Skip to main content

La grandezza della finzione

Che cosa significa che un oggetto esiste? Anzi che cosa è un oggetto e come possiamo essere certi che esiste veramente e non è il frutto di una creazione del nostro pensiero? È esistito veramente il big bang? Possiamo essere certi che Cristo è veramente risorto o è solo un racconto mitico come tanti? Ci possiamo fidare dei nostri amici o del nostro coniuge o ciascuno di noi è, per natura, falso?

In quale misura tutto il mondo nel quale viviamo è vero e degno di fede e quanto è finzione e bugia? La Gioconda dipinta da Leonardo da Vinci è la replica fittizia della donna che ha posato davanti al pittore, ma è anche, come opera originale, il modello di innumerevoli copie e imitazioni. Chi è l’originale e chi la copia?

Nell’anno 1956, nel museo Cernuschi di Parigi, ci fu una esposizione dedicata all’arte cinese. Ben presto si venne a conoscenza del fatto che le opere esposte erano dei falsi ma che il falsificatore era il più importante pittore cinese del XX secolo, Zhang Daqian, che fu subito considerato un furfante falsario e menzognero. Tuttavia, la maggior parte dei quadri esposti da lui riprodotti non potevano essere considerati dei falsi perché gli originali erano scomparsi da secoli, la memoria dei quali era stata trasmessa solo attraverso la scrittura di opere letterarie.

Nella pittura la perfezione della copia e l’illusione che essa genera è spesso usata come sinonimo di bellezza. Spesso diciamo “quel dipinto era così perfetto che l’immagine sembrava vera”.

Ma forse il campo nel quale è massima la confusione tra finzione e realtà è quella del teatro. Mettere in scena un personaggio è così tanto vicino alla vita di relazioni di chiunque di noi che molti sostengono che la nostra esistenza è spesso la recita di una parte predefinita, un immenso gioco di ruolo nel palcoscenico della vita.

Nel teatro dove nulla è reale, tutti dicono la verità. Come diceva Vittorio Gassman, “l’attore è un bugiardo a cui si chiede la massima sincerità”. In una “rappresentazione” non è importante che siano veri i fatti, gli oggetti e la messinscena, ma che la finzione scenica provochi nell’attore un sentimento vero e sincero esattamente come vero e sincero sarà il coinvolgimento del pubblico che non sarà più in grado di distinguere emotivamente il vero dalla finzione. In questo miracolo di trasformazione l’attore si immedesima nel suo personaggio e questi si incarna, nel volto e nel corpo dell’attore, realizzando una completa fusione esistenziale ed emotiva.

Da parte sua anche la scienza ha sempre avuto a che fare col concetto di realtà al di fuori di noi e con la finzione dei modelli concettuali. Nel corso del XVI e del XVII secolo, Copernico, Keplero e Galileo, inventavano quello che può essere considerato il concetto di realtà oggettiva tuttora predominante in occidente, assimilando le discipline scolastiche (di derivazione aristotelica) nell’astronomia e nella fisica. A partire da allora, si comincia a parlare di teorie e modelli, sia fenomenologici che assiomatici ma sempre utilizzando quel passaggio essenziale chiamato misura, che collega il mondo reale a quello numerico e matematico. Le teorie hanno normalmente una forma assiomatica con proposizioni primitive e linguaggio formale cui per mezzo di teoremi o regole di derivazione si ricavano tutte le proposizioni valide per quella teoria. È del tutto evidente che le teorie sono una rappresentazione semplificata della realtà basate su assunzioni che conducono alla libera e creativa scelta degli assiomi. Lo stesso Einstein diceva: “Finché le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non sono certe, e finché sono certe, non si riferiscono alla realtà (Da Geometrie und Erfahrung, lezione tenuta presso l’Accademia Prussiana delle Scienze di Berlino, 27 gennaio 1921)”. Il modello invece, nella sua accezione primitiva, è legato a una riproduzione materiale in scala. Così, ad esempio, il mappamondo è un modello della Terra o un insieme di palline colorate disposte in modo regolare rappresentano un modello di atomi in un cristallo. Questi oggetti vengono largamente usati nella tecnica mentre i fisici quando parlano di modelli si riferiscono piuttosto a una riproduzione concettuale più legata alla matematica. In tutti i casi, comunque, il legame di tali modelli con la finzione appare piuttosto evidente.

