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Una conversazione con Nino La Rocca sulla nobile arte e sulla fabbrica dei sogni

LA VITA DA FILM DELL’ETERNO RAGAZZO DELLA PORTA ACCANTO

A colloquio con MASSIMILIANO SERRIELLO

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L’eterno ragazzo della porta accanto si chiama NINO LA ROCCA. (nella foto).

Ed è nato sessantun anni or sono a Port-Étienne, nella Repubblica Islamica della Mauritania, con il nome di Cheid Tijani Sidibe.  Alla figura spesso latitante del padre africano, paracadutista dell’esercito coloniale francese, ha sopperito l’attaccamento protettivo dell’amatissima mamma siciliana. Emigrata da Resuttano, in provincia di Caltanissetta, nella culla della civiltà. A un tiro di schioppo dalla regione del Sahara occidentale.

L’università della strada, con il deserto a due passi, è stata prodiga d’insegnamenti preziosi: i problemi del benessere appaiono questioni di lana caprina dinanzi alla lotta dell’esistenza. Per unire il pranzo con la cena, per restare fedele ai vincoli di sangue e di suolo, per riscattarsi. Conservando integra la cordiale bonomia insieme all’assoluta schiettezza. Gli incontri conviviali, i fiotti di champagne, la conquista della prosperità finanziaria, l’altalena degli stati d’animo, il voltafaccia del destino propizio avrebbero potuto confondere le idee a chiunque. Cheid Tijani Sidibe naturalizzato Nino La Rocca stempera, bensì, nella fragranza dell’ironia la punta di spina del dolore. Non c’è spazio per il rimpianto. All’immagine stereotipata dell’ennesimo pugile suonato che si piange addosso, una volta sceso dal piedistallo, senza riuscire a mettere due parole in croce, l’ex boxeur replica con l’irrinunciabile lucidità mentale di chi, nonostante i tiri mancini del crudele vento a sfavore, non rinuncia a esprimere il suo pensiero. Chiaro e tondo. Passare dagli osanna ai crucifige rientra d’altronde nei rischi del mestiere. La luce dei riflettori riserva brutti scherzi quando il diavolo tentatore del bel vivere prevale sull’angelo salvifico del buon vivere. L’antidoto all’impasse di riscivolare nell’anonimato, dopo aver bruciato le tappe sul ring con l’energico slancio del lottatore in cerca di riscatto morale, risiede nei colpi di coda degli spiriti coriacei. In grado di rinascere dalle proprie ceneri come un’Araba Fenice. Spiazzando i brontoloni, i cinici, gli scettici, gli scaltriti. O i presunti tali. Che danno ogni cosa per scontata.

Il primo match a Parigi sembrava, infatti, una mera formalità. L’antagonista Jean-Paul Coppyn, bellicoso ed esperto, era pronto a stendere quel ragazzino dal fisico ancora esile. Chiamato a sostituire lo sfidante. Infortunatosi all’ultimo minuto. Fu, viceversa, contro le attese, l’avventizio La Rocca a mandare ko l’irruente avversario. Al primo round. Con i favori del pronostico rispediti subito al mittente.

Ai tempi Nino sbarcava il lunario guadagnandosi cinque franchi al giorno. Agli ordini del manager Roger Bensaid. Avvezzo a esporre gli acerbi atleti di colore ai feroci cazzotti dei picchiatori professionisti. Tipo l’impietoso tedesco René Weller. Che sul quadrato si sbarazzò facilmente dell’ingenuo zairese di turno, trasformato in carne da macello. Saldato da par suo il debito di riconoscenza, vincendo pure altre due gare nella terra natìa, Nino incontra a Montecarlo l’influente promoter Rodolfo Sabbatini (nella foto). Inserito parecchi lustri più avanti nell’International Boxing Hall of Fame. L’ex giornalista romano, con la battuta sempre in canna e gli agganci per lanciare nuovi talenti, gli dà fiducia. Nel Bel Paese, a Bogliasco, all’inizio, la solitudine piazza fendenti micidiali. Temprato dalle privazioni, intento a balzare di scatto, rovesciando verdetti frettolosi, invertendo rotte sventurate, Nino stenta però a tenere tutto dentro: ha bisogno di comunicare; gli occhi vivaci s’incrociano con l’ombrosità degli estranei che non battono ciglio di fronte al sorriso aperto. Alieno all’algida alzata di spalla dei cronici disincantati. Ci tiene al prossimo: catturare la balena bianca della fortuna per lui significa, oltre a chiudere il cerchio in virtù dei robusti sacrifici compiuti, uscire dal malinconico tunnel dell’introversione. 

