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1943: lo Sbarco USA in Sicilia e…

 75 anni fa, lo sbarco degli Alleati in Sicilia

…e le più lontane radici della trattativa Stato-Mafia

Il 9-10 luglio di 75 anni fa, lo sbarco degli Alleati in Sicilia (gli americani ad ovest, tra Gela e Licata, gli inglesi sulla costa orientale) rappresentava il primo vero attacco da Occidente alla “Fortezza Europa” dell’Asse. In questi decenni, molto s’è scritto sulla dinamica di quest’ operazione militare, che, dopo la disfatta dell’ Asse in Nordafrica (maggio 1943), segnava un’altra tappa essenziale di quella riscossa iniziata dagli Alleati, nello scacchiere euro-mediterraneo, con le vittorie di El Alamein e Stalingrado. Ma se sino a poco tempo fa, gli storici si son soffermati soprattutto sulla fiacca, debole resistenza delle forze italiane in Sicilia occidentale, negli ultmi anni vari ricercatori han ricostruito più fondo il quadro generale dei fatti, in realtà ben piu’ complesso.

Andrea Cionci, nel documentato articolo “La vera storia dello sbarco in Sicilia” (in “La Stampa”, 24 febbraio 2017), analizza a fondo – sulla base, in gran parte, di documenti USA desecretati negli ultimi anni e parzialmente visibili sul sito del FOIA, lo storico “Freedom of Information Act” di metà anni ’70 – il ruolo complessivo ricoperto, nel favorire lo sbarco USA, dalla mafia italo-americana (tema più volte discusso,  ma sul quale in passato erano poche le prove inoppugnabili).

A partire proprio dal piano strettamente militare (sul quale, invece, uno storico come Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione “Ugo Spirito-Renzo de Felice”, ancora nel 2013 era abbastanza scettico). Uno “dei più efficaci provvedimenti mafiosi – scrive Cionci – fu quello di minacciare pesantemente i militari siciliani di stanza nella loro regione. Venne “caldamente consigliata” la diserzione e il sabotaggio per evitare conseguenze spiacevoli per loro e le loro famiglie. Ecco perché due delle quattro divisioni mobili italiane di stanza in Sicilia si sfaldarono, in buona parte, all’arrivo degli angloamericani. Michele Pantaleone (il giornalista e politico socialista autore nel ’62, per Einaudi, d’un libro importante come “Mafia e politica”, N.d.R.) scrive in “Mafia e droga” che il 70% dei soldati delle divisioni “Assietta” e “Aosta” – quota corrispondente, appunto, a quella dei militari siciliani – il 21 luglio 1943, a sbarco avvenuto, “scomparve senza lasciare traccia, pregiudicando, così, l’intero apparato difensivo siciliano”… I soldati siciliani della “Assietta” e della “Aosta” provenivano dai ceti agrari”, prosegue Cionci; “e, come contadini, erano da sempre vessati dalle pressioni dei capi mafia e sottoposti ai loro ordini. Non a caso, una simile diserzione di massa non avvenne nella divisione “Livorno”, poiché in essa i siciliani erano pochissimi, appena il 9%. A ulteriore conferma, va considerato che i soldati siciliani costituenti il 60% della divisione “Napoli” fecero, invece, il loro dovere fino in fondo – ed eroicamente – perché si trovavano nella Sicilia orientale, quindi al di fuori della sfera di influenza dei mafiosi collaborazionisti (attivi, piuttosto, nell’entroterra)”.

