Tra le calli umide e labirintiche della Venezia del XIII secolo, in un’epoca in cui l’Europa era ancora dominata da superstizioni, mappe piene di creature leggendarie e un’idea del mondo filtrata quasi esclusivamente attraverso la lente della teologia cristiana, nacque Marco Polo. Era il 1254 e l’Occidente si muoveva a tentoni nella penombra del Medioevo, sospinto da un desiderio di scoperta che non aveva ancora gli strumenti per essere pienamente realizzato. Venezia, all’epoca, era già una repubblica marinara sofisticata e dinamica, cuore pulsante di traffici commerciali e crocevia tra Oriente e Occidente. Ma ciò che Marco Polo avrebbe realizzato andava ben oltre le rotte del commercio e le logiche del profitto: fu un’apertura dell’immaginario, una frattura nella geografia mentale dell’Europa.
Il suo viaggio, condotto insieme al padre Niccolò e allo zio Maffeo, non fu soltanto una traversata geografica ma una vera e propria immersione culturale in un mondo che l’Europa conosceva solo per sentito dire, spesso in forma mitizzata o distorta. L’impero mongolo, con la sua vastità e complessità, si apriva come un continente mentale prima ancora che fisico. Polo si spinse fino alla corte di Kublai Khan, nella capitale allora chiamata Khanbaliq, oggi Pechino. Là visse, osservò, dialogò. Quando anni dopo fu catturato dai genovesi durante una battaglia navale e rinchiuso in carcere, dettò le sue memorie a Rustichello da Pisa, dando origine a uno dei testi più enigmatici e influenti della letteratura medievale: Il Milione.
In quelle pagine, tra realtà e leggenda, tra diario di viaggio e narrazione epica, prendeva corpo un Oriente lontano dagli stereotipi dell’esotismo astratto. La Cina non era più un mito, ma una civiltà dotata di logica, ordine, modernità. I lettori europei del tempo, abituati a pensare al mondo esterno come una periferia caotica e barbarica da evangelizzare o conquistare, si trovavano ora davanti a una realtà che sfidava quella supremazia. Il sistema amministrativo cinese, la pianificazione urbana delle città, la diffusione della carta moneta, le reti stradali e la centralità dell’istruzione: tutto ciò metteva in discussione il primato occidentale. Era come se Polo avesse aperto una finestra su un’altra modernità, un’alternativa al modello europeo ancora in fasce.
La reazione, prevedibilmente, fu ambivalente. Da una parte stupore e fascinazione, dall’altra incredulità. Molti accusarono Marco Polo di essere un bugiardo, un narratore visionario, persino un inventore di storie. Ma dietro queste accuse si celava qualcosa di più profondo: la difficoltà dell’Occidente a concepire un Altro che non fosse inferiore. La descrizione di una civiltà avanzata provocava una frattura epistemica, un trauma cognitivo. Polo non fu semplicemente un esploratore, fu un detonatore. Le sue parole, al di là della loro veridicità puntuale, scardinavano un ordine mentale.
Il seme di quel cambiamento germogliò lentamente. Bisognò attendere il XVI secolo per assistere a una nuova stagione dell’incontro con la Cina, segnata dall’avvento di una figura radicalmente diversa: Matteo Ricci. Se Polo aveva descritto, Ricci cercò di comprendere. Se il primo fu cronista e testimone, il secondo fu mediatore e interprete. Gesuita, matematico, astronomo, poliglotta, Ricci rappresentò una svolta nel modo di concepire l’incontro tra civiltà. La sua missione, iniziata nel 1582, fu una delle più audaci operazioni di diplomazia culturale nella storia moderna.
Ricci non si limitò a predicare. Si spogliò del suo essere europeo, almeno esteriormente, per abbracciare l’identità del letterato confuciano. Imparò il cinese classico, studiò i testi canonici della filosofia orientale, adottò gli abiti e le abitudini dei mandarini. Non si trattava di un travestimento, ma di un’autentica forma di rispetto, un tentativo di avvicinarsi all’altro da pari a pari. Nei suoi scritti, come nel celebre Tianzhu Shiyi (“La vera dottrina del Signore del Cielo”), cercò di creare un lessico comune tra il cristianesimo e il confucianesimo, individuando convergenze più che fratture. Era un’opera titanica di traduzione simbolica, in cui ogni concetto veniva soppesato, riformulato, contestualizzato.
