa della rivoluzione bolscevica.

 La Grande Guerra segnò uno spartiacque: la rottura del binomio liberalismo-nazionalità. Il liberalismo andò in crisi, l’idea di nazionalità venne esasperata in nazionalismo. Il libro di George Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, esamina il nazionalismo dai diversi volti. Mosse analizza principalmente quello della destra radicale che sul finire dell’800 divenne una forza rivoluzionaria. Era soprattutto la gioventù la truppa d’assalto di quel nuovo ideale. Nel 1914 con il richiamo della bandiera, la leva di massa e l’ingresso in guerra della nazione, il nazionalismo a guerra finita doveva trovare maggiore forza e coesione col fenomeno del cameratismo bellico e dichiarava aperta la stagione di caccia contro i sistemi parlamentari, contro le forze liberali e socialiste. Il nazionalismo della destra radicale si propose dunque come la terza forza politica.  

E cosa dire alle masse, dopo milioni e milioni di morti? Come elaborare il lutto collettivo delle masse nazionali? Facciamo un passo indietro, analizziamo il dannunzianesimo. Il culto della bellezza estetica era una forma di espressione già raggiunte da D’Annunzio e collaudata prima che egli occupasse Fiume. Il nazionalismo viene esplorato attraverso la letteratura. Nell’ultimo romanzo dannunziano  “Forse che si forse che no” (1910), il protagonista è un aviatore votato alla conquista del cielo. Per l’autore solo pochi anni ed il mezzo aereo ed i motivi eroici dell’aviatore del suo romanzo diventano realtà. D’Annunzio nel confronto con altri poeti ed intellettuali del suo tempo è eccezionale. Il dannunziano fuoco  letterario diventa la fiamma, il simbolo  degli arditi e a guerra finita, alcuni di questi soldati formarono a Fiume la legione delle Fiamme nere, per simboleggiare il fuoco purificatore e la tempra dell’acciaio per far risorgere Fiume dal “colposo oblio”. Nei sedici mesi della Reggenza del Carnaro, il poeta guerriero celebrava numerose feste nazionali con vari pretesti e diversi cerimoniali: il mito si istituzionalizzava attraverso il potere politico. Le azioni eroiche, i martiri venivano identificati con le bandiere simbolo di rigenerazione nazionale. A Fiume il poeta rimase su una concezione spirituale dell’esercizio dello stile politico: “noi apparteniamo ad una patria diversa…noi crediamo negli eroi” ed evacuata Fiume dopo il bombardamento delle unità militari regolari italiane, continuò i suoi sermoni di miti e simboli, idealizzando se stesso, proclamando con “virile pazienza” che  “il manto d’immortalità avrebbe coperto tutti i sacrifici che erano stati compiuti”.

Terminata l’ebbrezza dell’avventura fiumana, un rientro sulla scena politica nazionale gli era impossibile oltre che da Mussolini, proprio per la sua concezione mistica. Mosse sostiene che già nel 1921 era  finito il contributo dannunziano alla vita politica e insieme raggiunta la compiutezza di uno stile politico perfezionato a Fiume da un sostrato formatosi nel corso dell’Ottocento col crescere dei movimenti delle nazionalità. Appropriandosi della storia e della natura, rispondendo all’esigenza di interezza e di valori assoluti, il nazionalismo favorì l’integrazione dell’individuo con le masse mediante una visione collettiva. La natura, con i suoi miti e simboli, la purezza delle montagne, dei boschi e del cielo, veniva eletta a dispensatrice di sacri ed immutabili valori opposti al susseguirsi tumultuoso del tempo, rimedio alle polarizzazioni ed incertezze sociali.