Ed equivale dunque a una vittoria strepitosa tramutare l’indifferenza dei semplici conoscenti nell’empatica complicità degli amici per la pelle. La fortuna, citando Mario Innocenti nel libro storico I cannoni di settembre, non regala nulla; al limite presta. Nondimeno l’estroversione, conquistata palmo a palmo, la brama dell’iperbole, l’istrionico stile di combattimento, gli uppercuts vibrati all’improvviso, le piroette danzanti sulla falsariga di Muhammad Ali, ritenute inutili spacconate dai soliti detrattori, sono ormai un fulgido ed evidente biglietto da visita. A dispetto di qualsiasi prestito. Per pagare il conto comunque c’è tempo.

I severi ordini impartiti dal maestro di pugni e di vita Rocco Agostino, mentore altresì dei campioni del mondo Bruno Arcari, Massimiliano Duran, Patrizio Oliva e Mauro Galvano, sortiscono gli effetti desiderati. Il roccioso ed eclettico pugile americano Jimmy Heair, impiegato con altera disinvoltura nella categoria sia dei leggeri sia degli welter, stramazza al tappeto in un fiat. Il pubblico presente a Milano, nel Palazzone di San Siro, resta di stucco. Nella Città Eterna Nino trova poi l’habitat ideale. L’intero Palazzetto dello Sport di Roma palpita per i montanti assestati con giustezza, per la velocità di gambe e di braccia, per l’umanità che non traligna mai in arroganza.

Nino in canottiera, sfoggiando la tenuta muscolare, forgiata dal duro training impostogli da Rocco Agostino, balla negli studi Rai con Raffaella Carrà, sulle note della canzone Amore, Amore; inchioda l’attenzione dell’appassionato conduttore televisivo Gianni Minà, che l’ospita nella trasmissione Blitz, e fa breccia nel cuore del presidente Sandro Pertini (con lui nella foto). Ottenendo la cittadinanza italiana ed ergo il diritto a rappresentare lo Stivale in giro per il mondo. Sino al leggendario Madison Square Garden. Alcuni cronisti, ostili ai pronostici annunciati dall’atleta con l’accattivante parlantina e la buona stella sugli scudi, mugugnano; i tifosi, attratti dalla coerenza di far seguire i fatti alle parole, l’acclamano; Nino, deciso ad assaggiare i frutti più saporiti dell’albero dei desideri, insegue strenuamente la cintura mondiale dei pesi welter.

La Dea bendata chiede tuttavia il conto. Le parti si rovesciano. Il difficoltoso test con Bobby Joe Young dell’Hoio, superato con la proverbiale destrezza, trasmette l’errata convinzione che gli hook sinistri dei rivali costituiscano un ostacolo irrisorio per il nostro affezionatissimo. Che tocca il cielo con un dito. E precipita a terra. Stanco dei continui rinvii, Nino giunge svuotato al momento della verità. Per tre round contrasta con l’idonea tenacia l’inclemente texano Don Curry (nella foto): lo costringe ad arretrare; mantiene vibrante il ritmo della sfida. A partire dal quarto round il detentore del titolo mondiale, soprannominato non a caso Cobra, inizia a mordere. La superiore resistenza, che gli ha permesso in precedenza di sconfiggere in quindici riprese il coreano Jun-Suk Hwang, fa fondere il motore di Nino. Il velenoso, letale, morso del Cobra permette ai denigratori di dar fiato alle trombe.

Gli epiteti si sprecano. L’autostima di La Rocca vacilla. L’incubo del ridimensionamento si profila inesorabile all’orizzonte. Sulle pagine del celebre quotidiano la Repubblica, l’erudita scrittrice capitolina Emanuela Audisio, l’unica donna ad aver vinto il Premio Gianni Brera, alla terza edizione del Festival dello Sport di Parma, definisce la marea di consensi ottenuti ex ante da Nino una fabbrica d’illusioni. 

L’annus mirabilis 1989 smentisce il frettoloso de profundis proferito negli orribili anni 1984 e 1985: Nino La Rocca, ritrovata la fiducia persa ugualmente nel versante privato, coi nervi scoperti oggetto di maramaldi bersagli, interrompe il lancio al piccione, cementato dal fiele dell’inchiostro, ed esce, al contempo, dal dimenticatoio. Rinfrescando la memoria agli ingrati sportivi grazie al trionfo conseguito a Vasto, in Abruzzo, ai danni del welter britannico Kirkland Laing (nella foto). Detentore dell’ambìto titolo europeo. Poco importa se da lì a poco verrà detronizzato, se dovrà affrontare il diniego della gente; se a costringerlo alle corde sarà la Federazione transalpina, negandogli nel 1995 l’attesa rentrée con Pascal Lustemberg; se certi saputoni storcono tutt’oggi la bocca, ritenendolo privo della potenza necessaria a fare il giro di boa.