L’approccio di Ricci, noto come “inculturazione”, rappresentava una novità assoluta. Non si proponeva di imporre una verità, ma di incontrarne un’altra, confrontarla, arricchirsi reciprocamente. Il sapere europeo — la scienza, la matematica, la cartografia — fu accolto dagli intellettuali cinesi non come strumento di dominio, ma come un contributo legittimo al sapere globale. Ricci divenne un ponte umano tra due mondi. Le sue mappe, i suoi strumenti, i suoi trattati scientifici circolarono nelle corti e negli ambienti accademici, aprendo varchi di dialogo in un’epoca in cui l’incomprensione era la norma.
Allo stesso tempo, l’Europa ricevette qualcosa in cambio. Non solo conoscenze astronomiche o botaniche, ma una nuova visione dell’etica e dell’ordine sociale. Ricci contribuì a far conoscere il pensiero confuciano in Occidente, provocando anche qui un terremoto intellettuale. L’idea di una società fondata sull’armonia, sull’autodisciplina, sulla responsabilità collettiva metteva in discussione il modello gerarchico e dogmatico occidentale. Ancora una volta, come con Marco Polo, l’Altro si presentava non come un oggetto da evangelizzare, ma come un soggetto da ascoltare.
Nel XX secolo, quando le rotte dei commerci e delle missioni si erano fatte più complesse e le ideologie avevano oscurato i ponti del dialogo, un’altra figura italiana contribuì a tenere viva la relazione spirituale e intellettuale con l’Asia: Giuseppe Tucci. Orientalista di fama internazionale, profondo conoscitore del sanscrito, del tibetano e delle religioni dell’Asia, Tucci fu molto più di un accademico. I suoi viaggi in Tibet, in Nepal, in India e in Cina non furono esplorazioni nel senso coloniale del termine, ma immersioni totalizzanti. Per lui, comprendere significava entrare in risonanza con l’oggetto studiato, lasciarsi trasformare da esso.
Tucci studiava i testi sacri con una profondità filologica rara, ma allo stesso tempo partecipava ai riti, ascoltava le storie, decifrava simboli e cosmologie. Il suo sguardo univa il rigore scientifico all’intuizione spirituale. Il Buddhismo tibetano, per esempio, non era per lui una curiosità etnografica, ma un sistema filosofico e psicologico di straordinaria coerenza. I suoi testi, densi e articolati, miravano a rendere l’Oriente comprensibile senza semplificazioni, scavando fino alle radici del pensiero e della pratica.
Con Tucci, l’Italia tornava a essere non solo spettatrice ma interprete dell’Oriente. Non si trattava più solo di descrivere o mediare, ma di confrontare in profondità due sistemi simbolici. La sua opera contribuì a demolire una certa visione folcloristica e riduttiva dell’Asia, restituendole la sua dignità intellettuale e spirituale. In questo, la sua eredità è ancora oggi imprescindibile per chi voglia affrontare il dialogo interculturale non come un esercizio retorico ma come un atto di profonda trasformazione.
Nel XXI secolo, il dialogo tra Italia e Cina non si gioca più lungo le rotte polverose della Via della Seta, ma su tavoli multilaterali, dentro le aule universitarie, nei corridoi delle ambasciate, nei centri di ricerca, sulle piattaforme digitali. L’Oriente non è più una proiezione mitica: è una presenza concreta, tangibile, a tratti ingombrante, spesso incompresa. La Cina è oggi un attore centrale del sistema globale, una potenza economica, tecnologica e politica, capace di influenzare equilibri planetari. L’Italia, dal canto suo, continua a cercare una posizione intermedia, un ruolo di mediazione che affonda le radici in secoli di storia ma che oggi si confronta con dinamiche nuove e complesse.