È stato, invece, rimosso quasi del tutto dalla memoria collettiva il sacrificio dei soldati delle divisioni “Livorno” e “Napoli”, appunto (operante, quest’ultima, sulla costa siciliana orientale, contro gli inglesi): che quasi arrivò a mettere in forse lo sbarco alleato. Nell’altro saggio “Uccidi gli italiani. Gela 1943. La battaglia dimenticata” (Mursia, 2013), Andrea Augello ha ricostruito appassionatamente – intervistando anche vari superstiti di allora – la forte resistenza opposta agli Alleati, sulle spiagge di Gela, dalla “Livorno” (rimasta impermeabile alle minacce mafiose), per ordine del comandante della VI Armata, il generale Alfredo Guzzoni (poi processato dalla RSI, ma assolto): coi soldati quasi privi di armi automatiche, senza copertura dell’artiglieria, con pochi, ormai obsoleti, carri armati. Aiutati dai tedeschi (soprattutto i para’ della divisione “Hermann Goering”, che però arrivarono più tardi ed ebbero varie incertezze), e da semplici cittadini, armati soprattutto di fucili da caccia: che, se non amavano certo i nazisti, non volevano nemmeno che la loro terra diventasse, un domani, una “Cuba di Batista” del Mediterraneo. In un caso, poi, un reparto italiano, la 49a btr., fu costretto ad arrendersi perché gli americani addirittura utilizzavano prigionieri di guerra come scudi umani. Lo stesso generale Patton, ricorda Augello,  fu sul punto di dare ordine di reimbarco: poi, il bombardamento a tappeto, coi cannoni a 340 mm.,  effettuato dalle navi statunitensi liquidò la resistenza. 7200 uomini furono i caduti della “Livorno”(su un effettivo di 11.400 uomini): mentre  630 le medaglie al valore – in gran parte postume – concesse poi ai militari del solo Regio esercito (escludendo, cioè,  Marina e Aeronautica) che difendevano la Sicilia.

capa-sbarco-sicilia_580x361Sia chiaro, chi scrive non lo fa in un’ottica ideologica (ed anzi, come formazione politica, s’è sempre riconosciuto nella sinistra davvero riformista, socialista e democratico-radicale; mai comunista). Ma la storia è storia, nell’interesse soprattutto delle generazioni future dev’essere conosciuta in ogni sua pagina, senza tabù nè paraocchi ideologici o confessionali; e soprattutto non può essere scritta solo dai vincitori.

Sempre Augello e altri studiosi, poi, si soffermano su un’altra pagina rimossa dell’ “Operazione Husky” (nome, in codice, dell’ azione contro la Sicilia): le stragi freddamente compiute dagli americani, ai quali Patton aveva dato il preciso ordine di fare meno prigionieri possibile. Come il  massacro dell’ aeroporto di Biscari (arresosi dopo strenua resistenza): che vide 76 prigionieri italiani e 12 civili cadere sotto le mitragliate del sergente F. Horace West e del capitano John Compton (che si giustificò dichiarando che credeva d’aver ben interpretato le parole del generale Patton). Così come per gli 8 carabinieri di Passo di Piazza (Gela), arresisi dopo una breve resistenza (come ricorda l’altro saggista Fabrizio Carloni in “Gela 1943. Le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia”, Mursia 2013) , e passati per le armi senza motivo. E ancora, le stragi di Piano Stella, Comiso, Castiglione, Vittoria, Canicattì, Paceco, Butera,  Santo Stefano di Camastra e vari altri paesi: ricostruite negli altri saggi di Giovanni Bartolone (“Le altre stragi”, Palermo, 2005), Franco Nicastro (“Le stragi americane”) e Gianfranco Ciriacono, nipote di una delle vittime di allora (“Le stragi dimenticate”, Ragusa, Coop. CDB, 2003), con quasi tutti i responsabili, nei casi in cui furono sottoposti a corte marziale, assolti o condannati a pene irrisorie. I liberatori-invasori (da notare che gli stessi americani, nell ‘opuscolo per i militari  “Soldier’s guide to Sicily”, si definivano “invaders”) nutrivano anche forti pregiudizi etnici: nei i dispacci “top secret” che Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino hanno raccolto nell’altro studio “Operazione Husky” (Castelvecchi editore), il servizio segreto britannico scrive che «Gli italiani sono dei gran chiacchieroni, si lagnano di tutto e non fanno che disperarsi. Ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, spunta sempre un pretesto per non agire.»

A Troina (Enna), infine, cominciarono gli stupri, le uccisioni e le razzie ad opera dei reparti di colore: col reparto “Tabor”, composto da 832 militari marocchini sbarcati al seguito della 3° divisione americana. Altra pagina nera dell’ avanzata degli Alleati nella penisola: che si protrarrà per quasi un anno, ad opera soprattutto dei “goumiers” inquadrati nelle forze golliste francesi, arrivando sino alla Toscana e segnando le vite di decine di migliaia di italiane e italiani (in Sicilia, però, la gente non rimase a guardare: vari militari di colore furono ritrovati uccisi alla maniera mafiosa, coi propri testicoli in bocca!).