A Nino le doti del fuoriclasse, passato sotto le forche caudine della critica e risalito a galla sulla scorta della forza di reagire alle avversità disseminate nelle fughe per la vittoria, appartengono di diritto. Per nascita. Fanno parte integrante del dna. Il rovescio della medaglia, l’incerta lotta per la ribalta, l’instabile linea di galleggiamento, l’assenza ex post degli adeguati spazi di confronto, concessi in itinere ed ex ante, il ricettacolo di pettegolezzi non ne hanno intaccato l’ottimismo. Né il fermo desiderio di tornare in pista. Non per furoreggiare invano e cucirsi sul petto i galloni del trionfante redivivo. Ma per lasciare nuovamente il segno. Gli alti e i bassi, le cadute e le rinascite, l’introversione e l’estroversione, la povertà e la ricchezza, la grinta e la rassegnazione, l’altare e la polvere, le impennate e le frenate, i profili di Venere e l’isolamento, l’ascendente esercitato sulla cresta dell’onda e la corrente di antipatia patita in seguito, l’orlo del baratro e l’inesauribile pungolo motivazionale, allergico ai luoghi comuni, passano attraverso la spontaneità di tratto. Materiale da film. 

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1). D /  Alle doti del buon incassatore anteponi più la capacità di affondare i colpi o quella di schivarli?
R / Secondo me i colpi incassati alla lunga tramortiscono. Si rischia col tempo di diventare suonati. Lo scopo consiste nel darle. Non nel prenderle. Andare ko può diventare una brutta abitudine. Detto questo, nella boxe come nella vita, saper schivare i colpi è fondamentale.

2). D / Le privazioni fungono effettivamente da stimolo per emergere o costituiscono una iattura?
R / Il ricordo delle privazioni e dei sacrifici che ho dovuto affrontare è ancora vivo dentro di me. Certamente il desiderio di lasciarseli alle spalle aiuta molto agli inizi della carriera. Ma è la vocazione ad avere sul serio voce in capitolo per affermare appieno la propria personalità nell’ambito di uno sport duro. Ma anche nobile.

3). D / La boxe fu definita appunto nel lontano XVIII secolo dal pugile inglese James Figg la nobile arte della difesa. Chi è stato il modello che ti ha spinto ad alimentare la vocazione a darle, anziché a prenderle, facendo valere diritti altrimenti ignorati?  
R / Senza dubbio Muhammad Ali (nella foto con La Rocca). È stato bellissimo incontrarlo: ha rivoluzionato il pugilato imponendo la figura di un boxeur che diceva quello pensava e faceva quello che diceva. Gli invidiosi lo accusavano di essere un gradasso, di parlare a ruota libera. A vanvera. Ma lui ha mandato a tappeto le malelingue. Rifiutando l’arruolamento nell’esercito americano. Sostenne che nessun vietcong lo aveva chiamato negro, né l’aveva privato della nazionalità. L’incontro con Foreman, allo Stade di Kinshasa nello Zaire, è l’emblema di Ali.

4). D / Che nel match, rimasto alla storia come The Rumble in The Jungle (La rissa nella giungla), dopo le accuse dei secondi di George Foreman, che lo tacciarono di viltà per la tattica di poggiare la schiena sulle corde per chiudere la guardia, passò all’attacco mandando a gambe all’aria l’avversario. Favorito alla vigilia. Essere scomodi in Italia vuol dire sprofondare nell’oblio?
R / Negli Stati Uniti, bene o male, c’è la democrazia. Si possono dire le cose come stanno. Fuori dai denti. In Italia certe verità non devono trapelare. I gufi ti aspettano al varco. La federazione italiana mi ha chiuso le porte in faccia. Impedendomi di prendere le rivincite che meritavo. Nell’ambiente, inoltre, le voci girano. Le federazioni tra loro non si mozzicano: anzi si sostengono a vicenda. Scendere nell’agone politico è un inferno. Un conto sono gli errori in buona fede; un altro paio di maniche è tagliare le gambe agli oppositori. L’opposizione in democrazia esiste. Ed è per questo motivo che, senza cadere nel vittimismo, sono deluso dall’assenza di democrazia. La boxe è bella tosta. Ma insegna a rispettare le regole, ad affrontare le insidie, a buttare il cuore oltre l’ostacolo e, come hai sottolineato tu, a far valere i propri diritti. Incluso quello di opporsi alle cose considerate storte.

