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Alessandro Bertirotti analizza alcune cause del suicidio giovanile

Quando un giovanissimo dice … addio

In merito al fatto doloroso avvenuto a Mirandola per un “quattro” al compito in classe, che ha portato una studentessa dodicenne ad uccidersi –  e non è un caso isolato – si riporta qui di seguito un commento del  Prof. ALESSANDRO BERTIROTTI 

È tutta questione di… miseria. Qualcosa dovremmo pur chiederci, di fronte a notizie come questa. Mi sembra ovvio che non stiano funzionando almeno due cose, in questa nostra società italiana: scuola e famiglia.

Rendiamoci anche conto che queste due istituzioni sociali e culturali sono portatrici, a quest’età specialmente (anche se lo rimangono a lungo oltre i dodici anni), di quei valori e punti di riferimento con i quali i nostri giovani crescono. Nessuno di noi può fare a meno dei consigli, regole e percorsi proposti da una famiglia, anche quando questa sia mutilata, monogenitoriale, oppure in apparenza perfettamente integrata nell’ipocrisia italiana. Non parliamo poi della scuola, dove oggi, purtroppo, il livello di inutile burocratizzazione non agevola certamente gli insegnanti nei rapporti con gli studenti. Vi sono ancora insegnanti che pretendono studenti come copie di quello che ora sono loro, senza ricordarsi minimamente di come loro stessi erano e quanto siano cambiati, e molto, col passare degli anni.

Insomma, quando una ragazzina compie un gesto di questo tipo, annunciandolo con l’invio di un messaggio preciso nella chat delle amiche, e quindi premeditato, significa che il peso della responsabilità di fronte ad un brutto voto, tanto a scuola quanto in famiglia, è insopportabile.

Senza una relazione di amore ingiustificato, semplicemente gratuito, non potremo creare nuove generazioni in grado di tollerare le frustrazioni. Non è sbagliato un quattro, come non lo è un otto. Sono sbagliate le motivazioni che portano a questi due voti, le giustificazioni che forniamo sulla loro utilità pedagogica. È importante il significato dei gesti con i quali dovremmo accogliere tanto l’otto quanto il quattro. E devono essere gesti che rendono questi voti una semplice occasione di sviluppo, senza far credere che il senso della vita stia in questi voti.

Se avessi dovuto lasciarmi condizionare da tutti i quattro di italiano che ho preso io in tutti gli anni delle superiori (ricordo di aver preso qualche sei, massimo tre, in tutto…), a quest’ora sarei incapace di intendere e di volere, a detta del mio bravo professore di italiano. Ma quando tornavo a casa, i miei genitori mi dicevano: “Andrà meglio la prossima volta. Cerca di capire, dalle correzioni, perché non è andato bene e vedrai che migliorerai”. Alla maturità, tutti i colleghi che prendevano otto, presero 4 ed io il loro otto.

Non fidiamoci del tutto degli insegnanti, come dei genitori, a meno che loro stessi non sappiano ammettere di fronte ai giovani che non sono perfetti, mai.