
La Confusione Diagnostica Oltre le Etichette
Scritto da Veronica Socionovo il . Pubblicato in Formazione, Salute e Sanità.
ADHD DSA Autismo (Asperger)
Una riflessione clinico-pedagogica sulle sovrapposizioni, le derive medicalizzanti e la necessità di un approccio integrato e umano alla neurodivergenza infantile.
L’aumento delle diagnosi neuropsichiatriche in età evolutiva, in particolare quelle relative ai Disturbi dello Spettro Autistico (ASD), al Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD), ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e alla sindrome di Asperger (oggi formalmente assorbita nel livello 1 dell’ASD secondo il DSM-5), rappresenta un fenomeno clinico ed educativo di crescente complessità. Questo incremento diagnostico non può essere interpretato in modo univoco né ridotto a una semplice crescita dell’incidenza reale, ma va letto come l’effetto congiunto di una molteplicità di fattori – genetici, biologici, ambientali, familiari, sociali, culturali e tecnologici – che interagiscono in modo dinamico e stratificato nel modellare l’espressione delle difficoltà evolutive. In particolare, il contesto occidentale contemporaneo ha visto una progressiva sovrapposizione delle definizioni cliniche, con una diffusione di etichette che spesso appaiono imprecise, ridondanti o addirittura contraddittorie. La confusione diagnostica tra autismo, ADHD, DSA e Asperger, pertanto, non è solo un errore epistemologico o una distorsione clinica, ma riflette trasformazioni profonde e strutturali nei modelli di sviluppo, nelle pratiche educative, negli stili genitoriali, negli assetti scolastici e nelle rappresentazioni sociali della “normalità”.
Tale confusione si è andata intensificando in Occidente a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, complice un’evoluzione della clinica psichiatrica che ha progressivamente sostituito le visioni eziopatogenetiche con modelli descrittivi, categoriali e funzionali. Questo passaggio ha favorito una moltiplicazione delle categorie diagnostiche, che hanno assunto una funzione sempre più normativa, orientando la percezione delle differenze individuali in una prospettiva deficitologica. A ciò si aggiunge un processo di progressiva medicalizzazione delle difficoltà scolastiche, comportamentali ed emotive, alimentato da pressioni istituzionali, da esigenze gestionali e da una crescente attenzione alla performance individuale. Il risultato è una tendenza sistematica a interpretare le difformità dello sviluppo come espressione di disturbo, piuttosto che come variazioni fisiologiche o manifestazioni contestuali. In questo scenario, ADHD, DSA e ASD sono diventati contenitori diagnostici estensivi e spesso intercambiabili, nei quali confluiscono sintomatologie diverse, talvolta transitorie, che vengono tuttavia cristallizzate in etichette permanenti.
Il disturbo dello spettro autistico, nella sua attuale definizione nosografica, include una gamma estremamente ampia di presentazioni cliniche, dal bambino non verbale con gravi difficoltà di interazione sociale al soggetto ad alto funzionamento con intelligenza nella norma e capacità adattive apparentemente conservate. Questa eterogeneità ha reso sempre più difficile distinguere tra tratti di neurodivergenza, vulnerabilità adattive e veri e propri quadri sindromici. Il DSM-5 ha inglobato la sindrome di Asperger nel livello 1 dell’ASD, eliminando formalmente una distinzione che però, sul piano clinico ed educativo, continua a presentare rilevanza. Il profilo Asperger è infatti caratterizzato da uno stile cognitivo iper-specializzato, da una marcata rigidità comportamentale e da un funzionamento sociale atipico ma non deficitario. Questi tratti, se letti superficialmente, possono essere scambiati per manifestazioni di ansia sociale, tratti ossessivi o difficoltà attentive, alimentando diagnosi erronee o multiple.
Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, a sua volta, presenta un quadro clinico estremamente variegato, con presentazioni prevalentemente disattentive, iperattive-impulsive o combinate, che possono sovrapporsi a manifestazioni dell’ASD, a comportamenti oppositivo-provocatori, a disturbi dell’umore e a tratti temperamentali fisiologici. L’iperattività motoria, la disorganizzazione comportamentale e la difficoltà di autoregolazione, che sono considerate sintomi cardine dell’ADHD, possono infatti derivare da un disfunzionamento sensoriale tipico dell’autismo, da un contesto ambientale caotico o non contenitivo, oppure da una risposta adattiva a un sovraccarico cognitivo. Anche la disattenzione può avere molteplici origini: deficit esecutivi, ansia da prestazione, stili cognitivi divergenti o semplice mancanza di interesse. In assenza di una valutazione clinica qualitativa e contestualizzata, il rischio di diagnosticare ADHD in bambini che presentano altri profili di difficoltà è elevato.
