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Tim Burton e il rapporto con la Disney

In un’intervista con l’Independent, Tim Burton, uno dei più grandi registi americani, è tornato a riflettere sul suo rapporto con la Disney.

Tim Burton, dopo aver iniziato a lavorare per la major, decise di abbandonare l’azienda dopo gli attriti avuti durante la realizzazione del corto del 1984, Frankenweenie.

Col passare del tempo, il cammino di Tim Burton e della Disney si sarebbero nuovamente incontrati a cominciare da Nightmare Before Christmas ed Ed Wood, entrambi prodotti dalla major tramite l’etichetta Touchstone (anni dopo, Nightmare Before Christmas sarebbe stato poi accolto dal brand principale Disney).

Durante la chiacchierata, il filmmaker spiega che quello con la Disney è sempre stato un rapporto non semplice: Avrei dovuto capire capito fin dall’inizio che avrei avuto un rapporto difficile con Disney. C’erano già stati dei segnali iniziali. Direi che il contesto di quello studio sia come Burbank, la mia città natale, solo peggio… è veramente come una famiglia. Posso osservare il passato e riconoscere i numerosi, numerosi aspetti positivi di lavorare lì e tutte le opportunità che ho avuto grazie a questa esperienza. Posso riconoscere e ammettere in modo profondo e in modo molto positivo alcuni lati che mi hanno aiutato a diventare ciò che sono ora. Allo stesso modo, al lato opposto, posso identificare anche i lati negativi, quelli che distruggono l’anima. Come nella vita, i due lati sono difficili da separare.”

Timothy Walter Burton, detto Tim, è un regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, nonché scrittore, animatore e disegnatore statunitense, noto per il suo cinema dalle ambientazioni fiabesche e gotiche, per altri versi noto per le sue tematiche dell’emarginazione e della solitudine.

I lavori con la Disney e tutto ciò che ha fatto lontano da loro.

Tra i collaboratori di Tim Burton bisogna prima di tutto riconoscere quella con Danny Elfman che ha composto musica eccezionale per quasi tutti i suoi film e quella con l’attore statunitense Johnny Deep, nonché quella con l’attrice britannica Helena Bonham Carter soprattutto nel periodo in cui sono stati compagni di vita (fino al 2014).

Tim Burton vince grazie al suo talento una borsa di studio della Disney che gli permette di studiare al California Institute of Arts. Una scuola estremamente costosa che, spiega Tim Burton all’Indipendent, non avrebbe mai e poi mai potuto frequentare senza la borsa di studio offerta dalla Disney.

Nel 1979 ne diventa ufficialmente uno degli animatori e prende parte alla realizzazione del lungometraggio Red e Toby Nemiciamici del 1981. Burton, però, non è soddisfatto né contento del lavoro che svolge alla Disney; come da lui dichiarato la pellicola era ben lontana dalla sua idea creativa.

Nel 1984, Burton ottiene dalla Disney la possibilità di girare un nuovo corto, di cui idea il soggetto: si tratta di Frankenweenie (FrankenFrankenstein e weeniesfigato), nel quale il regista californiano riprende il mito dell’inventore Frankensteinper l’occasione trasformato in un bambino che ricostruisce il suo cagnolino Sparky, morto dopo un incidente, con cuciture e marchingegni elettronici. Il film, in bianco e nero, ottiene scarso successo per effetto della censura opposta dalla stessa Disney, alla visione del film da parte di un pubblico di età inferiore ai quattordici anni; circostanza, quest’ultima, che determina la rottura, sempre provvisoria (come vedremo anche dopo), tra il cineasta californiano e la casa di produzione.

Tim Burton è destinato a ben altra gloria che si allontana dalle opere che aveva fatto in casa Disney:

Beetlejuice – Spiritello porcello (Beetlejuice)

Burton, a tre anni dal suo primo fortunato lungometraggio, accetta di dirigere un nuovo importante progetto della Warner con la sceneggiatura di Michael McDownell: Beetlejuice – Spiritello porcello (Beetlejuice), una commedia fantasy/horror che narra la vicenda di una giovane coppia di novelli sposi, i quali, morti da poco, continuano a vivere da fantasmi nella loro casa fin quando una famiglia non arriva a invaderne la tranquillità.

