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Il Risorgimento italiano organico alla storia d’Europa del XIX secolo

Il Risorgimento italiano, organico alla storia d’Europa del XIX secolo, è la corda tesa del secolo scorso ed è, nelle attuali tensioni, la speranza della civiltà del nuovo millennio

Centocinquanta anni di storia moderna dello Stato italiano unitario, con divisione, faglie, discontinuità è stata un’ebbrezza da Nazione dai primi posti nel mondo. Perché? Intanto, sentiamo Adolfo Omodeo, “gli uomini del nostro Risorgimento, che furono nella massima parte uomini aperti allo spirito della moderna civiltà europea (a renderli tali non poco influirono i lunghi esili) attuarono questo sviluppo armonico dell’indipendenza nazionale con le libere istituzioni nella penisola. E lottarono spesso contro la volontà di restarsi da parte dei popoli che per sé avevan conseguito la libertà e temevano la formazione di nuove nazioni; impiegarono ai propri fini la revisione e il completamento del programma napoleonico propostisi dal fondatore del secondo impero; si sforzarono di render reale una collaborazione e un’armonia dei liberi popoli, cola funzione europea di Mazzini, di Cavour e di Garibaldi”. (A. OMODEO, “L’età del Risorgimento italiano” Napoli 1931).

Il regno proclamato il 17 marzo 1861 era piccola cosa, rispetto alla grande area culturale linguistica italiana, se osserviamo le carte geopolitiche agli inizi del Cinquecento, o ancora a fine Settecento. Nel 1861 l’Italia si presenta senza Roma e il Lazio, ottenute solo nel 1870, ma intanto si perdevano due regioni storiche importanti quali il Nizzardo e la Savoia (questa di lingua provenzale e casa dei Re d’Italia). Un fatto, gli Accordi di Plombiers, tra Napoeone III e Cavour, frutto ancora di reminiscenze di antica, ancestrale memoria, un rito quasi di unione filiazione- familiare, più da regno romano barbarico: “io ti cedo due figlie a te monarca d’Oltralpe a garanzia dell’accordo tra noi due monarchi, di cui l’uno – Parigi ritiene così di poter controllare l’altro”. La Francia ipotecava oltre, i nuovi confini, la nascente Italia. Qui dovremmo aprire il capitolo Accordi commerciali e Tariffa doganale finita solo con la cosiddetta guerra commerciale aperta con Parigi nel 1887 per scrollarsi di dosso quel cappio alla moderna industrializzazione italiana. Ma il fattaccio era compiuto, si erano atterrate le industrie del Sud e Centro Italia e aperta la via dell’emigrazione di massa e l’odio anti italiano nel bacino del Mediterraneo e presso gli Stati confinanti, piccoli Stati là dove erano presenti oltre i confini del regno d’Italia comunità italiane autoctone. Piccola Italia anni sessanta. Infatti, ricordiamo, che il Veneto venne annesso solo nel 1866 perdendo in mare la battaglia presso Lissa, isola dalmata, una vera sventura per l’intera Questione Adriatica. Difatti, già dall’esperienza della prima guerra d’indipendenza 1848-49 complice anche il Papa-re cattolico che si sfilò dalla guerra all’Austria, inizia il dramma degli italiani del regno di Dalmazia sotto vessillo imperiale di Vienna; subimmo sempre di più la snazionalizzazione italiana della Dalmazia. Uno dei maggior rappresentanti italiani era Baiamonti a Spalato, importante esponente dell’autonomismo dalmata, contro gli annessionisti croati. Vienna non voleva perdere l’importante sbocco al mare Adriatico e pur di escludere la nascente Italia cedeva alla Croazia interna, una terra ancora arretrata e immatura politicamente, l’esuberanza verso lo “sbocco al mare” dei croati contro gli italiani autoctoni.