È interessante nel libro di Mosse il confronto con l’altro letterato in azione, lo scrittore tedesco Eisner capo della rivoluzione rossa in Baviera (1918-19) che governò per quattro mesi. Nel caso di Eisner in Baviera, partendo dall’idea di dover rovesciare il sistema capitalistico, l’azione doveva essere concreta e incisiva in campo sociale, perciò non un mito da istituzionalizzare attraverso una liturgia del potere politico. La sola liturgia non poteva fungere da azione sociale e politica. Eisner altrettanto quanto D’Annunzio era un eccellente oratore e aveva carisma; ma si rivolgeva alle masse attraverso i Consigli di operai e di contadini; non occorrevano miti, simboli e feste, semmai di secondaria importanza: le masse non erano un corpo mistico.  Durante la reggenza di Fiume ci fu una sorta di divisione dei compiti. L’aspetto sociale venne elaborato dall’anarco-sindacalista Alceste De Ambris, l’aspetto mistico, cioè la liturgia politica da D’Annuzio. L’elemento mistico religioso era la concezione del popolo come organismo unitario e compatto, un “corpo mistico” da governare con virtù e bellezza. La liturgia si concretizzava nella concezione nella Decima corporazione, che insieme alle altre erano sancite nella Carta del Carnaro. La Decima  era riservata, era la stessa forza mistica ed operosa del popolo destinata ai nobili fini e orientata all’uomo nuovo. D’Annunzio nei sedici mesi del suo governo a Fiume ottenne il miglior risultato realizzato nella ricerca del nuovo stile politico. Mosse pone su un piano così rilevante il caso D’Annunzio a Fiume “per capire la natura dei moderni principi politici quanto lo è quello di un qualsiasi statista o governante, nonostante l’occupazione di Fiume ebbe breve durata.

A Fiume, questione di salvezza nazionale e nodo gordiano dell’identità italiana

Renzo De Felice, sul ruolo di Mussolini nell’impresa di Fiume, scrive: “non ebbe su di essa alcuna vera influenza”. Sebbene D’Annunzio scrive a Mussolini nel pomeriggio dell’11 settembre: «Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi». De Felice sottolinea che Mussolini “non era che una – sia pure importante, ma non importantissima – delle sue molte pedine”[1]. E continua – è fuor di dubbio che “l’idea del colpo di mano dannunziano sia nata in un clima di congiura tra nazionalisti, parte degli irredentisti e alcuni esponenti militari anche di grado elevato […] ed aggiunge: “l’unica vera forza di D’Annunzio – oltre ad alcuni particolari interessi finanziari e industriali sui quali non è possibile ancora fare luce – era l’esercito”.

Paolo Alatri, riporta informazioni che possedeva il Gran Maestro Domizio Torriggiani sullo stato d’animo dei fiumani, nell’ottobre del ’19. Scrive[2]  che vista la necessità di intrattenere colloqui concreti con D’Annunzio, Badoglio propose al Presidente del Consiglio Nitti di incaricare una persona amica al Comandante e chiedeva se Tittoni fosse quella giusta. Nitti, “per considerazioni evidenti e delicate”, rispose a Badoglio negativamente indicando nel Gran Maestro Torriggiani la persona prescelta, dato che sapeva che molti degli ufficiali di D’Annunzio erano massoni. Paolo Alatri, inoltre, in nota alla pagina sopra citata, segnala due libri, inerenti il periodo dal primo dopoguerra fino all’avvento del fascismo – lavori di narrazione storica, sulle tendenze politiche delle due Massonerie, di Palazzo Giustiniani, con a capo il Gran Maestro Torriggiani e l’altra di Piazza del Gesù con gran maestranza di Raoul Palermi: “Trentatrè vicende mussoliniane”, e “Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano”, sull’appoggio della massoneria all’impresa fiumana di D’Annunzio [3].