Da tutto quanto detto finora appare chiaro che la finzione debba avere un contenuto di verità, tutto da definire beninteso, ma non si può certo negare un valore positivo da attribuire al contenuto artistico di alcuni “falsi” pittorici o allo straordinario effetto emotivo del teatro o, meno che mai, al contenuto di verità e di conoscenza che possediamo dalle teorie fisiche sulla materia o sull’universo. Tutto questo è, in un certo senso, finzione che è anche verità.

Possiamo dunque dire che la finzione ha delle accezioni molto positive che hanno a che fare con il mondo ludico e creativo e sono la struttura portante del linguaggio scientifico e della scienza stessa oltre che dell’arte e delle relazioni umane.

Ecco che emerge chiaramente che il concetto di verità è distinto da quello di realtà. Anzi il punto cardine per il chiarimento di tutti i malintesi esistenti tra la visione religiosa e quella scientifica è legato a un errore di fondo e cioè di considerare come sinonimi due concetti che sono di fatto molto diversi tra loro e cioè il concetto di verità e il concetto di realtà. La verità è un concetto esistenziale e ontologico mentre la realtà ha un significato storico-scientifico. Da qui tutto il malinteso conflitto tra scienza e fede che ha insanguinato e amareggiato il dialogo nella cultura moderna da Galileo in poi. Di fatto non esiste invece, in questo senso, nessun conflitto.

Nell’antica Grecia lo scetticismo del mondo illusorio dei sensi, così ben dimostrato dai sofisti, veniva contrapposto alla verità di un mondo più reale di quello sensibile. Sia Platone che Aristotele sposarono tale idea di verità, il primo collocandola all’interno dell’uomo definendo un mondo delle idee, dal sapore matematico, e il secondo definendo la metafisica di un mondo esterno a noi che esiste indipendentemente da noi. In questi concetti di verità si colloca la mitologia e la religione, come suo caso particolare, caratterizzate appunto dal possedere la verità come caratteristica soteriologica e cioè di salvezza individuale. “Io sono la via la verità e la vita” (Gv 14,6) dice il Cristo indicando chiaramente un valore morale nella verità piuttosto di uno scientifico cui risulterebbe più attinente alla parola “realtà”.

Storicamente la religione, ad esempio consideriamo l’ebraismo, è nata per contrapporsi al male del mondo nello sforzo di creare una etica sociale, e ha dovuto assumere un contenuto fortemente moralistico nel corso dei secoli. Inoltre, per imporsi e distinguersi da altri simili racconti mitologici si è dovuta attribuire un contenuto di verità imposta. Le tradizioni fortemente radicate su questo hanno successivamente costituito una nazione e un popolo.

Auerbach esprime nel seguito tale concetto in modo efficace (Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000): “La storia d’Abramo e d’Isacco non è documentata meglio di quella d’Ulisse, di Penelope e d’Euriclea. Sono favole entrambe. Ma al narratore biblico, all’Eloista, occorre credere alla verità oggettiva del sacrificio d’Abramo; l’esistenza delle norme religiose della vita riposa sulla verità di questa e di simili storie. Egli deve credervi con passione, o almeno doveva essere un bugiardo consapevole: non un bugiardo innocente come Omero, che mente per dar piacere, bensì un mentitore politico, ben consapevole del fine, e che mentiva nell’interesse di una volontà di dominio. La pretesa di verità della Bibbia non soltanto è più urgente che in Omero, ma è tirannica, esclude ogni altra pretesa. Il mondo delle storie della Sacra Scrittura non si accontenta di voler essere la vera realtà storica, ma afferma d’essere l’unica vera, d’essere il mondo destinato al dominio esclusivo. Tutti gli altri teatri, eventi e ordinamenti storici non hanno alcun titolo per presentarsi indipendenti; ed è stato promesso che tutte le civiltà, tutta la storia degli uomini, deve ordinarsi dentro la sua cornice e ad essa sottomettersi. Le storie della Sacra Scrittura non si prodigano, come fa Omero, per attirarsi la simpatia, non ci lusingano per allietarci e incantarci; ci vogliono assoggettare, e, se ci rifiutiamo, siamo dei ribelli”.

Sembrerebbe dunque che in alcuni casi sia necessario credere “per forza” ovvero “fingere di credere” e convincersi della necessità di dover credere senza aver fatto una spontanea e sentita libera scelta. Tutto questo in vista di un bene maggiore che è la sicurezza nella formazione di un popolo che si sviluppa e si unifica su una tradizione.

Nicola Sparvieri

Foto © Blog di nicola sparvieri

Finzione, Realtà, Simulazione, Verità