I disturbi specifici dell’apprendimento, infine, costituiscono un ambito clinico che ha visto un’esplosione diagnostica negli ultimi vent’anni, con una progressiva espansione dei criteri e una crescente sensibilizzazione da parte delle scuole. La dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia vengono oggi riconosciute in modo sempre più tempestivo, ma spesso senza un’adeguata considerazione delle comorbilità o della variabilità interindividuale. Una difficoltà di lettura, ad esempio, può derivare da un disturbo specifico oppure essere l’effetto di un deficit attentivo, di un quadro ansioso, di una deprivazione ambientale o di una difficoltà linguistica non specifica. Ancora una volta, l’uso meccanico delle etichette rischia di oscurare la complessità del funzionamento individuale.
La sovrapposizione tra ADHD, DSA, ASD e Asperger deriva quindi da una serie di fattori interconnessi: l’ampliamento dei criteri diagnostici, l’uso eccessivo di test standardizzati senza adeguata osservazione clinica, la pressione delle famiglie per ottenere certificazioni funzionali all’accesso a misure compensative, e l’insufficiente formazione degli operatori scolastici nel distinguere tra bisogni educativi speciali e disturbi neuroevolutivi. Il risultato è una proliferazione di diagnosi comorbide, spesso formulate per rispondere a esigenze burocratiche piuttosto che a una reale necessità clinica.
La ricerca ha messo in luce una base genetica condivisa tra molti dei disturbi menzionati. Polimorfismi in geni legati alla regolazione dopaminergica, alla connettività corticale e alla plasticità sinaptica sono stati associati tanto all’ADHD quanto all’ASD e ai DSA, suggerendo l’esistenza di una vulnerabilità neuroevolutiva comune che si esprime in modi diversi a seconda dell’interazione con fattori ambientali, relazionali e contestuali. Questa prospettiva conferma l’inadeguatezza di una lettura categoriale rigida e invita a considerare la neurodivergenza come un continuum multifattoriale, piuttosto che come una serie di disturbi nettamente separati.
I fattori familiari e ambientali giocano un ruolo cruciale nel modulare l’espressione delle vulnerabilità individuali. I modelli educativi iperprotettivi, la riduzione delle esperienze corporee e relazionali, la sovrastimolazione digitale, la frammentazione dei legami affettivi e la carenza di spazi simbolici ed esperienziali incidono profondamente sullo sviluppo delle funzioni esecutive, della competenza emotiva e dell’autoregolazione. In particolare, l’uso precoce e prolungato della tecnologia, in assenza di mediazione adulta, può interferire con i processi di attenzione sostenuta, con la costruzione del sé corporeo e con la regolazione degli stati emotivi, generando quadri che mimano il funzionamento ADHD o ASD senza tuttavia rispondere ai criteri strutturali di tali disturbi.
La complessità diagnostica è dunque il riflesso di una complessità evolutiva che non può essere ridotta a formule precostituite. L’adozione di un approccio diagnostico e terapeutico integrato, capace di cogliere le interazioni tra biologia, ambiente, relazioni e significati soggettivi, rappresenta una necessità clinica ed etica. Questo approccio deve fondarsi su una valutazione multidimensionale, che comprenda osservazione diretta in contesti naturali, colloqui approfonditi con genitori e insegnanti, analisi della storia di sviluppo, test neuropsicologici mirati e, soprattutto, una lettura critica e dinamica dei dati raccolti. La diagnosi non deve mai essere un’etichetta statica, ma uno strumento per orientare l’intervento e promuovere una comprensione più profonda della persona.
In tale prospettiva, il trattamento deve essere individualizzato, flessibile e multidisciplinare, basato su un’integrazione di approcci psicoeducativi, relazionali, corporei e cognitivi. L’intervento precoce, sostenuto da una rete collaborativa tra scuola, famiglia e servizi clinici, rappresenta uno degli strumenti più efficaci per prevenire la cronicizzazione delle difficoltà e favorire traiettorie evolutive positive. Tuttavia, perché ciò avvenga, è necessario un profondo ripensamento delle logiche istituzionali, che ancora troppo spesso privilegiano la classificazione rispetto alla comprensione, la prestazione rispetto al processo, l’adattamento normativo rispetto alla valorizzazione della diversità.
Solo una cultura professionale condivisa, aggiornata e critica può garantire diagnosi fondate e interventi realmente efficaci. È altrettanto fondamentale promuovere politiche educative e sociali che sostengano la diversità come valore, piuttosto che come problema. La neurodivergenza non è un’anomalia da correggere, ma una variante del funzionamento umano che richiede ambienti flessibili, inclusivi e rispettosi.
