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“L’ESSERE CONTRO” di BAUDELAIRE: abitare
il proprio tempo, essendo contro il proprio tempo

Charles Baudelaire: Anarchia / Scapigliatura / Simbolismo …e non solo

un’analisi a cura di  FRANCESCO RICCI *  

Il programma di Storia della Letteratura dell’ultimo anno di scuola superiore (di secondo grado) è affascinante. Lo è per me, e questo conta poco o nulla, lo è per gli studenti, e questo, invece, è molto importante. I temi e gli autori affrontati li coinvolgono, li appassionano, li fanno innamorare. Infatti, li sentono vicini e per sensibilità e per visione del mondo, nella loro voce – che si fa parola posandosi sulla pagina o risuonando sul palcoscenico di un teatro – rinvengono la stessa propria voce.


Naturalmente, ma la stessa cosa potrebbe dirsi a proposito dello studio della Storia della Filosofia o della Storia dell’Arte, l’incontro tra il giovane lettore e l’artista non sempre avviene con la medesima complicità e con il medesimo trasporto. I gusti, le inclinazioni, le idee dei singoli studenti rivestono un ruolo decisivo in questa operazione di selezione, che distingue e separa gli scrittori oggetto d’amore dagli scrittori oggetto di mero studio.
Eppure, c’è un poeta e prosatore che mette d’accordo tutti, ma proprio tutti, gli adolescenti: Charles Baudelaire (1821-1867). Provare a capire perché ciò accade, può dirci qualcosa in merito al loro atteggiamento di fronte al totalitario ordine liberista.

È di tutta evidenza che la ragione principale del grande successo di Baudelaire tra gli studenti risiede nella bellezza, a tratti inarrivabile, dei “Fiori del male”, che spinse Thomas Stearns Eliot a parlare del libro come del “più grande esempio di poesia moderna”.
Né il giudizio di valore muta di molto se dal capolavoro in versi passiamo a prendere in esame le prose che compongono “Lo spleen di Parigi”, Il pittore della vita moderna, Il mio cuore messo a nudo, Razzi. Una bellezza, quella delle opere di Baudelaire, che acceca il lettore come il sole a mezzogiorno, che gli entra sottopelle come la più affilata tra le lame di un coltello. E accanto a tale ragione, squisitamente estetica, un altro motivo pare imporsi come decisivo per spiegare l’amore – perché di amore si tratta – che i più giovani sentono di provare per lo scrittore francese, che un’intera generazione di poeti, quella dei cosiddetti maudits (Verlaine, Corbière, Rimbaud, Mallarmé), prese a modello.

Un motivo che rimanda al personaggio Baudelaire, al suo stile di vita, alla sua maniera di interpretare e abitare il mondo, mondo che per lui si riduce, in larga misura, a Parigi, la città destinata a essere, verso la metà del secolo, la metropoli europea che, insieme a Londra, vede il moderno manifestarsi con più forza ed evidenza. Infatti, la capitale francese, che nel corso del Secondo Impero conobbe una vasta trasformazione urbanistica grazie ai lavori voluti da Napoleone III e diretti dal Prefetto della Senna Georges-Eugène Haussmann – fu allora che i fatiscenti edifici medievali del centro vennero distrutti per fare posto a larghi viali alberati, i boulevards –, è già una citta dove il tempo sembra frantumarsi in una successione di attimi, ogni cosa è considerata una merce con un suo prezzo (è a Parigi, non a caso, che nel 1852 venne aperto, in Rue de Sèvres, per iniziativa di Aristide Boucicault, il primo Grande Magazzino), le insegne pubblicitarie fanno ovunque bella mostra di sé, stridente è il contrasto fra i quartieri eleganti e i quartieri degradati e periferici, la massa anonima viene a occupare il centro della scena, al punto che il filosofo e critico Walter Benjamin poté scrivere, in Angelus Novus, che “la massa era il velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi”. Insomma, la capitale francese già nel XIX secolo prefigura e preannuncia lo sviluppo che nel secolo successivo conosceranno i maggiori centri urbani del mondo.