Aldo Mola, in La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria[4], vede la questione di Fiume come l’ultima impresa del Risorgimento per la massoneria italiana. Nel maggio del 1919, avveniva uno scambio di lettere tra la massoneria livornese e la Loggia di Fiume. La Loggia di Livorno, commemorava le camicie rosse di Garibaldi ed inviava alla città di Fiume un fraterno saluto, sintetizzato nel motto “O Fiume o morte”. Il Presidente del Consiglio Nazionale di Fiume, Grossich, rispondeva: “l’Italia non permetterà mutilazione al nostro italico diritto”.[5] All’inizio del 1919, il podestà di Fiume, Antonio Vio, venerabile della locale loggia Sirius, venne ricevuto a Roma presso la Loggia Rienzi. Vio confermò che in forza della dichiarazione del 30 ottobre 1918 del Consiglio Nazionale di Fiume, la città era unita giuridicamente alla grande madre Italia.[6] Tornato a Fiume, Vio convocò una seduta della loggia Sirius ed espulsi i fratelli non italiani, ruppe l’originario legame d’obbedienza con la Gran Loggia d’Ungheria e chiese d’essere annessa al Grande Oriente d’Italia. Il fiumanesimo rivendicato dalla massoneria italiana aveva origini risorgimentali. L’Ordine massonico non rivendicava un gretto nazionalismo, voleva assicurare i confini del “guscio”, come espresse il Gran Maestro Ernesto Nathan: “Chiedere il proprio guscio è necessità di esistenza, vita giornaliera, sicurezza di pace senza potenzialità d’offesa, per chiunque affronta imparzialmente la grande questione dei popoli e del loro definitivo assetto, perché ognuno possa liberamente esplicare le proprie attitudini a beneficio del consorzio umano”.[7] Adriano Lemmi, nato a Livorno nel 1822, nella prima giovinezza restò volontario in esilio a Costantinopoli dove sviluppò un fiorente commercio; seguace di Mazzini e partecipe alle vicende della Repubblica Romana nel 1849, finanziò nel 1857 l’impresa di Pisacane. Nel 1860 si stabilì in Italia dove nel 1885 divenne Gran Maestro.  Lemmi, sui “confini del guscio”, riprendeva il disegno del suo predecessore Garibaldi: ad occidente, presso il fiume Varo, rivendicava la parte sinistra del Rodano, e la Provenza fino alle Alpi occidentali; ad oriente, invece, si voleva tutta la Dalmazia, le isole e le coste lungo l’Adriatico. Secondo la tradizione risorgimentale dell’Ordine, Fiume era dunque una minima richiesta. I massoni si sentivano depositari dello sforzo storico per l’unificazione italiana e, date le premesse risorgimentali,  garanti della tradizione nazionale, nel rispetto delle istituzioni e del governo, ma sentivano, anche, il dovere di riprendere la “marcia”, con libertà d’azione, se il diritto della Patria fosse stato offeso o limitato. Il Gran Maestro Nathan, in un’intervista su “Epoca”, nel terzo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia, dichiarava: “La Massoneria volle la guerra e ha dato alla guerra tutta se stessa […] Le Logge son deserte perché i fratelli son partiti a combattere. E molti, molti son rimasti lassù […] La massoneria ha voluto la guerra accanto ai popoli liberi, perché ha una bandiera sulla quale è scritto Progresso”. Negli anni precedenti l’ingresso in guerra era stata comunque una decisione sofferta per le logge. Nathan aveva mediato e, sottolineato, come la posizione neutrale di Giolitti non fosse antinazionale, bensì la constatazione di un Paese impreparato allo sforzo bellico. Proprio riflettendo sulle differenti posizioni, Nathan chiese ai fratelli lo sforzo supremo verso una  vittoria militare, per due motivi: ottenere i confini naturali e instaurare un’autentica democrazia. Raggiunta la vittoria, il problema per la Massoneria divenne la diplomazia internazionale, alla Conferenza della Pace. Il 25 aprile 1919 la Giunta dell’Ordine, i presidenti del Supremo Consiglio dei 33, la Gran Loggia d’Italia e il Gran Maestro pronunciarono piena solidarietà all’operato della Delegazione italiana a Versailles, ed auspicarono coraggio e chiarezza d’intenti a quanti nel mondo erano attenti alla causa di libertà e giustizia, in contrasto con il presidente americano Wilson “non interprete del sentimento della grande e libera America, amica dell’Italia”. Nathan, quatto giorni dopo, scrisse a Vio: “Nessuna umana potenza potrà né dovrà mai scindere Fiume dalla grande madre pur profanando ogni più elementare senso di libertà e di giustizia”. Il sindaco di Fiume rispose: “Vinceremo, perché la nostra fede nell’Italia è più grande della nostra angoscia”.