Ma come era nata la “Corrispondenza d’amorosi sensi” tra mafia italo-americana e Forze armate USA (specialmente la U.S. Navy)? È indispensabile un passo indietro.

9769a21ee883c5c741b12a647b70685cNel 1924, il prefetto di Trapani Cesare Mori riceve da Mussolini l’ordine di sradicare il più possibile la mafia dalla Sicilia. Mussolini, infatti, da poco giunto al potere, vuole accreditarsi di fronte all’opinione internazionale (pensando anche al grave impedimento rappresentato da un cancro come la mafia al possibile arrivo, in Sicilia e in tutto il Sud, di investimenti sia esteri che degli stessi imprenditori settentrionali: la storia italiana è sempre uguale…). Mentre di lì a poco, nel 1926, se inizierà ad instaurare il regime totalitario dichiarando decaduti i deputati dell’ Aventino e varando le “leggi fascistissime”, impartirà però – con apposite circolari – anche severe disposizioni a tutti i prefetti di essere pronti, in futuro, a garantire soprattutto l’ autorità dello Stato (smaltite ormai le ubriacature rivoluzionarie e violente, di sinistra e di destra, degli anni 1919-’22): anche con le armi, se necessario, e persino contro eventuali tumulti degli stessi fascisti. Mori – uomo cui non manca certo il senso dello Stato – attua una durissima repressione del fenomeno mafioso, ricorrendo, spesso, a metodi brutali: vengono avviati diecimila processi, con innumerevoli condanne, mentre molti pericolosi boss (come Vito Genovese), inizialmente fiancheggiatori del fascismo,  sono mandati al confino o costretti ad emigrare negli USA.

Cesare-Mori-670x274Il “Prefetto di ferro”, però, come scrive lo stesso storico marxista Giuseppe Carlo Marino, docente emerito all’ Università di Palermo, nella sua “Storia della mafia”, sa anche mobilitare largamente l’opinione pubblica, soprattutto tra i giovani, nell’ impegno contro Cosa nostra, quasi come un Borsellino degli anni ’20: facendo sentire sul territorio la presenza dello Stato (che in passato aveva significato solo tasse, “concorrenza sleale” nei confronti dell’ economia meridionale e cartoline precetto). Sarà costretto, però, a fermarsi di fronte al ceto dei grandi latifondisti, che utilizza la manovalanza mafiosa per il controllo delle proprietà agricole (siamo negli anni ’20, lontani anni luce dalla mafia- imprenditrice e tentacolare, soprattutto dei corleonesi, degli anni dai ‘ 70 in poi).

Nel 1940 – tappa importante della lotta per risolvere la “Questione meridionale” –  viene istituto l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, che rappresenta un duro colpo per i latifondisti: costringendoli, infatti, ad apportare migliorie produttive (coi contributi dello Stato), pena l’esproprio delle loro proprietà. Così, i grandi proprietari terrieri fondano un comitato d’azione separatista capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile (in seguito tra i massimi leader del separatismo siciliano) e dal “mafioso tout court” don Calogero Vizzini, tornato da sei anni di confino. Nel ’42, il comitato prenderà il nome di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (MIS), e nel ’43 avrà la sua grande occasione appunto con lo sbarco alleato: salutando gioiosamente gli angloamericani al loro arrivo e “sollecitando” il popolino a fare altrettanto nelle piazze. Non possiamo qui analizzare l’intera materia: ma è un fatto che in quegli anni, dal ’42 al ’47, si forma quel groviglio di interessi, comprendente mafia, grandi proprietari terrieri, strani movimenti politici,soprattutto separatisti (come il MIS e il MASCA, Movimento per l’Annessione della Sicilia alla Confederazione Americana, capeggiato dal bandito Salvatore Giuliano), logge massoniche degenerate e politici di tutti i partiti che, come una piovra, non solo eserciterà il potere nel Sud per decenni, ma condizionerà pesantemente, sino ad oggi, tutta la vita civile italiana.