Nella cornice di un approccio integrato e rispettoso, le distinzioni tra ADHD, DSA, ASD e Asperger non devono essere annullate, ma comprese nella loro specificità e nelle loro intersezioni. L’ADHD si caratterizza primariamente per un deficit della funzione esecutiva, con difficoltà di inibizione, flessibilità cognitiva e memoria di lavoro. I DSA riguardano specificamente le competenze scolastiche di lettura, scrittura e calcolo, in presenza di un’intelligenza nella norma. L’ASD coinvolge la reciprocità sociale, la comunicazione e la presenza di comportamenti ripetitivi e interessi ristretti. Il profilo Asperger, pur essendo incluso nell’ASD, mantiene una specificità cognitiva e affettiva che merita attenzione clinica distinta. La chiarezza diagnostica non è un esercizio accademico, ma una condizione essenziale per offrire risposte adeguate e non dannose ai bisogni reali dei bambini, degli adolescenti e delle loro famiglie.
Un intervento terapeutico efficace, che possa realmente incidere sull’evoluzione dei disturbi del neurosviluppo, deve fondarsi su un principio di integrazione sistemica, dove il bambino non è mai considerato come un’entità isolata, ma come parte di un sistema complesso costituito da famiglia, scuola, gruppo dei pari, ambiente fisico e culturale. In questo quadro, il trattamento non può essere delegato esclusivamente alla dimensione clinica, né può essere ridotto a tecniche standardizzate. Al contrario, deve configurarsi come un processo dialogico e co-costruito, in cui le componenti psicoeducative, neuropsicologiche, affettive, corporee e simboliche interagiscono sinergicamente per favorire un cambiamento sostenibile e profondo.
Tale approccio si rende ancor più necessario alla luce delle frequenti comorbilità tra i disturbi. È sempre più comune incontrare quadri misti in cui un bambino con diagnosi di DSA presenta tratti compatibili con ADHD, o in cui un soggetto con ASD lieve manifesta aspetti significativi di disattenzione, ansia sociale o rigidità cognitiva che possono confondersi con il profilo Asperger. Queste sovrapposizioni non sono solo una diagnostica, ma pongono interrogativi clinici rilevanti:( quale sintomo ha valore primario?) (Quali tratti sono espressione diretta del disturbo e quali sono adattamenti secondari a contesti sfavorevoli?)( Come distinguere ciò che è parte dell’identità del soggetto da ciò che è segno di sofferenza?)
È in questo contesto che la diagnosi differenziale diventa non solo un atto clinico, ma un processo euristico e narrativo, che richiede tempo, ascolto, e una profonda conoscenza delle traiettorie dello sviluppo tipico e atipico. L’errore diagnostico più grave non è tanto quello di sbagliare etichetta, quanto quello di ridurre il soggetto a una somma di sintomi, senza coglierne la coerenza interna, il significato contestuale, e soprattutto la prospettiva evolutiva. È essenziale distinguere, ad esempio, tra un’iperattività derivante da uno squilibrio sensoriale tipico dell’autismo e quella legata a un vero deficit attentivo; tra una difficoltà di lettura dovuta a un disturbo fonologico e quella derivante da un ambiente deprivato o da una scarsa esposizione linguistica. Senza questa finezza valutativa, il rischio è di medicalizzare esperienze transitorie, patologizzare la differenza e intervenire in modo inadeguato o addirittura dannoso.
Le componenti genetiche e biologiche, pur avendo un peso significativo, non determinano in modo univoco l’esito evolutivo. L’epigenetica ha dimostrato come l’interazione tra patrimonio genetico e ambiente possa modificare l’espressione dei geni, influenzando lo sviluppo neuronale e comportamentale. Ciò implica che interventi precoci, mirati e contestuali possono ridurre l’impatto delle vulnerabilità genetiche e sostenere la resilienza individuale. Il cervello in età evolutiva è caratterizzato da una straordinaria plasticità: intervenire nei tempi e nei modi giusti può fare la differenza tra una traiettoria di difficoltà crescente e un percorso di autorealizzazione possibile.
I fattori familiari giocano un ruolo centrale in questo processo. La qualità dell’attaccamento primario, la coerenza educativa, la regolazione emotiva del caregiver e la qualità delle interazioni precoci sono tutti elementi che influenzano profondamente lo sviluppo delle funzioni esecutive, della mentalizzazione, dell’empatia e della motivazione intrinseca. In contesti familiari disorganizzati, stressati, oppure eccessivamente performativi, il bambino può sviluppare comportamenti che mimano l’ADHD o l’ASD senza che vi sia un disturbo strutturale. L’infantilizzazione eccessiva, l’assenza di limiti contenitivi, o al contrario un clima ipercritico e anaffettivo, possono produrre quadri di disregolazione emotiva, impulsività, ritiro sociale e difficoltà attentive, spesso confusi con condizioni patologiche.