La III guerra d’indipendenza del 1866 vedeva la Dalmazia in prima linea, nei villaggi e nelle cittadine dell’interno dalmata come Tenin, Nona e Obrovazzo, furono innalzate accanto al vessillo austriaco le bandiere croate. Il 20 luglio 1866 giunse la notizia alle italianissime Zara e Spalato della pesante sconfitta navale subita al largo di Lissa dalla flotta italiana comandata dall’ammiraglio Persano. La guerra purtroppo sfavorevole all’Italia anche a Custoza, volgeva al termine grazie alla vittoria prussiana sull’Austria sconfitta a Sadowa: le condizioni del Cancelliere prussiano Bismarck erano di cedere il Veneto e piccola parte del Friuli a Firenze (capitale d’Italia allora) ma non l’Adriatico orientale che rimaneva schiacciato dalla pesante mano austriaca. Preoccupati per l’ostilità austriaca i dalmati italiani dovettero affrontare, subire e pagare le ingiuste accuse di tradimento da parte slava. Fu l’inizio della fine. Oggi le amministrazioni americane succedute a Wilson e con tanta intraprendenza invasiva sulla scena mondiale e peggio europea, cosa direbbero del genocidio contro un popolo autoctono, gli italiani di Dalmazia, vittime di chiusura delle scuole, attività commerciali artigianali, soprusi pestaggi e flussi emigratori di italiani e immigratori di slavi dall’aree interne dell’Impero austro-ungarico? Niente! Imporrebbero un Global Act o Global Compact… Una barbarie ripudiare un popolo, oggi si deve dare l’idea chiara ed efficace del dramma vissuto dai giuliano dalmati a nome di tutti gli italiani ed europei. Oggi quella cultura latino, veneta e dalmatica (la lingua sparita agli inizi del Novecento, parlata sull’isola di Veglia ancora per dare testimonianza del genocidio culturale prima, e poi dell’infoibamento dall’8 settembre 1943-47 e fin oltre…) una volta attaccato l’elemento garante, l’italiano, è lì relegata come i nativi indiani d’America nelle riserve. Oggi, grazie alle tecnologie della Nazione madre italiana che ha saputo modernizzarsi, nonostante le dure prove (ancora saldamente nei primi posti nel mondo… a volte cedono i vicini), la barbarie degli austriaci, oggi, non si sarebbe potuta operare? È un po’ come se il mezzo di trasporto non è più a trazione animale, la carretta per trasportare un ferito, oggi abbiamo l’ambulanza, con veloce motore a scoppio e accessoriata di tutto punto, altro che bendaggio e stoffe da far stringere tra i denti al malato per resistere al dolore per un ricovero di urgenza in ospedale. Oggi quella cultura ripetiamo latina, veneta italiana dalmatica si sarebbe salvata in quelle terre adriatiche orientali? Si, lottando per l’identità, la sovranità contro Vienna. È un appunto che va fatto a tutte le istituzioni italiane, urge subito un’iniezione salvavita, in un mondo attuale di fatto detto globalizzato. La società civile moderna e contemporanea è figlia delle sue opere – come si disse di Napoleone, il più grande dei suoi riformatori -; e quindi della volontà generale, espressa da una pluralità di individui, liberi ma sempre pronti a ricomporre un patto italiano per un solo “io comune”. Ecco la società moderna e contemporanea, nata dalle rivoluzioni e dalle restaurazioni, che in Italia più che altrove, assume rilievi di un “plebiscito quotidiano” formato secondo il motto di Mazzini, da quotidiani diritti e doveri. Escludendo uno dei due termini il gioco democratico delle libertà non funziona. Così è finito il mondo sovietico, così sta sgretolandosi il mondo Atlantico. La libertà è di casa in Italia, nonostante tutto è qui il “principio attivo”, se vediamo tutto il cammino della civilizzazione dell’umanità. Libertà è parola evocativa di un patto comune da stringere, già nell’antica Roma repubblicana; libertà è coscienza alta del significato dei diritti dell’individuo esercitati nella moltitudine della nazione o del popolo, dove ognuno contribuisce come individuo alla ricchezza e bellezza interiore e collettiva. L’universalità dell’idea di libertà, che è politica, toglie subito da sé il peccato del mondo: la stupida libertà del consumatore anonimo, nella massa amorfa, surrogata dalla falsa volontà maggioritaria del parlamentarismo, o del collegio elettorale, che sono sempre una minoranza della minoranza, comunque vada, anche in Italia dove l’affluenza alle urne è sempre stata altissima, figuriamoci nei paesi anglosassoni che si arrogano, anche, il titolo di esportatori di democrazia nel mondo, anzi, scusate, nel globo, detto alla loro maniera global – lista e non mondiale. Scusate il diversivo gioco futurista…

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