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La caduta del muro e la fine del socialismo reale

La caduta del muro di Berlino non è stata soltanto l’esito del fallimento politico del socialismo reale. Non è neanche stata la fine di una classe politica, quella sovietica, bollita e ridotta soltanto al più bieco politichese arido e ottuso che tratta i dissidenti con brutale violenza reazionaria. No, la caduta del muro ha rappresentato qualcosa di molto più profondo. Essa incarna il fallimento definitivo di un razionalismo semplicista che proponeva finalmente il raggiungimento di una società giusta per tutti, applicando delle semplici regole sociali inderogabili. Regole quali l’eliminazione della proprietà privata, la casa e il lavoro per tutti e una gestione collettiva soltanto nominale e in realtà rigorosamente controllata dal partito unico. Questi principi venivano attuati mediante la gestione centralizzata dell’economia e di tutti i mezzi di produzione e di comunicazione di massa in una assoluta mancanza di dissidenza interna.

Questa idea della società e dell’egemonia del proletariato su tutte le altre classi è stata sviluppata da Marx e Engels a metà Ottocento e, come tutti sappiamo, ha trovato concreta realizzazione in Russia, a inizio Novecento, a seguito della rivoluzione bolscevica che ha visto in Lenin uno dei leader principali. Lo stato socialista che ne è derivato, l’Unione Sovietica, è quindi il primo esperimento di “socialismo reale” nel mondo.

La società socialista qui sopra descritta ha la caratteristica di non essere nativa in una nazione particolare, ma si sviluppa, tramite una rivoluzione, in qualunque stato. In questo senso essa non è dipendente da un uomo che ne è l’iniziatore ma è un fenomeno globale che si sviluppa come lotta di classe tra aristocrazia, clero, borghesia e proletariato, rurale o industriale. In questo modo la storia stessa dell’umanità viene interpretata come lo “sforzo” di ottenere l’egemonia di una classe su tutte le altre.

Va da sé che l’esportabilità della rivoluzione social-comunista produce una reazione in tutti gli stati liberali che si sentono da essa minacciati. La presenza stessa di partiti comunisti, collegati e finanziati dall’Unione Sovietica, in ogni nazione costituisce una minaccia. La Germania di Hitler, il comune nemico nazista sia delle democrazie occidentali che dell’Unione Sovietica, consente una paradossale, temporanea, alleanza tra i due antagonisti. Ma, finita la Seconda guerra mondiale, le ostilità riprendono più forti di prima. Il mondo viene proprio diviso in due blocchi convenendo perfino sui confini delle zone di influenza e da allora fino alla caduta del muro di Berlino è guerra fredda tra i sovietici e il cosiddetto mondo libero.

L’Umanità non è nuova al tentativo di voler realizzare una società perfetta e giusta. Platone parlava di uno stato governato dai filosofi e cercò praticamente di realizzarlo a Siracusa anche a suo rischio personale. La politica, nella sua concezione più alta, ha il fine di arrivare a una società giusta. Essa si può realizzare passando attraverso una rivoluzione più o meno violenta in cui il passato si abbatte e viene ricostruito il nuovo, oppure accettando un processo più lungo ma meno aggressivo che è quello delle riforme che, con piccoli cambiamenti, arriva più lentamente allo stesso risultato. Chiaramente nello scegliere la via riformista è necessario che, almeno sui fondamentali, tutti i governi che si succedono abbiano le stesse finalità. Questo purtroppo non è sempre così e spesso ci si ritrova a compiere larghi cerchi inutili ritrovandosi alla fine al punto di partenza.

Molti in buona fede hanno creduto veramente al socialismo reale e per essi bisogna avere profondo rispetto. Il punto, però, è che nello sforzarsi di compiere il bene si possono anche produrre milioni di morti! E allora ci si chiede: dov’è l’errore? In quale punto l’analisi ha difettato? Perché, dopo aver applicato con precisione la ricetta indicata dal filosofo del comunismo, non si è raggiunto il risultato sperato? Io credo che l’uomo non si possa ridurre semplicisticamente a un insieme di bisogni da soddisfare. Non basta farlo mangiare e dargli una casa per farlo vivere in una pace sociale forzata per risolvere tutti i suoi problemi. L’uomo ha una complessità molto più elevata di questo. Ridurre tutto a un problema economico e monetizzabile vuol dire pensare all’uomo come a poco più che un animale cui devi dare ogni giorno da mangiare, cambiare l’acqua e pulire la gabbietta. Non c’è soltanto la dimensione corporea e mentale ma anche una innata e incontenibile esigenza di libertà che non si può in alcun modo limitare, e possono anche passare settant’anni e milioni di morti, ma verrà comunque fuori per abbattere qualunque muro.

Nicola Sparvieri

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