Anche l’ambiente scolastico rappresenta un nodo cruciale. Una scuola centrata sulla prestazione, poco attenta alla diversità degli stili cognitivi e relazionali, può accentuare le fragilità dei bambini neurodivergenti, contribuendo alla costruzione di una narrativa deficitaria. D’altro canto, una scuola accogliente, flessibile e capace di personalizzare gli apprendimenti può diventare un fattore protettivo straordinario. La formazione degli insegnanti deve dunque includere una solida base neuropsicologica, una sensibilità pedagogica evolutiva e strumenti di osservazione e dialogo che permettano di cogliere le reali difficoltà degli alunni senza ricorrere in modo automatico alla segnalazione clinica.
La tecnologia, come già accennato, ha trasformato radicalmente l’esperienza dell’infanzia. L’esposizione precoce e massiva a dispositivi digitali, in assenza di una mediazione significativa, compromette lo sviluppo del pensiero simbolico, riduce l’interazione faccia a faccia, altera la percezione corporea e promuove modalità cognitive frammentarie e impulsive. Questi effetti, largamente documentati in letteratura, possono contribuire all’insorgenza o all’amplificazione di quadri che ricordano l’ADHD o l’autismo lieve, senza che vi sia una base neurobiologica. Al contrario, l’uso consapevole della tecnologia può diventare uno strumento compensativo potente, soprattutto in soggetti con difficoltà linguistiche o motorie, purché inserito in una progettualità educativa condivisa e monitorata.
Un’altra questione centrale riguarda il concetto stesso di normalità. L’attuale tendenza a normare, quantificare e categorizzare ogni aspetto del funzionamento umano rischia di impoverire la comprensione della complessità soggettiva. Il pensiero neurotipico è stato assunto come parametro implicito di riferimento, mentre tutte le forme divergenti vengono automaticamente associate a un’idea di disfunzione. È urgente, invece, promuovere una cultura della neurodiversità, in cui la differenza venga riconosciuta come parte integrante della biodiversità umana. Non si tratta di negare l’esistenza dei disturbi, ma di evitare che le diagnosi diventino gabbie identitarie o giustificazioni per l’esclusione sociale. Un bambino con Asperger può diventare un adulto creativo, competente e innovativo se accompagnato in modo adeguato; un ragazzo con DSA può sviluppare una carriera scolastica brillante se sostenuto nei suoi punti di forza; un giovane con ADHD può canalizzare la sua energia in progetti appassionanti se viene riconosciuto e valorizzato.
Richiedono politiche inclusive, accesso facilitato ai servizi, sostegno alle famiglie, ma soprattutto un cambiamento culturale profondo. L’intervento terapeutico non può esaurirsi in ambito sanitario, ma deve estendersi alla società, ai modelli educativi, ai media, al mondo del lavoro. La diagnosi, in questo senso, deve diventare uno strumento trasformativo, capace di aprire possibilità, di orientare risorse, di attivare processi partecipativi.
Nel contesto attuale, l’urgenza di una nuova alfabetizzazione neuropsicologica non può essere sottovalutata. È necessario che tutti i soggetti coinvolti – clinici, educatori, genitori, politici – acquisiscano una comprensione più profonda delle dinamiche dello sviluppo e della complessità delle manifestazioni neurodivergenti. Occorre superare l’approccio riduttivo basato sulle etichette e abbracciare una visione sistemica e interattiva, che ponga al centro non il disturbo, ma la persona nella sua interezza.
Un aspetto che merita un’analisi più approfondita riguarda la crescente tendenza a ricondurre comportamenti, stili cognitivi e manifestazioni emotive della soggettività infantile a quadri psicopatologici, spesso sulla base di criteri normativi esterni più che su un reale approfondimento della fenomenologia individuale. La cultura occidentale contemporanea, fortemente influenzata da modelli produttivistici e prestazionali, tende a privilegiare la conformità, la rapidità, l’efficienza e la regolazione emozionale precoce come indicatori di buona salute mentale. In questo contesto, qualunque deviazione da tali standard rischia di essere interpretata come una manifestazione patologica, alimentando una spirale diagnostica eccessiva che coinvolge, sempre più precocemente, anche bambini molto piccoli.
