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Masterchef Italia – Maxwell e le sue mille vite

Alla domanda su come sia nato il suo interesse per la cucina Maxwell Alexander ma per noi sempliecemte Max risponde “Gli Stati Uniti negli anni ’60 e ’70 erano pervasi dalla cucina internazionale: cinese, messicana, afro-americana, giapponese, francese e, of course, quella italiana. A mia madre, che cucinava con passione, piaceva seguire queste tendenze. Il trend di quegli anni era anche saper cucinare anche la fondue svizzera che ricordo di averla mangiata ogni sera per due mesi o forse anche anche di più, la preparava in continuazione”.

È  stata quindi  sua mamma a trasmettergli questa passione poi rafforzata dai sui numerosi viaggi di lavoro e così che nascono “Le mille vite del signor Maxwell”.

Abbiamo sorriso per il suo italiano anglofonizzato ma ci siamo anche dispiaciuti se non addirittura arrabbiati per la sua eliminazione. Certo che l’ultimo piatto preparato era a un po’ “mappazzone”, come definito dallo chef Bruno Barbieri, ma c’è chi ha fatto molto peggio nelle puntate precedenti ma non gli è toccata la stessa sorte. Poco importa, perché Max rimane il vincitore morale di questa stagione.

Lo è per noi, abituati come siamo a vedere cuochi amatoriali che in poche puntate riescono ad alzare a dismisura l’asticella del peccato di presunzione, sfiorando a volte la mitomania. Quello che ha più colpito di Max è proprio l’assenza di questa variabile caratteriale. Ha iniziato con timidezza la sua esperienza in tv, per poi guadagnarsi di settimana in settimana il suo posto nel gruppo. “Volevo vincere, ma è giusto così, sono contento di esserci stato. Non conosco la furbizia, è stato naturale comportarmi in quel modo. È il mio stile, mi piacciono le persone”.

Sessantaquattro anni appena compiuti, vive a Roma, una vita spesa come giornalista e scrittore, ma anche a cucinare. Ha un curriculum lunghissimo: negli anni ’90 è stato direttore esecutivo di Variety e Daily Variety a New York e poi a Los Angeles. Ha seguito per anni il Festival di Cannes, l’American film market, la Mostra del cinema di Venezia e il Mifed di Milano. “Molto spesso dopo la mostra del cinema a Cannes, in Francia, sono andato a Parigi in macchina e ho passato lì qualche settimana e cucinavo per i miei amici francesi”.

Uomo dalle mille risorse culinarie, amante del cibo e “contadino” nella sua fattoria nel Maine, dove ha allevato anche maiali, galline, anatre, oche e prodotto vino e sidro. Ha vissuto in Ghana per quattro anni, seguendo il fratello, Whit Alexander  e nel mentre ha scritto e pubblicato un libro con il titolo più lungo di sempre Bright lights, no city: an African adventure of bad roads with a brother and a very weird business plan.

Adesso vive a Roma, al Pantheon in pieno centro storico, da poco più di un anno e perché questa scelta? “Era ovvio, Roma è la città più bella che ho visto nella mia vita. La prima volta che ho visitato l’Italia era il 1985, e in quella occasione ho deciso una cosa: un giorno vivrò in questo paese”. All’università ha studiato anche storia dell’arte e italiano, e quindi vivere in Italia è da sempre stato uno dei suoi obiettivi “Due anni fa ho deciso, era il momento giusto e ho fatto le valigie”.  

Ci tiene a sottolineare che è un migrante, come i suoi nonni materni che ha ricordato nel suo discorso dopo l’eliminazione. “Erano originari della Slovacchia, persone poverissime, arrivate negli Stati Uniti nel 1908, più di cento anni fa, per trovare qualche opportunità. Mia nonna era casalinga, mio nonno invece lavorava nelle fabbriche di macchine a Detroit, in Michigan. Vuoi sapere una cosa curiosa? Ha costruito per tutta la vita auto ma non ne ha mai guidata una, non aveva la patente”.

Vivendo a Roma, non è poi così difficile incontrarlo tra i tavolini di Sant’Eustachio o alla pizzeria Montecarlo, “un posto antico, senza wifi, che non accetta le carte di credito, con un proprietario un po’ burbero”. La domenica va a trovare la sua amica Arianna Paparelli, chef professionista che si occupa anche di catering, vicino piazza Mancini, per un brunch al ristorante L’Officina. Per il vino ci dice che predilige due enoteche, Il Goccetto e L’Angolo Divino vicino a Campo de’ fiori. “Il proprietario si chiama Max, come me. Lo adoro, è un brav’uomo. Il cibo è buono, i vini stupendi”.

Ama i carciofi alla giudia (quelli fritti per intenderci) “Vado spesso a mangiarli da Nonna Betta e da Ba Ghetto”, nell’atmosfera immobile del Portico d’Ottavia, a casa non cucino i carciofi alla giudia, friggendo si sporca tutto!” (confessa ridendo!) “Però preparo spesso quelli alla romana con la mentuccia, mentre per il cibo asiatico arrivo fino al mercato dell’Esquilino”.

Max sei famoso, lo si può dire? “Sì un po’, ed è strano. Ho deciso che non posso uscire di casa senza essermi fatto la barba, non voglio fare una brutta figura con i miei fans”. Un’altra sua passione è la moda. “I sarti sono degli artisti. Ne conosco alcuni tra Napoli e Roma da cui mi faccio cucire abiti su misura. Non famosi come Michelangelo ma bravissimi”. Ci ricordiamo le sue camicie curate e le giacche a quadri, con l’indimenticabile peperoncino appeso al doppiopetto.

E adesso veniamo alla fatidica domanda: perché hai partecipato a Masterchef? “A dire il vero non è stata la mia idea, ma di mia nuora, Eva. Durante il lockdown, a marzo, sono tornato negli Stati Uniti per tre mesi e ho vissuto con lei e suo figlio più grande. Ho cucinato per loro tutte le sere, e durante una cena Eva mi ha detto: devi andare a Masterchef Italia”. La prima, la seconda e anche la terza volta ha sorriso declinando. “She pushed me, pushed me”. Rispondeva divertito: “Ma dai, non è possibile, un americano a Masterchef Italia?”. Il resto della storia lo conosciamo.

Prossimamente aprirà un canale YouTube dedicato alla cucina e “allo stile”, il progetto è ancora da definire, non c’è il nome, ma probabilmente lo affiancherà la sua amica di fornelli Arianna. Nel frattempo proseguirà la sua vita romana, impegnato com’è a rispondere a chi lo ha seguito in tv, e a scrivere un nuovo romanzo in inglese. In futuro proverà a farlo anche in italiano. Infine saluta in perfetto stile romano “Ormai vivo come un romano. Stai a sentire: ‘namo, eddaje, ammazza, fra’ cazzo da Velletri. Vedi? Sto imparando il dialetto romanesco”.

 

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