Ora, se il rapporto di Baudelaire con Parigi è un rapporto di amore-odio – “Ti amo, infame capitale!” scriveva il poeta in un progetto di epilogo, a ricordarlo è Antoine Compagnon, dello Spleen di Parigi – negativo è, invece, il giudizio da lui dato a ciò che la capitale francese, immensa allegoria, incarna alla perfezione ed esprime, vale a dire, “le cose moderne”, in particolare l’ipocrisia e il perbenismo borghese, l’ottimismo positivistico con la sua fiducia illimitata nel progresso scientifico, la celebrazione della velocità, il benessere materiale come scopo e il guadagno come fine dell’esistenza, il suffragio universale diretto, la vittoria dell’utile sul bello.
Le pose da dandy, la frequentazione di bordelli, il consumo abituale di oppio e di hashish, la celebrazione dell’euforia recata dal vino, il voltare le spalle a Dio, al punto che Eric Auerbach ha potuto giustamente parlare per Baudelaire di una visione del mondo radicalmente anticristiana, la scarsa considerazione per ciò che è utile (“Essere un uomo utile mi è sempre sembrato qualcosa di molto repellente”, si legge nel Mio cuore messo a nudo), l’amore per la flânerie: è anche così che prende forma la rivolta del poeta – Révolte (Rivolta) è il titolo della penultima sezione dei Fiori del male – nei confronti di un’epoca, la propria, che egli respinge, così come respinge i valori dominanti del progresso, dell’uguaglianza, della democrazia, a conferma dell’influsso esercitato su di lui dalla lettura dell’opera di Joseph de Maistre, ricordato (e celebrato), in una nota di Igiene, come colui che, insieme a Edgar Allan Poe, gli ha insegnato “a ragionare”.
A dimostrazione che nello scrittore francese il fascino per il nuovo, che indubbiamente è presente, è contenuto e superato dal rimpianto per il mondo perduto.
D’altronde, Parigi sa essere una città terribilmente malinconica e la contraddizione è, per Baudelaire, un diritto della persona, al punto che avrebbe voluto che fosse inserita “Nella numerosa enumerazione dei diritti dell’uomo che la saggezza del secolo XIX rinnova così spesso”.
Ecco, io ritengo che questo “essere contro” di Baudelaire, che si esprime col gesto, con la condotta, sulla pagina, che è ostentato con orgoglio ed esibito senza finzioni di comodo, costituisca il motivo principale del fascino esercitato dal poeta sui giovani, sui nostri giovani. Al pari dei primi lettori del capolavoro baudelairiano, pubblicato nel 1857, anche loro continuano a venire scandalizzati, urtati, turbati, sebbene non per le stesse ragioni e, soprattutto, senza che si produca in loro un’impressione sfavorevole o di fastidio. Agli studenti, infatti, l’antagonismo di Baudelaire (il suo opporsi, il suo contrastare) piace. E cosa ci suggerisce tale constatazione in relazione all’atteggiamenti che i giovani e i giovanissimi hanno e possono avere – è da qui che abbiamo preso le mosse per la nostra riflessione – di fronte all’ordine neoliberista dominante? A me pare che la risposta a tale domanda sia una sola.

Nella cosiddetta generazione Z c’è ancora spazio, certo residuo e residuale, per la contestazione e per il rifiuto, e dunque anche per la contestazione e per il rifiuto del modello di società e del modello di umanità che vengono presentati come gli unici possibili, immodificabili e insostituibili, quasi che l’ordine global-capitalistico – dove tutto, anche le persone, deve essere ridefinito come merce – fosse una condizione destinale, che si è compiutamente svelata/rivelata a partire dal 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, col trionfo dell’economia di mercato e del liberismo.
Forse, allora, non è ancora giunto il tempo nel quale dire, unendo la nostra voce a quella di Martin Heidegger, che Nur noch ein Gott kann uns retten (Ormai solo un dio ci può salvare !).

 

*FRANCESCO RICCI,  Fiorentino, classe 1965, vive a Siena
ove è docente di letteratura italiana e latina, nonché autore di
numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al
Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento.

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