Questa dinamica si riflette anche nella pressione, spesso implicita, che il sistema scolastico esercita nei confronti delle famiglie e dei professionisti sanitari: bambini che faticano a stare seduti, che si distraggono facilmente, che apprendono in modo non lineare o che mostrano interessi circoscritti vengono segnalati in modo crescente come potenzialmente affetti da DSA, ADHD o ASD. Tuttavia, la diagnosi non può essere usata come strumento di semplificazione o delega pedagogica. Ogni diagnosi, per essere utile, deve essere il risultato di una valutazione articolata e rispettosa, che non riduca il bambino a un caso clinico, ma ne colga la specificità, le risorse, le traiettorie possibili.
Un elemento critico è rappresentato dalla questione del tempo. La pressione per ottenere diagnosi rapide, funzionali alla strutturazione di percorsi di supporto scolastico, può ostacolare una vera comprensione dei bisogni del bambino. La valutazione diagnostica, per essere accurata, ha bisogno di tempo lungo, di osservazioni ripetute, di confronto tra diversi contesti (scuola, casa, ambienti sociali), di un’analisi qualitativa della relazione tra il bambino e il suo mondo. I sintomi, da soli, non dicono nulla se non sono inseriti in una trama di significati, relazioni, esperienze.
La questione del contesto è qui centrale: lo stesso comportamento – ad esempio la scarsa attenzione – può assumere significati completamente diversi in base all’ambiente in cui si manifesta. Un bambino iperattivo in una classe numerosa e caotica può risultare perfettamente regolato in un ambiente più contenuto e relazionale. Un altro bambino, che non parla in classe, può esprimersi liberamente in un contesto familiare accogliente. È in questa oscillazione tra comportamento e contesto che si gioca la possibilità di comprendere, e non semplicemente classificare.
In questo quadro, risulta evidente l’importanza di una rete professionale interconnessa. Il lavoro clinico non può essere separato dall’azione educativa, né quest’ultima può procedere in modo autonomo rispetto alla comprensione delle dimensioni neuropsicologiche dello sviluppo. Il vero cambiamento avviene solo quando le competenze cliniche, pedagogiche e sociali si integrano in un progetto condiviso, centrato sulla persona e sulla sua esperienza. Un intervento realmente efficace richiede il coordinamento tra neuropsichiatri, psicologi, pedagogisti, logopedisti, educatori, insegnanti, assistenti sociali, famiglie. È solo attraverso questa rete articolata, ma coesa, che si può evitare la frammentazione degli interventi e l’eccessiva parcellizzazione delle competenze.
Un nodo teorico da affrontare riguarda la stessa epistemologia della diagnosi. Il modello categoriale del DSM, pur offrendo un linguaggio comune e condiviso a livello internazionale, rischia di essere utilizzato in modo meccanicistico, come se fosse una verità ontologica piuttosto che una convenzione descrittiva utile alla comunicazione tra professionisti. Questo equivoco epistemologico produce effetti paradossali: da un lato, la proliferazione delle diagnosi; dall’altro, l’incapacità di cogliere la complessità individuale. Un uso critico e consapevole del DSM implica la necessità di integrarlo con modelli dimensionali, che considerino le sfumature, le continuità, le differenze qualitative del funzionamento psichico.
La dimensione qualitativa dell’esperienza soggettiva è ancora troppo poco considerati nei processi diagnostici. I test, per quanto validati, non possono sostituire l’ascolto profondo, l’osservazione relazionale, l’intuizione clinica, la capacità di cogliere la singolarità del percorso evolutivo di ciascun bambino. Senza questo livello di profondità, anche il miglior protocollo rischia di produrre diagnosi parziali, che non rispecchiano la complessità reale della persona. La clinica, in questo senso, è un’arte relazionale oltre che una scienza: richiede rigore metodologico, ma anche apertura, empatia, capacità di cogliere l’essenziale nel non detto.
Troppo spesso, le istituzioni scolastiche e sanitarie operano in compartimenti stagni, con logiche differenti, a volte persino in conflitto. È invece urgente costruire sistemi integrati di presa in carico, in cui la diagnosi non sia il fine, ma l’inizio di un percorso condiviso, dinamico, co-partecipato. Ciò implica anche la necessità di investire risorse nella formazione continua degli operatori, nella costruzione di équipe interdisciplinari, nella supervisione clinica e pedagogica. Non si può chiedere agli insegnanti di riconoscere le sfumature della neurodivergenza se non si forniscono loro strumenti teorici e pratici adeguati. Non si può pretendere che i genitori comprendano la complessità della diagnosi se non si offre loro uno spazio di confronto e accompagnamento.