Nel 2019, l’Italia è diventata il primo e unico Paese del G7 ad aderire formalmente alla Belt and Road Initiative (BRI), la nuova “Via della Seta” promossa da Pechino per rafforzare la connettività tra Asia, Europa e Africa attraverso infrastrutture, investimenti e cooperazione logistica. Un gesto che ha acceso entusiasmi e preoccupazioni. Da una parte, la possibilità di attrarre investimenti, ammodernare porti e creare nuove opportunità per le imprese italiane; dall’altra, il timore di una crescente dipendenza economica da una potenza autoritaria, con tutto ciò che questo comporta in termini di sovranità strategica e di equilibrio geopolitico.
Il dibattito italiano intorno alla BRI è stato tutt’altro che sterile. Ha rivelato la tensione tra due anime del Paese: quella che guarda alla Cina con occhi pragmatici, interessata a cogliere occasioni di sviluppo in un’epoca di stagnazione economica, e quella che teme una progressiva erosione dei valori democratici, della libertà di stampa, della trasparenza. La firma del memorandum non ha portato a un’immediata esplosione di investimenti cinesi, ma ha simbolicamente marcato un’apertura, un tentativo di collocarsi come snodo mediterraneo di una rete globale. Tuttavia, i governi successivi hanno riconsiderato questa scelta, avviando un lento ripensamento della posizione italiana nella strategia cinese.
Parallelamente, l’interazione tra Italia e Cina si è fatta sempre più intensa sul piano culturale, scientifico, accademico. Ogni anno migliaia di studenti cinesi si iscrivono alle università italiane, attratti non solo dall’offerta formativa, ma anche dal fascino dell’arte, della lingua, del design. L’Italia è, per la Cina, uno scrigno di cultura umanistica e creatività. Allo stesso tempo, un numero crescente di italiani — studenti, ricercatori, imprenditori — si reca in Cina per stage, collaborazioni, programmi di doppia laurea. Il reciproco interesse si concretizza in partnership tra atenei, gemellaggi tra istituti di ricerca, progetti comuni su temi che vanno dall’intelligenza artificiale alla medicina rigenerativa.
Eppure, dietro questa intensa attività si celano criticità non trascurabili. Il concetto di “reciprocità” è spesso evocato, raramente pienamente attuato. Le istituzioni accademiche cinesi operano in un sistema fortemente centralizzato, dove lo Stato controlla l’accesso all’informazione, la produzione scientifica, l’insegnamento. La libertà accademica, che in Italia è tutelata come un pilastro democratico, trova in Cina una configurazione molto diversa, spesso subordinata a linee guida ideologiche. Questo crea inevitabilmente zone grigie, tensioni, rischi di autocensura.
La questione non è solo tecnica, ma simbolica. Il sapere, come il commercio, è portatore di potere. E quando lo scambio non è paritario, si rischia che il dialogo si trasformi in monologo, che la cooperazione diventi colonizzazione simbolica. La sfida, dunque, è quella di costruire forme nuove di relazione interculturale, capaci di riconoscere le asimmetrie senza negarle, di creare spazi di confronto autentico, di riformulare il concetto stesso di “dialogo”. In questo contesto, l’eredità di figure come Matteo Ricci torna sorprendentemente attuale. Il suo metodo — fatto di ascolto, immersione, rispetto e rigore intellettuale — è forse una delle chiavi più preziose per affrontare le relazioni con la Cina del XXI secolo.
La narrazione, in questo contesto, gioca un ruolo decisivo. Che Cina raccontano i media italiani? Quali immagini dell’Italia emergono dai testi scolastici cinesi? Le rappresentazioni reciproche sono cariche di impliciti, stereotipi, omissioni. Spesso si rimane prigionieri di un racconto binario: da un lato la Cina come minaccia o mistero impenetrabile, dall’altro l’Italia come culla decadente della cultura europea. Serve una nuova grammatica del racconto, una che tenga conto della complessità, delle sfumature, dei cambiamenti interni a ciascun Paese. Non basta studiare la lingua: bisogna educare alla lettura dei contesti, alla decodifica dei simboli, alla comprensione delle logiche culturali.
In questo senso, l’anniversario dei 700 anni dalla morte di Marco Polo, celebrato nel 2024, ha rappresentato molto più di un rito commemorativo. È stato uno specchio attraverso cui rileggere la storia dei rapporti tra Europa e Asia, ma anche un’occasione per misurare la distanza che ancora separa il desiderio di incontro dalla sua piena realizzazione. Mostre, conferenze, pubblicazioni, scambi accademici: tutto ha concorso a tenere viva una domanda cruciale — cosa significa oggi “incontrare l’altro”? — e a rispondere con approcci diversi, interdisciplinari, spesso dissonanti, ma sempre urgenti.