Beetlejuice non ti dava i Beetles ma le loro budella magicamente trasformate e recapitate a casa in succo (perdonate la mia Pop-Bat-tuta).

Con una giovanissima Winona Rider nei panni della ragazzina goth Lydia e Micheal Keaton in quelli del volgare demoniaco esorcista di umani “Betelgeuse”, Beetlejuice (“succo di scarafaggio”), grazie agli effetti speciali realizzati in stop motion, si dimostra un eccellente successo di pubblico e vince un Oscar nella categoria miglior trucco. Come nel caso di Ghostbusters (vedi il mio articolo al riguardo) si chiede poi al regista anche una serie animata.

L’abilità di Burton nel realizzare grandi successi con basso budget fa sì che la Warner gli affidi pochi giorni dopo l’uscita di Beetlejuice l’ambizioso progetto della trasposizione cinematografica di Batman, celebre fumetto creato da Bob Kane del quale la casa di produzione deteneva i diritti fin dal 1979. Pur restio a realizzare kolossal commerciali, Burton decide di accettare l’incarico: l’intento è quello di guadagnarsi un posto di prestigio e avere perciò maggior libertà sui suoi progetti futuri. Burton è deciso ad affidare il ruolo principale a Micheal Keaton, già suo collaboratore in Beetlejuice, nonostante l’attore non possieda un fisico particolarmente adatto al ruolo, sia privo di esperienza con i film d’azione e debba la sua popolarità principalmente a ruoli di tipo comico.

La Warner mette mano pesantemente al progetto cambiando spesso la sceneggiatura e imponendo le proprie scelte più “fluide” al regista il quale, nonostante la vicinanza di Elfman, l’appoggio artistico degli attori Keaton e Jack Nicholson e l’amicizia con lo scenografo Anton Furst, accoglie l’immenso e immediato successo di Batman – gradito anche agli appassionati del fumetto – con stanchezza e depressione, dovute anche e soprattutto al suicidio di Furst che, proprio con Batman, aveva ricevuto il premio Oscar alla miglior scenografia.

Entrambi i lavori rappresentano le origini vere e proprie del talento di Tim Burton, da una parte la rappresentazione di morti che si divertono con (e più) dei vivi alle pendici di una colonna sonora senza tempo e fortemente ritmata in Beetlejuice e dall’altro il talentuoso inizio di una collaborazione con Danny Elfman degli Oingo Bongo (gruppo geniale simili nel loro Rock ai B52 e ai Talking Heads).

Gli anni novanta ovvero Edward Mani di Forbice e Batman il ritorno

Stanco dei compromessi con le major cinematografiche, Burton fonda con Denise Di Novi una propria casa di produzione, la Tim Burton Productions, con la quale, grazie al sostegno economico della Fox, nel 1990 produce il suo primo lungometraggio di cui è lui stesso soggettista, Edward Mani di Forbice (Edward ScissorHands). Mentre dirige il film, Burton contatta la sceneggiatrice Caroline Thompson e la paga di sua tasca così da impedire eventuali interferenze nel lavoro. La storia è ispirata da vecchi bozzetti che Burton scarabocchia sin dal liceo, come nei suoi lavori moderni come Mercoledì è la sua visione della realtà che trapela nella pellicola, l’essere un disadattato che non ha nulla a che fare con la realtà che lo circonda. Al fianco di Winona Ryder, Burton sceglie, nel ruolo di protagonista (la creatura gentile con le forbici al posto delle mani), Johnny Deep, allora quasi esordiente e inquieto giovane attore, costretto nella veste di idolo per le teenager per i suoi ruoli nelle serie TV. Colpito dalla sua espressività, Burton lo antepone a ben più noti attori quali Tom Cruise: la collaborazione tra i due, considerati l’uno l’alter ego dell’altro, dà vita a un forte sodalizio. Vincent Price, da sempre idolatrato da un Tim Burton ora non più giovane, torna nell’opera di Burton nella parte dell’inventore di Edward in quella che sarà la sua ultima partecipazione a un film prima della sua morte.

In seguito la Warner Bros, visto il successo di Batman, propone un sequel a Tim Burton, il quale chiede però il controllo totale del progetto, con tanto di produzione: un progetto che diverrà Batman Returns.

