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Myanmar, arriva la grazia per Aung San Suu Kyi

Buone notizie dal Myanmar per la leader birmana simbolo della lotta contro le dittature Daw Aung San Suu Kyi a cui le autorità, dopo il trasferimento dal carcere presso un edificio governativo, hanno concesso la grazia, come confermato dai media locali. Suu Kyi secondo alcune fonti avrebbe anche incontrato il presidente della Camera bassa, Ti Khun Myat, e potrebbe vedere un diplomatico cinese in visita nel Paese.

Premio Nobel per la Pace da sempre attiva nella difesa dei diritti umani e leader della Lega nazionale per la Democrazia, detenuta dal colpo di Stato del 2021, quando l’esercito ha preso il controllo del Paese, ha ricevuto la grazia in seguito a un’amnistia in occasione della Quaresima buddista insieme ad altri 7.000 detenuti. “Il presidente del Consiglio di amministrazione dello Stato perdona Aung San Suu Kyi, condannata dai tribunali competenti” si legge nel comunicato diffuso dalle autorità. La grazia riguarda cinque delle 19 condanne a suo carico e non è chiaro per il momento se porterà al suo rilascio.

Rimangono incerte le notizie sul suo stato di salute. Per mesi si sono susseguite speculazioni in merito a una presunta malattia, ma l’esercito ha sempre prontamente negato e il ministro degli Esteri thailandese Don Pramudwinai, che l’ha incontrata recentemente, ha affermato che “il premio Nobel per la pace sta bene”.

Lo scorso 23 Marzo la giunta militare aveva sciolto il partito Aung San Suu Kyi, la Lega nazionale per la Democrazia, simbolo del desiderio dei birmani di opporsi a un regime che domina il Paese dagli anni Sessanta, e altri movimenti politici minori. La notizia era giunta in tarda serata una volta scaduto il termine per registrarsi in vista delle elezioni promesse, ma non ancora fisate dal generale Min Aung Hlaing.

La giunta militare, dopo il golpe, aveva condannato Aung San Suu Kyi a 33 anni di reclusione per alcuni reati tra cui corruzione, possesso illegale di walkie talkie e per aver violato alcune restrizioni durante la pandemia da Coronavirus. Intanto l’esercito che ormai è fortemente contrastato dal popolo, contrario al colpo di Stato, tenta inutilmente di guadagnare assenzo con atti simbolici come ad esempio la costruzione di un Buddha gigante. In Myanmar infatti le guerre civili non si sono mai placate da quando la giunta militare ha preso il potere.

Ma chi è Aung San Suu Kyi? Classe 1945, figlia del generale Aung San, capo della fazione nazionalista del Partito Comunista della Birmania, dopo l’omicidio del padre seguì sempre la madre, che divenne ambasciatrice in India e le permise di studiare nel Paese e nel Regno Unito e a New York, dove lavorò alle Nazioni Unite. Ispirata da Martin Luther King e dal Mahatma Gandhi, Aung San Suu Kyi ha dato avvio alle sue campagne per la democrazia in Myanmar, continuamente sfociate in una sanguinosa repressione da parte dei militari. É in questa occasione che dopo un comizio presso la Pagoda Shwedagon, divenne il simbolo della ribellione popolare e del movimento democratico popolare. A seguito delle violentissime proteste si conteranno circa 3000 morti.

In vista delle future elezioni promesse dal regime militare, col sistema multipartito, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) fu fondata il 27 settembre 1988 da importanti ex militari democratici e da Aung San Suu Kyi, che fu eletta segretario generale. Nei mesi successivi Suu Kyi tenne diversi comizi in giro per il Paese nonostante i divieti imposti dal regime che il 20 luglio 1989, la confinò agli arresti domiciliari senza averla processata e in seguito le diede la possibilità di lasciare il Paese, ma Aung San Suu Kyi rifiutò la proposta di andarsene. In quel periodo alcuni degli anziani militari democratici che avevano fondato l’LND lasciarono il partito in contrasto con le posizioni radicali di Aung San Suu Kyi, la quale ebbe invece il supporto dei giovani attivisti del partito.

É qui che diventa un simbolo a livello internazionale della resistenza contro l’oppressione e nel 2015 il suo partito trionfa alle elezioni, ma Aung San Suu Kyi non può diventare presidente: a bloccarla è la Costituzione stesa dai militari che impedisce al candidato alla presidenza di avere familiari che siano cittadini stranieri, come i due figli di Aung San Suu Kyi, entrambi maggiorenni. L’attivista è comunque la leader de facto del Myanmar, ricoprendo la carica di Consigliere di Stato, fino al colpo di Stato militare di inizio 2021.

Nel 1990 le fu assegnato il premio Sakharov per la libertà di pensiero e l’anno successivo vinse il premio Nobel per la Pace, che fu ritirato dai suoi figli; investì i soldi del premio in un trust per costituire un sistema sanitario e di istruzione a favore del popolo birmano. Sempre nel 1991, Suu Kyi e il presidente dell’LND Tin Oo, che erano ancora agli arresti domiciliari, furono espulsi dal partito dopo che la giunta aveva minacciato di scioglierlo se i due non fossero stati espulsi.

Gli anni in cui è stata al governo del Myanmar sono stati segnati dalla crisi dei Rohingya. Sull’eroina della lotta per la democrazia sono piovute le critiche internazionali per le atrocità denunciate dalla minoranza di fede musulmana dello Stato Rakhine: secondo un rapporto delle Nazioni Unite, Aung San Suu Kyi non ha usato la propria autorità per prevenire le violenze inflitte ai Rohingya, paragonate a un esempio di “pulizia etnica”.

 

Gianfranco Cannarozzo