C’è oggi un bisogno crescente di alfabetizzazione interculturale. Non nel senso superficiale dell’apprendimento linguistico, ma nella capacità di cogliere i codici simbolici, i riferimenti etici, le strutture mentali che guidano l’agire delle persone all’interno di mondi culturali differenti. Insegnare il cinese nelle scuole italiane è importante, ma non sufficiente. Serve formare individui capaci di pensiero critico, di empatia intellettuale, di analisi comparativa. In fondo, si tratta di recuperare l’attitudine che ha animato le grandi figure del passato: l’umiltà di chi sa che nessuna civiltà è autosufficiente, che la conoscenza si costruisce nella relazione, che la verità si affina nell’alterità.
In un’epoca in cui i nazionalismi tornano a irrigidirsi, in cui le identità si radicalizzano, l’idea di un’Italia che si ponga come ponte tra mondi è tutt’altro che ingenua. È una scelta politica, strategica, culturale. Richiede coraggio, visione, investimenti strutturali. Ma soprattutto richiede una riformulazione del proprio ruolo nel mondo: non più quello dell’Occidente che esporta modelli, ma di un interlocutore che partecipa a una rete complessa di saperi, interessi e valori.
Questa attitudine potrebbe diventare uno degli asset più preziosi dell’Italia nel XXI secolo. In un sistema multipolare, dove le relazioni internazionali non si fondano più su blocchi rigidi ma su costellazioni fluide di alleanze, l’Italia può — e forse deve — ripensarsi come laboratorio di diplomazia culturale. Una diplomazia fatta non di proclami, ma di progetti condivisi, di borse di studio, di piattaforme scientifiche comuni, di laboratori di traduzione simbolica.
Nel tempo lungo della storia, l’incontro tra civiltà non è mai solo un fatto politico o economico: è, soprattutto, un’esperienza antropologica. È la collisione tra differenti concezioni del mondo, tra cosmologie, linguaggi, categorie etiche, strutture del sentire. Ogni contatto profondo tra culture implica una ridefinizione dell’identità. Non si esce indenni da uno scambio autentico. Si esce trasformati, decentrati, più complessi. E se l’Italia ha avuto un ruolo privilegiato in questo scambio con la Cina, è perché ha saputo — almeno in alcuni momenti storici — guardare all’Altro non con la brama della conquista, ma con l’umiltà del confronto.
Marco Polo, Matteo Ricci, Giuseppe Tucci: tre epoche, tre approcci, tre modalità di incontro. Ma anche tre metafore dell’Italia in relazione con l’Asia. Polo è il mercante, l’osservatore, il narratore di meraviglie: ci offre il primo sguardo sistematico sull’ignoto, e lo fa con l’occhio del testimone. Ricci è il traduttore culturale, l’uomo che costruisce ponti semantici, che cerca l’intersezione tra dottrine, che sfida il dogma per entrare in dialogo con la profondità etica del confucianesimo. Tucci è l’esploratore dell’interiorità, lo studioso che non si accontenta della superficie, ma scava nelle radici simboliche, nei miti fondatori, nei testi sapienziali.
Tre visioni che non si contraddicono, ma si arricchiscono. Insieme delineano un arco lungo, un cammino di decentramento dell’Occidente, in cui l’Italia gioca — per geografia, per storia, per cultura — un ruolo di soglia. Un paese che non è mai stato impero globale, ma crocevia di saperi, memoria di imperi altrui, culla di contaminazioni.
Oggi, nel tempo dell’interconnessione pervasiva, il rischio è che tutto diventi superficie: relazioni economiche senza profondità culturale, scambi commerciali svuotati di simbolismo, viaggi privi di immersione. L’incontro si fa rapido, digitale, spesso strumentale. Le piattaforme digitali facilitano la comunicazione ma rischiano di svuotare il contenuto umano dell’incontro. In questo contesto, il ritorno allo spessore antropologico delle relazioni diventa un’urgenza.