Accanto a Micheal Keaton, nuovamente nel costume da uomo pipistrello, Burton assembla un cast composto da Danny De Vito (Pinguino), Michelle Pfeiffer (Catwoman) e Christopher Walken. Realizzato nei teatri nella Warner proprio a Burbank, nonostante la ricchezza di un mondo spiccatamente burtoniano, il film, data la sua poca inerenza al fumetto di riferimento, scene troppo cupe e una protagonista troppo sensuale e aggressiva, ottiene un buon successo, ma non pari a quello ottenuto dal capitolo precedente (il mondo allora non era pronto a una protagonista che si suicida a fine pellicola con un bacio elettrico).

Questi due lavori, entrambi stupendi nel loro genere, sono il frutto di un Tim Burton forse ancora acerbo di sicuro sarebbero stati bocciati dalla Disney.

Come far realizzare un lungometraggio animato di successo se sei Tim Burton

In contemporanea con Batman – Il ritorno, Tim Burton torna a occuparsi di un vecchio progetto del 1982, Nightmare before Christmas, concepito negli studi Disney e allora non approvato. Impegnato in Batman Returns, Burton affida la sceneggiatura dell’opera da lui ideata e prodotta a Caroline Thompson e Michael McDowell, la musica a Danny Elfman e la regia all’amico Henry Selick. La Disney accetta di produrlo: il film, un lungometraggio in stop motion popolato da creature macabre e grottesche come lo scheletro Jack, esce in America nel 1993 e ottiene un enorme successo.

Mars Attacks! e Il mistero di Sleepy Hollow (decisamente poco Disney entrambi)

In Mars Attacks uscito nel 1996, Burton rinnova la collaborazione con Elfman. Il film prende spunto dalle didascalie di una popolare raccolta di figurine di fantascienza. Nonostante il cast, composto da Jack Nicholson, Glenn Close e una giovanissima Natalie Portman, il film non viene particolarmente apprezzato né dalla critica né dal pubblico: incentrato su una minaccia aliena che sta per abbattersi sulla Terra, l’opera cela un parodistico e ironico attacco alla politica e alla società americane, bersagliate finemente dal regista. Figuratevi se un’ottima parodia degli Stati Uniti sarebbe mai passata al vaglio di una compagnia che rappresenta l’immagine “buona e buonista” di uno stato che esporta tutt’altro nel mondo.

Il mistero di Sleepy Hollow (Sleepy Hollow),  è invece basato sul famoso romanzo di Washington Irving, prediletto da Burton ai tempi delle elementari e tuttora annoverato tra le pagine più significative della letteratura americana. La parte del protagonista è affidata a Johnny Deep che interpreta il personaggio di Ichabod Crane, qui un detective del soprannaturale anziché un maestro elementare come nel racconto originale; la co-protagonista è invece Christina Ricci. Il film, uscito nel 1999, è il più propriamente gotico di Burton e riceve svariati premi e nomination, nonché un eccellente riscontro di pubblico e critica.

Il pianeta delle scimmie e Big Fish (2001 e 2002)

Nel 2000 la Fox propone a Burton una nuova versione del kolossal del 1968 di Franklin Schaffner, Il pianeta delle Scimmie (Planet of the Apes). Uscito nel 2001, il film riceve critiche discordanti e viene giudicato nettamente inferiore all’originale di cui doveva essere solo un remake, cosa che in sostanza Burton rifiuta di fare. Tuttavia il film, un’apocalittica storia su come, un giorno, le scimmie avrebbero governato la Terra e l’uomo sarebbe stato loro sottomesso, per quanto divergente dall’ormai riconoscibilissimo stile di Burton, ottiene un ottimo successo commerciale. Sul set il regista conosce l’attrice britannica Helena Bonham Carter, interprete della scimmia Ari, che diverrà sua compagna di vita e collaboratrice nei suoi film successivi.

Nel 2002, la Columbia affida a Burton un progetto sceneggiato da John August e ispirato al particolarissimo romanzo di Daniel Wallace Big Fish: A Novel of Mythic Proportions. Il film, era stato inizialmente affidato a Steven Spielberg, che però aveva rifiutato per ulteriori impegni. La storia è quella di Edward Bloom (interpretato nella sua veste giovane da Ewan McGregor e in quella anziana da Albert Finney), famoso per i racconti delle sue straordinarie avventure di vita e che, in punto di morte, riallaccia i rapporti con suo figlio che sta per diventare padre a sua volta.