Il libro di Paolo Alatri[8] produce una importante documentazione d’archivio, di narrativa e di studi critici sulla questione adriatica, relativa alla prima metà del 1919. Coincide questa mole di documentazione con la Conferenza di Parigi del 18 gennaio – 28 giugno 1919. Dall’estate del 1919 in poi la documentazione diminuisce via via. Determinante era stata la diatriba Wilson-Orlando,  aveva prodotto una notevole mole di pubblicistica, per mano di giornalisti e di storici dell’epoca. Fin dal 1924-25 erano stati pubblicati i resoconti delle sedute del Consiglio dei Dieci, dei Cinque e dei Quattro, organi deliberativi della Conferenza di Pace, formati dai primi ministri e dai ministri degli Esteri degli Stati Uniti, di Gran Bretagna, Francia e Italia, e dai rappresentanti del Giappone: i resoconti sono forniti dalle minute, dai verbali di riunioni e da varie missive ma, anche, da pubblicazioni di diari e di varie testimonianze dei partecipanti delle delegazioni. Le pubblicazioni dei documenti inerenti il periodo successivo alla firma del trattato di Versailles del 28 giugno 1919 sono avvenute, in parte, dopo la seconda guerra mondiale, da americani e britannici. Questa breve premessa induce alcune considerazioni: nello studio di Mario Toscano [9], nell’avvertenza l’autore dice che dagli scritti dei partecipanti alle trattative (del Baker, del Tardieu, del Lansing, del conte Aldovrandi, del colonnello House) si poteva ricostruire, con completezza, la storia del primo periodo delle trattative con Orlando-Sonnino, molto meno si aveva a disposizione per una disamina delle trattative del periodo Tittoni, Scialoja, e Carlo Sforza. I documenti di Nitti, da lui raccolti e custoditi, dal momento che lasciò la Presidenza del Consiglio, sono poi stati tenuti nascosti durante la parentesi fascista da Paolo Alatri, e da questi riordinate e studiate per l’edizione del suo libro citato. Anche per il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando successe la stessa cosa. La documentazione intorno alla Questione adriatica sono lettere, missive della Presidenza del Consiglio e i telegrammi inviati e ricevuti. Gaetano Salvemini, in un discorso alla Camera dei Deputati, il 24 novembre 1920, riferendo sulle trattative italo-jugoslave tenutesi nella primavera del 1919, chiedeva, al ministro degli Esteri la pubblicazione della documentazione relativa. Una nota precisava che la documentazione del Ministero Orlando era sparita in blocco! Alatri ebbe poi la possibilità di avere l’intera documentazione, sia delle trattative diplomatiche a Parigi, sia su quanto avveniva a Fiume, tra il Governo di Roma e il Governo di Fiume del comandante D’Annunzio. La documentazione, studiata da Paolo Alatri, riguarda soprattutto le carte dei copialettere della Presidenza, cioè i dispacci che il presidente del Consiglio inviava al ministro degli Esteri, agli ambasciatori, ai funzionari e ai delegati, e ad altri agenti del Governo centrale e quelli, viceversa, ricevuti a Roma. Tale documentazione è rigorosamente ordinata. Alcuni fascicoli sono denominati “Fiume, D’Annunzio, Dalmazia”, una raccolta di lettere e dispacci, corrispondenza del Governo centrale con i Commissari straordinari militari della Venezia Giulia e Dalmazia, cioè i regolari incaricati di presidiare e fronteggiare i legionari dannunziani. Il primo Commissario fu Badoglio, poi Caviglia. Vi sono anche, continua Alatri, la corrispondenza con i prefetti e commissari civili della nuova regione annessa all’Italia. Nel merito, i secondi, i rappresentati del Paese legale ossia del Governo centrale di Roma inviavano relazioni sull’ordine pubblico, minacciato dall’impresa dannunziana e dal movimento sedizioso, vasto nelle proporzioni e di profonde conseguenze. Alatri si è servito anche del Diario che Nitti teneva.

Trattative dirette tra il Governo centrale dell’allora presidenza del Consiglio Nitti, e il Consiglio nazionale di Fiume, erano assai difficili. Nell’ottobre 1919 Francesco Salata, capo dell’Ufficio per le Nuove Provincie dell’Alto Adige, Venezia Giulia e Dalmazia, trattò e discusse col deputato fiumano Ossoinack e col sindaco di Fiume Antonio Vio. Mentre il primo dichiarava a Salata che poi telegrafava a Nitti: “in massima – Ossoinack – è favorevole a trattative dirette fra i Delegati del consiglio Nazionale e noi”, l’altro contatto, il sindaco di Fiume Vio, sosteneva di non poter trattenere rapporti, anche con persone indirettamente legate al Governo di Roma, senza il consenso di D’Annunzio; ma aderiva, invece, ad incontri segreti ed amichevoli con intese che, se accettabili, si incaricava di trovare il modo di presentarle al Comandante. Salata si incontrò con il maggiore Giurati, Capo di Gabinetto del governo di D’Annunzio. Giurati venne autorizzato da D’Annunzio a parlare con Salata, e chiese anzitutto le dimissioni di Nitti dal Governo. D’Annunzio in quei giorni riceveva a Fiume delle persone che incaricate da Mussolini convinsero i legionari fiumani a resistere ancora venti giorni, dato che, con una insurrezione popolare, sostenevano, si sarebbe rovesciato il Governo centrale.    