Una riflessione più ampia deve infine riguardare il significato sociale della neurodiversità. In una società fondata sulla competitività, sulla misurazione continua delle prestazioni e sulla riduzione della soggettività a funzioni operative, la neurodivergenza viene spesso vissuta come una minaccia all’ordine costituito. Eppure, la storia dell’umanità è ricca di figure geniali, eccentriche, ipersensibili, che oggi sarebbero probabilmente diagnosticabili con etichette quali Asperger, ADHD, DSA. Lungi dall’essere una condanna, queste caratteristiche possono diventare risorse preziose, se accolte e accompagnate con rispetto. Promuovere una cultura della neurodiversità significa ridefinire i parametri della normalità, riconoscere valore alla differenza, e costruire una società realmente inclusiva.
In questo senso, non è solo clinica o educativa, ma culturale e politica. Si tratta di passare da un modello centrato sul deficit a un paradigma orientato allo sviluppo, alla fioritura delle potenzialità individuali. La diagnosi deve essere uno strumento di apertura, non di chiusura. Il trattamento deve promuovere autonomia, non dipendenza. L’intervento deve facilitare l’integrazione, non rafforzare la marginalizzazione. Solo così sarà possibile rispondere in modo autentico alla complessità della condizione umana e onorare la missione più alta delle professioni di aiuto: accompagnare la persona a diventare pienamente sé stessa, al di là delle etichette.
SCHEDA COMPARATIVA UNICA – ADHD, DSA, Asperger (ASD Livello 1) e Autismo (ASD Livelli 2-3)
Caratteristica |
ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività) |
DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) |
Asperger (ASD Livello 1) |
Autismo (ASD Livelli 2-3) |
1. Aspetto |
Difficoltà a concentrarsi, impulsività, iperattività. |
Difficoltà nell’apprendimento di specifiche abilità (lettura, scrittura, calcolo). |
Difficoltà nell’interazione sociale, comportamenti ripetitivi. |
Compromissioni gravi nell’interazione sociale e linguaggio. |
2. Combinazione |
Combinazione di disattenzione, impulsività e iperattività. |
Combinazione di difficoltà in ambito scolastico senza deficit intellettivi. |
Disturbi sociali combinati con abilità intellettive di solito nella norma. |
Difficoltà sociali gravi, deficit cognitivi variabili. |
3. Comunicazione |
Disorganizzata, a volte inappropriata a causa dell’impulsività. |
Il linguaggio può essere intatto, ma la scrittura e lettura sono compromessi. |
Spesso verbale, ma con difficoltà a capire le sottigliezze sociali. |
Deficit gravi nella comunicazione verbale e non verbale. |
4. Comunicazione Emotiva |
Reazioni emotive forti ma difficoltà nel regolarle. |
Nessuna difficoltà emotiva intrinseca, ma le difficoltà scolastiche causano stress. |
Difficoltà a leggere segnali emotivi degli altri. |
Compromissioni significative nella comprensione e gestione delle emozioni. |
5. Comunicazione Non Verbale |
Può essere povera o inconsistente, a causa dell’impulsività. |
Non tipicamente compromessa. |
Ristretto, difficoltà nell’uso di gesti e espressioni facciali. |
Severamente compromessa, difficoltà nel mantenere il contatto visivo. |
6. Comunicazione Verbale |
Può essere disorganizzata, impulsiva e troppo rapida. |
Non compromessa se non vi sono altre problematiche. |
Verbale ma con difficoltà nel contesto sociale. |
Severamente compromessa, con ritardi nel linguaggio o assenza. |
7. Comorbilità |
Depressione, ansia, disturbi di condotta, disturbi dell’apprendimento. |
Ansia, depressione, disturbi del comportamento. |
Ansia, depressione, disturbi del sonno. |
Epilessia, disturbi comportamentali, disabilità intellettiva. |
8. Comorbilità Comuni |
Disturbi dell’umore e ansia. |
Disturbi d’ansia e disturbi dell’umore. |
Ansia sociale, depressione. |
Disturbi d’ansia, epilessia, disturbi del sonno. |
9. Comorbilità Frequenti |
Ansia, depressione. |
Ansia e disturbi emotivi. |
Ansia, depressione. |
Epilessia, disturbi comportamentali. |
10. Comportamenti Ripetitivi |
Frequenti ma non specifici, a volte legati all’iperattività. |
Raramente presenti. |
Comportamenti ripetitivi ma non gravi. |
Comportamenti stereotipati e ripetitivi. |
11. Definizione |
Disturbo neurobiologico con difficoltà di attenzione e iperattività. |
Difficoltà persistenti nell’apprendimento di specifiche abilità. |
Disturbo dello spettro autistico con un livello di funzionamento relativamente alto. |