Intanto, nei primissimi anni ’40, come scrive l’ altro saggista Massimo Lucioli in “Mafia & Allies” (Roma, Scripta Manent ed., 2005), negli USA si creava il legame tra US Navy e mafia italoamericana. Dopo lo scoppio della guerra, per scovare le spie e i sabotatori pro-Asse, ben nascosti nella numerosa comunità italoamericana newyorkese,  uno dei massimi responsabili dell’ intelligence, addetto alla sicurezza portuale, il maggiore Radcliffe Haffenden, decide di prendere contatti col gangster Salvatore Lucania, alias Charles “Lucky” Luciano, capo riconosciuto della mafia in USA (che, nonostante stia scontando in carcere una condanna a cinquant’anni per sfruttamento della prostituzione, continua indirettamente  a controllare le attività illecite del porto di New York). La valanga d’ informazioni fornite ai servizi segreti da Lucky Luciano consente agli americani non solo di smantellare la rete spionistica italiana nel porto di New York, ma anche di garantirvi una forzosa pace sindacale (il 1942, infatti nonostante tanto fervore patriottico del dopo Pearl Harbour, negli USA è un anno con forti tensioni sociali e agitazioni operaie), per non turbare l’invio di materiale bellico in Europa. I contatti di Haffenden con Luciano sono stati confermati dai microfilm pubblicati, per un breve periodo, sul citato sito del Freedom of Information Act, riportante i resoconti delle indagini su Haffenden svolte dallo stesso FBI.

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Mentre, sempre su Luciano, il saggio “La “santissima Trinità” – Mafia, Vaticano e servizi segreti all’assalto dell’Italia 1943 1947″, pubblicato con Bompiani da Nicola Tranfaglia nel 2011, riporta un documento del dopoguerra, spedito da Will S. Wood (dell’ Ufficio federale per i narcotici) a Garland H. Williams (supervisore del settimo distretto di polizia di New York): dove si parla del rapporto, definito “molto stretto”, tra Luciano e un certo John Balsamo, “alle dipendenze dell’ambasciata americana a Roma”. Questo Balsamo aveva scritto all’ allora capo della polizia italiana, Luigi Ferrari, elogiando a più riprese Luciano, dicendosi pronto a garantire per lui e accludendo addirittura, come referenze, una serie di nominativi, compresi alti esponenti del Vaticano, come Mons. Tardini (Segretario di Stato) e persino il Conte Nasalli Rocca, dell’Ordine di Malta (pp. 215-216). A Luciano, insomma, non mancavano appoggi e protezioni: per questo, nel ’42- ’43, il servizio segreto della Marina USA e, in seguito, lo stesso OSS, l’ antenato della CIA diretto dal mitico Wild Bill Donovan, si rivolgono a lui (e, probabilmente, all’amico Frank Sinatra) per avere un elenco di mafiosi, residenti in Sicilia, disposti a cooperare al momento dello sbarco.

Insomma, nel 1943 si ripete , su scala più vasta e inquietante, quanto – senza nulla togliere, sia chiaro, al significato complessivo del nostro Risorgimento- era già accaduto nel 1860 con lo sbarco dei Mille: quando Garibaldi – come avrebbero scritto, tra gli altri, il prefetto di Palermo Gualterio (nel 1865), gli storici Raffaele de Cesare e George Trevelyan, e un protagonista diretto dell’ impresa come lo stesso Ippolito Nievo – non aveva potuto evitare di ascendere a patti coi baroni latifondisti e coi mafiosi loro servi, pur di sconfiggere i Borboni. E principale interlocutore di Lucky Luciano in Sicilia, nel ’43, è don Calogero Vizzini, tra i capi supremi della mafia siciliana: tramite fra i due, il boss Vito Genovese, rientrato in Italia dagli USA già nel 1938. “Lo ritroviamo”, scrive ancora Andrea Cionci su “La Stampa” del 24 febbraio 2017, “in una fotografia mentre posa, in divisa americana, accanto al bandito Salvatore Giuliano, mentre, in un’altra foto, si riconosce il mafioso italo-americano Albert Anastasia, sempre in uniforme, inquadrato in un reparto di fanteria il cui gagliardetto consisteva in una grande “L” gialla (da “Luciano”) in campo nero”.