L’ambiente politico a Roma

Nitti era disponibile a cedere sulle rivendicazioni territoriali pur di definire un accordo con la Jugoslavia sui confini: riteneva prioritario e fondamentale procedere alla smobilitazione interna, militare, politica e psicologica. Alla Conferenza della Pace di Parigi la situazione della trattativa era compromessa a punto tale che Orlando si dimise dall’incarico il 19 giugno 1919. Il 23 giugno Nitti subentrò alla Presidenza del Consiglio; quando  Sonnino comunicò agli alleati l’arrivo del nuovo  ministro degli Esteri Tommaso Tittoni, il primo ministro francese, Georges Clemenceau esclamò: “Che cosa viene a fare? Non c’è più niente da fare”[10].

Il Presidente Wilson il 23 aprile 1919 si rivolgeva direttamente al popolo italiano circa la sua posizione sulla questione adriatica; un atto formale che irritò le autorità di Roma, il Presidente del Consiglio Orlando lo interpretò come un grave attacco alla legittimità del governo stesso. La posizione di Wilson oltre che essere eccessivamente dura era poco coerente con l’Italia. L’opinione pubblica italiana poteva constatare come lo stesso Wilson aveva parecchio ceduto sui 14 punti da lui proclamati con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, con l’Italia invece diveniva intransigente. Del confine del Brennero che includeva 200.000 tedeschi, Wilson non ne discuteva minimamente, sebbene in aperto contrasto con i suoi 14 punti; non occorre dunque allontanarci troppo per verificare le sue contraddizioni contro la città di Fiume. Altrove, in Europa e in estremo Oriente, le contraddizioni erano ben maggiori; in una parte della Slesia, ad esempio, era stato indetto un referendum che decise per la Germania, ma tale zona venne annessa alla Polonia.  Spesso era incoerente, Wilson, infatti, favoriva il Giappone in una riunione del Consiglio dei Quattro con Orlando assente, quando Wilson sostenne che i trattati andavano rispettati anche se violavano i contenuti dei 14 punti, anche se stipulati prima dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti: formidabile smentita della sua intransigenza contro l’applicazione del Patto di Londra[11].

Il passaggio delle consegne dal Ministero Orlando-Sonnino al Ministero Nitti-Tittoni venne segnato dai più gravi tumulti del dopoguerra. Salvemini sostenne che la regia era di circoli di nazionalisti ed industriali, di parte della stampa e di alti esponenti delle forze armate, con l’intento di rovesciare il governo e instaurare un potere militarista-autoritario. L’esercito rimase inerme di fronte a quei tumulti, ed Orlando prima che cadesse il suo governo temeva il complotto politico-militare. Il complotto che doveva avere il via da un comizio tenuto a Roma da D’Annunzio proprio sulla questione di Fiume, non riuscì a decollare. Nitti si preoccupava di economia e della contabilità dello Stato. Mentre l’onda d’urto nazionalistica avanzava, nel contempo  si sottovalutava  la radicalizzazione a destra, preoccupandosi degli scioperi e delle occupazioni della sinistra. Il Presidente del consiglio divenne la personalità da abbattere senza indugi. La smobilitazione dell’esercito da lui voluta in poche settimane mandò a casa la metà dei soldati, migliaia di ufficiali e centinaia di generali. Nitti inoltre, veniva odiato per la riduzione delle commesse e delle forniture all’esercito, per la riduzione ad un quinto delle spese militari, ma soprattutto, per la sua politica estera tutta inquadrata alla liquidazione della questione dei confini.

Fiume, più italiana della mitteleuropea Trieste, perse se stessa e lo Stato estetico dannunziano

Un interesse particolare per la storia italiana dimenticata, come tutta la Questione adriatica per la storia d’Italia, occorre ribadire, è Fiume e il fenomeno del fiumanesimo.