Cosa vuol dire oggi dialogare con la Cina, davvero? Significa non solo conoscere la sua politica, ma comprendere le radici del suo pensiero. Significa leggere Confucio e Mencio, ma anche comprendere la logica gerarchica della società, il culto dell’armonia, la centralità della famiglia, il peso della vergogna rispetto alla colpa. Significa, per l’Italia, non esportare modelli prefabbricati di democrazia, ma elaborare modalità di interazione in cui il rispetto non si confonda con l’acquiescenza, e la critica non si trasformi in arroganza.
In questo quadro, il ruolo delle istituzioni culturali — musei, università, centri di ricerca — è decisivo. Non bastano le ambasciate: serve una rete profonda di scambio simbolico. La cultura può essere diplomazia non dichiarata, ma potentissima: una mostra su arte buddhista, un convegno sulla medicina tradizionale cinese, una rassegna cinematografica sono più efficaci, a volte, di un memorandum economico. Perché parlano al cuore delle identità.
La traduzione, in questo senso, è l’atto simbolico più potente del nostro tempo. Tradurre non è solo passare da una lingua all’altra. È passare da un mondo all’altro. È decodificare simboli, mediare ontologie, rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe opaco. Matteo Ricci lo aveva capito. I traduttori contemporanei — quelli che lavorano tra codici giuridici, etici, digitali — devono raccogliere questa eredità.
Allo stesso tempo, è necessario riconoscere le disuguaglianze interne a questi scambi. La Cina si presenta come un partner paritario, ma spesso agisce secondo logiche di potere verticale. Il controllo sull’informazione, la gestione autoritaria del dissenso, il rapporto tra Stato e individuo sono aspetti che non possono essere ignorati. Il rispetto per l’altro non implica l’indifferenza verso i diritti umani. Serve una lucidità critica che sappia tenere insieme apertura e fermezza. Una nuova forma di diplomazia culturale: gentile ma assertiva, dialogica ma non passiva.
In questa prospettiva, l’Italia può offrire molto. Non ha una potenza militare da imporre, non ha un impero commerciale da difendere, ma ha una memoria culturale stratificata, un’arte della mediazione, un patrimonio simbolico che le consente di porsi come interprete. Può essere ponte, se decide di esserlo. Non un ponte neutrale, ma un ponte consapevole: capace di sostenere il peso delle differenze, senza collassare sotto la retorica della “fratellanza universale” o della “guerra dei mondi”.
Questa postura — di ascolto critico, di scambio profondo, di tensione alla comprensione — è forse la vera lezione che Marco Polo ci lascia, a settecento anni dalla sua morte. Non la mappa, ma la meraviglia. Non il resoconto geografico, ma la disponibilità a lasciarsi interrogare da ciò che è altro. Non l’accumulo di dati, ma l’apertura simbolica. In un mondo che corre verso la velocità, la standardizzazione e l’omologazione, ricordare la lentezza del viaggio di Polo, la pazienza dello studio di Ricci, la profondità mistica di Tucci è un atto di resistenza culturale.
E allora forse, oggi, ripensare i rapporti tra Italia e Cina non significa soltanto discutere di corridoi logistici, di fondi sovrani o di export vinicolo. Significa rimettere al centro l’umano. Le sue domande, le sue paure, i suoi desideri di contatto e riconoscimento. Significa fare delle relazioni internazionali un campo di esplorazione esistenziale, oltre che geopolitica. Perché l’Altro non è mai davvero esterno: ci abita, ci mette in crisi, ci arricchisce.
La Cina che Marco Polo descrisse era un continente mentale, prima ancora che geografico. La Cina con cui Matteo Ricci dialogò era una sfida etica. La Cina che Tucci studiò era una fonte di saggezza. La Cina di oggi è tutte queste cose, e qualcosa di più: un interlocutore globale, un enigma politico, una potenza culturale. Come ogni grande civiltà, è contraddittoria. Come ogni grande potenza, è ambivalente. Ma come ogni grande incontro, quello tra Italia e Cina continua a dirci qualcosa di essenziale su chi siamo, e su chi possiamo diventare.
Nel tempo della complessità, solo chi sa attraversare mondi può costruire futuro.
©Veronica Socionovo