Big Fish è una delle mie pellicole preferite del regista (se non nella parte in cui c’è un’introduzione forzosa di Helena Bonham Carter che appare come per dire: eccomi sono qui, la nuova compagna di Tim Burton), una pellicola che scalda il cuore e accende la mente, forse sarebbe stata accettata dalla Disney ma il genio creativo di Tim Burton non meritava di essere “Limitato” nelle parti oscure di tanti racconti e nell’amarezza che si cela nella fine di una vita eccezionale, come solo quella del proprio padre può essere.

La fabbrica di cioccolato e La sposa cadavere

Nel 1999, la Warner Bros. aveva comprato i diritti del libro per bambini La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl. Dopo l’avvicendarsi di vari registi, nel 2003 il progetto arriva nelle mani di Burton. Il libro era già stato trasposto al cinema da Mel Stuart nel 1971 ma, nuovamente, quello di Burton non si limita a essere un remake: la storia, più cupa e dal ritmo più sostenuto, diverge dal libro stesso soprattutto nell’idea di dare al protagonista Willy Wonka un passato attraverso una serie di flashback. Ancora una volta il protagonista è interpretato da Johnny Deep.

In contemporanea a La fabbrica di cioccolato Burton realizza La sposa Cadavere (Corpse Bride), lungometraggio in stop motion da lui ideato (basandosi su una leggenda ebreo/russa). La storia, che rispecchia fedelmente lo stile e le atmosfere di Burton, con le voci di Johnny Deep e Helena Bonham Carter per i due protagonisti, è un altalenante scambio tra luci e ombre, tra il tetro mondo dei vivi e quello spassoso dei morti. La sposa cadavere riceve una nomination all’Oscar come miglior lungometraggio di animazione.

La sposa cadavere con le sue atmosfere tra horror e morti ma vivi rappresenta un poco un filone Joyceiano dell’opera di Burton (con Sweeney Todd qui sotto e Edward ScissorHands sopra); la Disney dal canto suo si era già posta il problema di cancellare dalle sue pagine tutto ciò che potesse dare una certa atmosfera della società anglosassone: sto parlando ovviamente di Taron e La Pentola Magica in cui si è passato dall’idea di dare alla principessa compagna di avventure del protagonista, Ailin (Eilonwy), uno dei troni delle principesse Disney al tentare di cancellare questa pellicola dalla memoria degli appassionati Disney in quanto presentava un fantasy a suo modo pauroso tanto da uscire dai canoni del politically correct dell’azienda americana.

Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street

Nel 2007 la DreamWorks/Warner Bros. produce un’opera che Burton aveva in mente di realizzare da molto tempo: si tratta di Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street basata sul popolare musical di Stephen Sondheim. Per la prima volta, Burton dà vita a un vero e proprio musical, riutilizzando la colonna sonora e le canzoni di Sondheim. Il lavoro viene pluripremiato: Johnny Deep, nel ruolo di Sweeney Todd, diabolico e sanguinario barbiere in cerca di vendetta, riceve una nomination all’Oscar come miglior attore e vince il Golden Globe. Helena Bonham Carter, nel ruolo della folle fornaia Mrs. Lovett, insieme a una nomination al Golden Globe, vince un Evening Standard British Film Award. Il musical riceve inoltre un Oscar per la scenografia ad opera di Dante Ferretti. Inoltre il regista ottiene la sua prima vittoria ai Golden Globe ricevendo il premio per il miglior film commedia o musicale.

Un film su un barbiere assassino alla Disney? Seppur caratterizzato dal pirata sempre ubriaco preferito da mamma Disney (malgrado le scarsissime sceneggiature dal secondo capitolo in poi) questa pellicola non sarebbe stata possibile come produzione della Disney nemmeno se l’inferno prima avesse gelato, una pellicola con una Helena Bonham Carter impegnata ancora a fare torte di carne (le classiche meat-pie angloamericane) con i malcapitati uccisi invece di fare la maestra “Venite tutti nella mia scuola per strambi” di Miss Peregrine.

foto Medium Alamy                                            ©Francesco Spuntarelli