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Tale vessillo – attestato anche da un filmato trasmesso dalla RAI (se non andiamo errati, in una puntata della trasmissione “La storia siamo noi”) nel settembre 2009 – serviva appunto a rendere immediatamente riconoscibili ai siciliani, durante l’operazione “Husky”, i reparti delle Forze armate USA più vicini” a Luciano e Sinatra. “Lo stesso vessillo – conclude Cionci – è, incredibilmente, apparso attaccato su un’auto in una foto del 2010 – del tutto inedita – scattata da Massimo Lucioli, insieme a due altri testimoni, nel paese di Cassibile (SR) durante la celebrazione dell’armistizio siglato con gli Alleati nel ‘43. La vettura sconosciuta è passata di fronte alle autorità statunitensi mentre la banda U.S. Navy suonava l’inno a stelle e strisce”.

L’inevitabile ricompensa per la la mafia sarà, dopo lo sbarco alleato, la piena infiltrazione nel tessuto politico-amministrativo di gran parte dei comuni isolani, supportata dall’Allied Military Government of Occupied Territories (Amgot): con noti mafiosi – come il barone Lucio Tasca a Palermo, e gli stessi Vizzini e Genco Russo – posti a capo delle amministrazioni cittadine. E, nei decenni successivi, l’ infiltrazione della mafia in tutto l’apparato dello Stato, col logico condizionamento della politica e la creazione di alleanze tanto aggrovigliate quanto impensabili per la coscienza civile d’un Paese normale. Illuminante, in questo senso, s’è rivelato un documento – tuttora custodito negli archivi del Congresso USA – citato nel film del 2016 di Pier Francesco Diliberto “In guerra per amore” (commedia a sfondo bellico che ha però il merito d’ aver riaperto il dibattito su questo tema): si tratta d’ un rapporto al presidente Roosevelt, datato 29 ottobre 1943, del capitano Scotten, esponente dell’ AMGOT, in cui lo stesso, dopo aver espresso il suo disgusto nel vedere noti mafiosi, criminali riconosciuti, rifarsi in Sicilia una verginità dichiarandosi antifascisti perseguitati dal fascismo, poi benemeriti coprotagonisti dell’abbattimento della dittatura, pone lucidamente il governo USA di fronte alle sue responsabilità per aver favorito, in sostanza, il ritorno sul territorio italiano d’ un’ organizzazione in passato ridotta quasi alla clandestinità.

Dopo aver lucrato col mercato nero durante il conflitto, Cosa nostra invece comincerà a prosperare, nel dopoguerra, soprattutto col traffico di stupefacenti; mentre emergeranno gradualmente giovani già apparsi nei giorni del ’43, come Michele Sindona – inizialmente cambiavalute per gli americani – e Vito Ciancimino, futuro sindaco andreottiano di Palermo. Lucky Luciano, graziato nel ’46 dal Governo USA, in cambio dei suoi servigi, a patto di lasciare gli Stati Uniti, si stabilirà proprio in Italia, continuando sottobanco i suoi traffici. Morirà nel 1962 al bar dell’ aeroporto napoletano di Capodichino, trovandosi sotto stretto controllo da parte della Guardia di Finanza: apparentemente per infarto, molto più probabilmente avvelenato, come sarà poi per Sindona, “a scopo preventivo” ( nel film del 1973 centrato sulla figura del capomafia, Francesco Rosi , esaminando anche la stampa dell’epoca, ipotizza che Luciano, da precursore di Tommaso Buscetta, fosse in procinto di vuotare il sacco, con le autorità italiane, sul traffico di droga Italia-USA).

E’ nei lontani fatti del ’43-’44, quindi, nei perversi intrecci internazionali di potere creatisi allora, che occorre scavare per capire a fondo tanti misteri della Repubblica. La trattativa Stato-mafia, insomma, sino a quella – oggetto tuttora di inchieste giudiziarie – degli anni 1992-’94, col suo incredibile corollario di uccisioni, attentati, reciproche accuse, affonda le radici proprio lì.

Fabrizio Federici