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“La commare secca va in vacanza”: l’opera prima di Lara Luciano

“La commare secca va in vacanza” (Gambini Editore, 2022, 157 pp., € 16,00) è il titolo dell’intensa opera prima di Lara Luciano, autrice trentina trapiantata a Roma. Un testo che rappresenta un azzardo per la Gambini Editore, che ha scommesso su questo originale diario di una malattia, in cui salta fuori con grande forza quell’urgenza comunicativa che così tipicamente traspare in tutti quei romanzi aventi una matrice autobiografica.

È la storia di una “discesa agli inferi e ritorno”, una sorta di “Apocalypse now” personale, dove, diversamente che nel capolavoro di Coppola, chi compie il lungo viaggio ha solo una vaga idea di cosa troverà lungo il cammino.

Un intenso e sofferto percorso che ha come protagonista una giovane donna affetta da anoressia nervosa che, a seguito di un tentato suicidio, è ricoverata in una clinica psichiatrica.

Una discesa fin dentro i bassifondi della propria coscienza che si snoda nella distanza tra una Roma domestica – di cui il titolo stravagante di belliana memoria porta l’eco – e lo spazio bianco di un luogo non meglio collocato, come una di quelle città invisibili narrate da Calvino, dove i nomi veri, come avverte la stessa Autrice, “intitolano ben altre vicende, che nella realtà e nell’invenzione stanno sempre troppo strette”.

L’esperienza della crisi e la permanenza stessa in quel luogo di cura, dove può osservare chirurgicamente le storie delle altre persone e delle loro sofferenze, offrono alla protagonista l’occasione per operare una profonda, quanto lucida e toccante, riflessione sul significato stesso della sua malattia, e sul valore simbolico del corpo, al quale lei sembra avere affidato il compito di esprimere il suo tormentato rapporto con sé stessa.

Quello che più colpisce è infatti come l’autrice riesca ad affrontare il tema terribile del male di vivere con una lievità dolce e compassata, con tratti ironici sparsi qua e là, smorzando la carica angosciante che gli argomenti di cui parla – il suicidio, la depressione, l’anoressia, la discriminazione subita per la propria identità sessuale – inevitabilmente comportano.

Nello stile e nella narrazione si applica una precisa strategia che si alimenta di una gentile forma di sprezzatura, attraverso cui la protagonista osserva quanto la circonda con una paradossale indulgenza ed accettazione, senza prestare il fianco all’invettiva o all’autoaccusa.

Procedendo con il racconto, l’autrice stessa distoglie il lettore da quella forma di voyeurismo verso il male che depotenzia lo sguardo. “Nei luoghi della malattia si fanno incontri inopportuni e insani che si aggirano come miracoli sporchi e infetti. Tanti giudizi universali in attesa di compiersi e tante catastrofi in corso.

In questi posti la gente, mentre cerca la salvezza con tutti i mezzi, la insegna in modo gratuito ed inconsapevole”. La via è, ancora una volta, quella indicata da Calvino: “cercare e saper riconoscere chi è cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

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