Nei 16 mesi dell’esperienza dannunziana a Fiume viene elaborato il progetto di una costituzione per uno “Stato estetico”; l’idea dell’“ästhetischer Staat” viene elaborata da F.Schiller nel contesto storico degli eventi della Rivoluzione francese, tra il 1793 ed il 1795, quando redige i Briefe. I Briefe schilleriani sono pubblicati per la prima volta nella rivista “Die Horen” (gennaio-giugno1795)[12]. Gli eventi della Rivoluzione francese andavano in tutt’altra direzione, ben diversa, dall’auspicata, alla fine del Brief VII così descritta da Schiller: “L’usurpazione si appellerà alla debolezza della natura umana (die Schwachheit der menschlichen Natur), l’insurrezione alla dignità (Würde) della stessa, finché non interverrà la grande dominatrice di tutte le cose umane, la forza cieca (die blinde Stärke), e deciderà il preteso conflitto (den vorgeblichen Streit) dei principi come un volgare pugilato (Faustkampf)”[13].

Concepiti come trattato di educazione politica ed estetica, nell’ultimo capoverso, dell’ultimo Brief (il XXVII), è proprio Schiller a proporli come un vero e proprio progetto di costituzione:

“Dal momento che un buono Stato non deve mancare di una costituzione, questa si può esigere anche dallo Stato estetico. Io non ne conosco ancora una e posso sperare, perciò, che un primo saggio, destinato da me a questa rivista, sarà accolto con indulgenza”.

Nel corso dell’Ottocento, con l’industrializzazione e l’affacciarsi delle masse sulla scena politica e sociale degli Stati-nazionali, cresce l’esigenza dell’educazione delle folle, del popolo. Il problema, in fondo, è sempre lo stesso dai tempi antichi ad oggi: schiavitù o lavoro umano o, umanizzato, nel senso del continuo mantenimento della soglia del consenso.

Il lavoro schiavistico, dei servi della gleba, del lavoratore salariato urbano uscito dai cicli del lavoro dei campi per introdursi nella società delle prime industrializzazioni, dell’età delle magnifiche sorti e progressive dell’Occidente. Il problema del lavoro ha vocazione socialisteggiante, o comunistica, fin dalle utopie in età moderna, anche su radici di socialismo evangelico. Capitani d’industria illuminati, più o meno filantropi, nel corso dell’Ottocento intraprendono la costituzione di case per operai, asili per i figli dei lavoratori e la loro scolarizzazione. Solo con la prima guerra mondiale si affacciano nuove esigenze di partecipazione che sfociano nella rivoluzione d’ottobre in Russia, la sollevazione spartakista a Berlino…oscillazioni del pendolo politico da destra a sinistra, dalla conservazione alla spesso presunta e non reale “rivoluzione”. A Fiume, invece, abbiamo già visto come lo studioso del nazionalismo europeo Mosse, vede in D’Annunzio un caso unico ed esemplare: il Vate è il primo a realizzare un nuova liturgia del potere politico con l’esercizio di nuove forme d’approccio partecipativo delle folle, divenute masse, che finiscono nell’identificarsi in nuovi miti e simboli, forgiati dal poeta-guerriero e la sua cerchia di intellettuali, nei 16 mesi della Reggenza del Carnaro. L’elaborazionie di idee, di antica memoria, assume a Fiume esiti particolari, grazie all’abbrivio storico che è il clima post-bellico europeo. Anche nella futurista Fiume, città dall’estetismo festoso che raggiunge tutti i suoi cittadini, dove tutto è permesso purché non si danneggia il prossimo, raffinata città-laboratorio della bellezza, della musica e dell’arte dove, finalmente e solo dopo che, Ercole ha vinto, tutte le sue fatiche – i tre anni e mezzo di conflitto contro gli atavici imperi centrali, solo ora, Ercole, può diventare Musagete. Prima, di fronte a tanto terrore e fatica bellica, le Grazie fuggivano atterrite, ed Ercole non poteva certo fungere da Apollo, guida delle Muse.