Disturbo dello spettro autistico, con un livello di funzionamento che varia da grave a moderato. |
12. Definizione DSM-1 |
Disturbo del comportamento, focalizzato su impulsività e disattenzione. |
Non definito, ma si riteneva parte di disabilità intellettiva. |
Disturbo del comportamento con difficoltà nelle interazioni sociali. |
Disturbo neuropsichico con compromissioni sociali e comunicative. |
13. Definizione DSM-2 |
Aggiunta di criteri per l’iperattività oltre alla disattenzione. |
Nella categoria dei “disturbi specifici del comportamento”. |
Disturbo con difficoltà nelle interazioni sociali. |
Disturbo del comportamento con gravi difficoltà sociali. |
14. Definizione DSM-3 |
Introduzione del concetto di ADHD. |
DSA come categoria autonoma per le difficoltà nell’apprendimento. |
Disturbo autistico ad alto funzionamento. |
Introduzione della categoria ASD con vari livelli. |
15. Definizione DSM-4 |
Sintomi definiti più dettagliatamente. |
Riconoscimento ufficiale dei DSA come disturbi distinti. |
Specificato l’ADHD come comorbidità. |
Disturbo dello spettro autistico, con enfasi sui livelli. |
16. Definizione DSM-5 |
Conferma della diagnosi basata sui sintomi di disattenzione e iperattività. |
Definizione aggiornata dei DSA, senza deficit intellettivi. |
Disturbo autistico con capacità cognitive relativamente normali. |
Disturbo grave con compromissione della comunicazione e comportamento. |
17. Descrizione |
La persona ha difficoltà a concentrarsi, a restare ferma, a seguire istruzioni. |
La persona ha difficoltà con la lettura, scrittura o calcolo. |
Persone con asperger mostrano buone capacità linguistiche ma difficoltà sociali. |
Persone con autismo grave possono non sviluppare mai linguaggio verbale. |
18. Dominante Clinica |
Disattenzione, impulsività, iperattività. |
Difficoltà specifiche in lettura, scrittura e calcolo. |
Difficoltà sociali ed emotive, comportamenti ripetitivi. |
Gravi difficoltà sociali e di comunicazione, comportamento stereotipato. |
19. Età di Esordio |
Entro i 7 anni. |
Spesso evidente già alle scuole elementari. |
Manifestazioni evidenti spesso dopo i 3-4 anni. |
Generalmente prima dei 3 anni. |
20. Funzioni Cognitive |
Solitamente intatte, anche se il comportamento può interferire con l’apprendimento. |
Funzioni cognitive nella norma, difficoltà in ambito specifico. |
Funzioni cognitive intatte, difficoltà sociali. |
Funzioni cognitive variabili, spesso ritardo intellettivo. |
21. Intelligenza (QI) |
Normale o superiore alla media, ma la difficoltà ad applicarla può causare problemi. |
Normale o superiore alla media, ma difficoltà in ambito scolastico. |
Normale o superiore alla media, ma con difficoltà sociali. |
Varia da grave ritardo intellettivo a normale, spesso inferiore alla media. |
22. Interessi |
Interesse per attività particolari ma facilmente distratti. |
Interessi specifici in ambiti scolastici o pratici. |
Interessi ristretti, spesso molto intensi. |
Interessi ristretti e fortemente focalizzati. |
23. Interventi |
Terapie comportamentali, farmacologiche, e interventi educativi. |
Interventi educativi specifici per l’apprendimento. |
Terapie comportamentali, psicoterapie. |
Terapie comportamentali, educative, farmacologiche. |
24. Intervento Consigliato |
Terapia comportamentale, educazione mirata. |
Supporto didattico e terapeutico specifico. |
Terapia cognitivo-comportamentale, supporto educativo. |
Supporto intensivo per le capacità sociali e comunicative. |
25. Prognosi |
Buona con intervento precoce, ma può persistere nell’adolescenza. |
Buona se l’intervento scolastico è tempestivo. |
Funzionamento possibile in modo relativamente autonomo. |
Prognosi variabile a seconda della gravità dei sintomi. |
26. Regolazione Emotiva |
Difficoltà a controllare emozioni come frustrazione e rabbia. |
Generalmente non compromessa. |
Difficoltà nella gestione delle emozioni in contesti sociali. |
Gravi difficoltà nella regolazione emotiva e nella comprensione delle emozioni altrui. |
27. Relazioni familiari |
Può essere conflittuale a causa dell’iperattività. |
Generalmente non ci sono difficoltà relazionali. |
Difficoltà nelle relazioni familiari, ma non gravi. |
Spesso difficili, con incomprensione reciproca. |
28. Relazioni scuola |
Difficoltà a seguire le regole e a concentrarsi. |
Difficoltà specifiche nelle materie scolastiche. |
Difficoltà a fare amicizie, ma buoni risultati scolastici. |
Difficoltà gravi nelle relazioni con insegnanti e compagni. |
29. Relazioni sociali |
Difficoltà nelle interazioni, ma non di tipo sociale. |
Generalmente normali, ma alcune difficoltà comunicative. |
Difficoltà a comprendere segnali sociali, ma ricerca di amicizia. |
Difficoltà gravi nelle interazioni sociali, solitudine. |
30. Routine e cambiamenti |
Resistenza ai cambiamenti, ma meno accentuata rispetto ad ASD. |
Nessuna difficoltà particolare. |
Difficoltà a gestire cambiamenti nelle routine. |
Paura dei cambiamenti, necessità di routine fisse. |
31. Risposta alla Routine |
Preferenza per la routine, ma con maggiore flessibilità rispetto ad altri disturbi. |
Non influenzata. |
Forte preferenza per routine, resistenza ai cambiamenti. |
Forte bisogno di routine, difficoltà a gestire i cambiamenti. |
32. Stereotipie |
Comportamenti ripetitivi che riflettono una difficoltà a concentrarsi. |
Raramente osservate. |
Comportamenti ripetitivi come movimenti, rituali. |
Stereotipie motorie e vocali molto evidenti. |
33. Stile di Apprendimento |
Apprendimento visivo e pratico, difficoltà con la lettura. |
Apprendimento attraverso metodi specifici. |
Apprendimento visivo, attenzione alle istruzioni concrete. |
Apprendimento lento, spesso visivo e ripetitivo. |
Note:
1. ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività):
-
QI generalmente nella norma o superiore: Le persone con ADHD, pur avendo difficoltà nell’attenzione e nell’autoregolazione, di solito non hanno deficit intellettivi significativi. Possono avere un QI che rientra nella media o anche sopra la media. Tuttavia, le difficoltà di concentrazione e di gestione dell’impulsività possono influire negativamente sulle performance accademiche e lavorative, nonostante un’intelligenza teoricamente elevata.
2. Asperger (Sindrome di Asperger):
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QI nella norma o superiore alla media: La sindrome di Asperger è considerata un disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento. Le persone con Asperger tendono ad avere intelligenza nella norma o superiore. Tuttavia, presentano difficoltà nelle interazioni sociali, nella comprensione delle convenzioni sociali e nelle abilità di comunicazione non verbale. L’intelligenza verbale può essere molto sviluppata, ma le difficoltà nelle “abilità pratiche” possono emergere.
3. DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento):
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QI nella norma o superiore: I disturbi come la dislessia, la discalculia e la disgrafia non implicano un deficit cognitivo globale. Le persone con DSA solitamente hanno un QI nella norma o anche superiore. La difficoltà sta nella specifica area di apprendimento, ma non è legata a una disfunzione intellettiva generale. Spesso, le difficoltà di lettura, scrittura o calcolo non sono indicative di una bassa capacità intellettiva, ma piuttosto di un problema specifico nell’elaborazione delle informazioni in quella particolare area.
4. Autismo (Disturbo dello Spettro Autistico – ASD):
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Ampia variabilità nel QI: Il profilo intellettivo delle persone con autismo è molto variegato. Alcuni individui presentano un grave ritardo intellettivo, mentre altri possono avere un’intelligenza nella media o superiore alla media. In effetti, circa il 40% delle persone con autismo ha un QI nella media o sopra la media. Tuttavia, circa il 30% può avere un QI significativamente inferiore alla media. La presenza di abilità speciali, come nel caso delle capacità matematiche o musicali (spesso osservate in persone con autismo ad alto funzionamento o “savants”), può influenzare notevolmente il QI in determinate aree.
In generale, il QI è solo uno degli indicatori del funzionamento cognitivo e non fornisce una rappresentazione completa delle capacità o delle difficoltà di una persona. Per esempio, una persona con un QI elevato potrebbe avere enormi difficoltà nel risolvere problemi sociali o nella gestione delle emozioni, mentre una persona con un QI inferiore potrebbe eccellere in un contesto pratico o creativo.
Inoltre, è importante considerare che ogni individuo è unico, e la classificazione del QI in relazione ai disturbi psico-cognitivi deve sempre essere contestualizzata all’interno di un quadro diagnostico complesso e individuale.
©Veronica Socionovo