Nel fiumanesimo, gli italiani, si atteggiano anche a momento unificante della redenzione delle classi sociali europee oppresse come la nazione italiana, la prima da liberare perchè da troppi secoli vessata dagli stranieri, e intendevano esportate la rivoluzione fiumana nel mondo, con un attivismo che non ha seguito – sebbene ha risonanza presso le élites di sinistra degli altri popoli e delle classi sociali sfruttate dal falso parlamentarismo liberal-democratico borghese e capitalistico. Dalla documentazione, dalla pubblicistica, si evince anche un senso cristiano della storia nazionale, piegato alla volontà redentrice che passa attraverso la Casa di Ronchi poi detta, dei Legionari, e segnano così la prima stazione del calvario di Guglielmo Oberdan, dove inizia la marcia dei 1000 uomini guidati dal Vate verso la presa dell’ultima città italiana. L’ultima, che divenne la prima, attraverso l’Olocausto consumato in quel periodo paludoso della vita nazionale del regno d’Italia: era il momento del governo Nitti. Fiume, era l’unico punto luminoso, a cui questi spiriti impregnati di valori ideali della vita, potevano guardare, dopo 42 mesi di guerra di trincea.

Mille uomini che stracciavano i protocolli della diplomazia e calpestavano l’ipocrisia dei politicanti speculatori per piantare le tavole del diritto italiano. Ecco il laboratorio fiumano “estetico” raccolte dal Dannunzio dopo appena 60 di vita nazionale dello Stato italiano monarchico. L’apoteosi della tradizione italica, genti use ad affrontare grandi problemi, risolti da minoranze spesso disperate, a cui le moltitudini, poi divenute masse, se vedono soluzioni vincenti, delegano e lasciano fare. La democrazia, non era matura nell’Italia del regno dei Savoia, e dopo il primo conflitto mondiale, si perse il senso del limite. Perché, se Fiume è stata una festa[14], poi il regime farà precipitare l’intera nazione. Torniamo a Fiume 1919-20 e alla sua costituzione estetistica. La costituzione fiumana, la Carta del Carnaro, alcuni la criticavano, pensando di ritornare alla Repubblica di Platone, o alla Città del Sole di Tommaso Campanella, all’Utopia di Tommaso Moro o, al Viaggio in Icaria, di Stefano Cabet. Nella magnifica formula della costituzione fiumana risiede invece una volontà nobile: la soluzione del tormentoso problema del lavoro, nobilitandolo nella sua applicazione, esaltandolo attraverso il lavoratore redento dalla costrizione. A Fiume, in quei 16 mesi, con D’Annunzio, e parte dell’esercito e della marina, converge la giovinezza italiana, la tradizione cristiana autentica ma, occorre precisare, anche la rottura decisa con la tradizione della Chiesa, al contrario del dalmata italiano Niccolò Tommaseo in polemica con il Machiavelli, perchè dai tempi di Gregorio Magno – la Chiesa – non solo non si era mai posta il problema di formare una coscienza nazionale, ma continuava l’oscura tradizione che vede nelle fatiche del lavoro il giusto prezzo da pagare per il peccato originale. La Chiesa ha voluto evidenziare il lavoro come fatica per espiare le colpe dell’amore profano. Una maledizione che, per la verità, è presente anche in altre civiltà, tanto che il lavoratore era schiavo con il paganesimo, servo della gleba sotto il feudalesimo e salariato con la società industriale. Questa tradizione è così inveterata che anche i socialisti – scrivono i Fiumani – ripudiavano il concetto di nobiltà del lavoro, riprendendo il tema del lavoro come fatica, perché, la società borghese, ha voluto ingannare con una menzogna il proletariato sulla presunta nobiltà del lavoro, in quanto, il lavoro, altro non è che una pena, e la redenzione la si può portare solo attraverso una rivoluzione socialista e l’avvento di una società di uguali. Ma, Fiume, dove convergevano elementi rivoluzionari, socialisti, sindacalisti, anarchici, interventisti, nazionalisti, avventurieri, personaggi marginali e altri ancora, questo laboratorio politico sociale di Fiume, no, non ci stava a questa visione del male che era insito nei rapporti tra gli uomini, tra l’uomo e la società civile a cui appartiene.

Agli inquisitori dell’amore profano come peccato originale e la loro legge del contrappasso  espiare le colpe attraverso il duro quotidiano lavoro e la conseguente Valle di lacrime in cui è immersa l’umanità, ai compagni socialisti o comunisti che sbagliavano a credere di poter redimere l’uomo attraverso una società di uguali e senza classi, o bolscevica come avveniva in Russia con i Consigli operai contadini dei Soviet, i fiumani alzavano forte e chiaro lo slogan intorno al sentimento estetico dell’amore che è bellezza nella forma più alta, così andavano formando la costituzione che affermava la maestà della legge e attraverso l’applicazione del lavoro nobilitato si compiaceva Iddio e gli si rendeva gloria. La più alta vocazione alla nobiltà della vita dell’uomo è data a chi sa lavorare amando, la vita viene così liberata dalla Valle di lacrime. Fiume, nell’affermare la sua italianità, era determinata a risollevare nel suo libero Stato quelle classi di lavoratori, mostrando al mondo intero e alla Madre patria sbandata, che la vita più umile, se incontra tale bellezza di amore nel lavoro, viene soccorsa, per cui ogni attività è degna di essere vissuta, e conferisce all’uomo un’interezza salvifica. Il concetto è chiaramente affermato nella sezione “Dei Fondamenti”, de “La Carta di Libertà del Carnaro”[15], all’articolo XIV dello statuto fiumano che sanziona: “Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nelle università dei Comuni giurati: la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà; l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno e offrire ai suoi fratelli un nuovo dono; il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo”. La Costituzione fiumana, per ironia della sorte, per un capriccio della storia, venne promulgata dal comandante l’8 settembre, del 1920, meno di 4 mesi prima del Natale di Sangue, e preludio dell’8 settembre 1943. Col senno del poi, sappiamo, la fine fatta di quella Patria che si macchiò del sangue dei fratelli italiani a Fiume come giusto D’Annunzio profetizzò.

Bibliografia essenziale

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Fondo d’Archivio, “Giacomo Treves” conservato presso il GOI – Roma, Villa Il Vascello.

[1]    Renzo DE FELICE,  Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi Torino, 1981, vol. I, pp 545-598.

[2]   Paolo ALATRI, Nitti D’Annunzio e la questione adriatica, Feltrinelli Milano, 1976.

[3]   C. ROSSI, Trentatrè vicende mussoliniane, p 142; Giuseppe LETI, Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano, edito nel 1925, p 442 .

[4]    Aldo MOLA, La liberazione d’Italia nell’opera della massoneria, Atti del Convegno di Cuneo, 3-4 aprile 1987, Bastogi, Foggia, p 392

[5]   In, «Rivista Massonica», a. 1919.

[6]    «Rivista massonica», a. 1919, p 22.

[7]     Ivi, a. 1919.

[8]     Paolo ALATRI, Nitti D’Annunzio e la questione adriatica, Feltrinelli Milano, 1976.

[9]  Mario TOSCANO, Il Patto di Londra – storia diplomatica dell’intervento italiano 1914-1915, Bologna, Zanichelli 1934.

[10]   Paolo ALATRI, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica, cit.           

[11]    Si veda, Giancarlo GIORDANO, Carlo Sforza, la diplomazia 1896-1921, Milano, Franco Angeli,1987.

[12]  Antimo NEGRI, L’utopia schilleriana dello Stato estetico, in «Rivista di Storia della Filosofia», n° 4, 2003, trimestrale, Milano, Franco Angeli. Il professor Antimo Negri (Mercato San Severino 25 II 1923 – Roma 28 IV 2005), grande maestro e filosofo, Oltre al succitato lavoro su Schiller, della sua immensa mole di lavori si ricorda il “Discorso sullo stato presente degli italiani”, e alcune ricerche concordate con lui sulla famiglia Imbriani, svolte presso archivi a Napoli e all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli, in particolare su Matteo Renato Imbriani (figlio di Paolo Emilio Imbriani), combattente nelle guerre d’Indipendenza con i piemontesi e poi con Garibaldi, politico e esponente del Partito Radicale Storico, che prese molto sul serio la questione allora Istriano-dalmata; suo fratello Giorgio combatté e morì in Francia nella guerra contro i prussiani.

[13]   A.Negri, L’utopia schilleriana dello Stato estetico, cit.

[14]   Si veda Claudia SALARIS, Alla festa della rivoluzione, Bologna, Il Mulino, 2002.

[15]  La Carta di Libertà del Carnaro. Analisi sindacalista e testo integrale del Disegno di un Nuovo Ordinamento dello «Stato Libero di Fiume», promulgato da Gabriele D’Annunzio.

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