5). D / Tra le cose toste ma giuste, per coronare l’ambizione di distinguersi, c’è la gavetta. La tua ha riservato molte sorprese?   
R / Quando, da ragazzino, combattei contro Jean-Paul Coppyn non sapevo nemmeno chi fosse. Andai allo sbaraglio. Con la forza dell’incoscienza, se non della disperazione. Senza pensare a niente.

6). D / Tom Cruise (nella foto), d’altra parte, nel ruolo del pilota Maverick in “Top Gun“, risponde così alla sua istruttrice: «Lassù non hai il tempo di pensare, se pensi sei morto…». Traendo partito dal titolo di un altro celebre film, incentrato sul pugilato, ti chiedo: nonostante tutti gli intralci, lassù qualcuno ti ama?
R / La mia fede in Dio non ha mai vacillato. Mi ha accompagnato sempre. Nei momenti lieti. E nelle difficoltà. Quando la fortuna mi ha sorriso. E quando mi sono venuti a mancare stimoli ed energie. Dio dà la forza per rialzarsi. Io non nutro astio nei confronti delle persone che mi hanno messo i bastoni tra le ruote. Il perdono rende liberi. Però non mi scordo di quello che è successo. Non credo alle chiacchiere della gente. Credo in Dio. Vedi questo segno che ho sulla fronte? Lo sai cos’è, no?!

7). D / È il bernoccolo della preghiera.
R / Bravo. Ebbene io abbasso la testa dinanzi a Dio. Battendo la fronte sul tappeto della preghiera. Sono fiero di questo callo, detto zebība. È il segno della devozione dei mussulmani. I politici, i dirigenti, la gente che sta nelle stanze dei bottoni, quelli che fanno il bello e il cattivo tempo, appioppano colpi sotto la cintura. Dio non dà colpi bassi. I sacrifici che ho compiuto da giovane, durante la gavetta, dormendo per terra, o a turno sul letto, allenandomi alle cinque del mattino, per acquisire la prontezza di riflessi e migliorare il gioco di gambe, sono stati largamente ripagati.

8). D / Il punto, secondo Anna Maria Pierangeli (nella foto con Paul Newman) nell’omonimo cult movie, non è solo essere amati lassù ma anche quaggiù.  Ed è quaggiù che ti sei confrontato con mentori e tutori vari. Che tipo era Rodolfo Sabbatini?
R / Non certo un santo. Per carità! Ma un bel tipo, a modo suo. Furbo. Capace. Risoluto. Con la sua parlata romanesca rimarcava discorsi già categorici. Grazie a lui, inoltre, ho cominciato ad apprezzare il senso dell’umorismo tipico dei romani. L’ironia mi faceva uscire dal torpore della tristezza. Mi metteva allegria. Col tempo, trasferendomi a Roma, ho cominciato ad amare le battute di spirito, il sarcasmo, gli sfottò, la complicità degli abitanti dell’Urbe. Mi fanno sentire a casa.

9). D / Tuo zio Mariano che tipo di caposcuola è stato?
R / Era il fratello di mia madre. Mi usava come sparring partner. Lo raggiunsi in Francia dove era immigrato quando aveva appena tredici anni. In quel caso non mi sentivo a casa: ne sentivo la nostalgia. Le mie radici sono in Africa. È da lì che vengo ed è là che vorrei tornare in vecchiaia. Anche se a Roma la gente non mi fa mancare l’affetto. Zio Mariano mi ha insegnato a lottare. Avvicinandomi al pugilato. Sono arrivato a Montecarlo in treno. Senza pagare il biglietto. Ho dormito in spiaggia. E ho imparato presto a badare a me stesso. Come fece zio Mariano. Non avevamo scelta. Ed è così che viene fuori il carattere.

10). D / A sedici anni, su sprone di Rodolfo Sabbatini, giungi in Italia. A Boscaglio. Ed è Rocco Agostino a farti da mentore e da tutore. Pensava che tu avessi le tasche bucate ed era perciò sempre vigile e solerte.  Si prese cura anche, prima di te, del campione europeo e mondiale WBC dei pesi superleggeri Bruno Arcari (nella foto).  Era un uomo franco di cerimonie?
R / Non lo erano nessuno dei due. Non gli piaceva perdere tempo. Né fare troppi complimenti. Per dire la verità Rocco e soprattutto Bruno i complimenti non li facevano proprio. Bruno era una persona profondamente chiusa. I primi tempi se riuscivo a ottenere un cenno appena abbozzato della testa come risposta al saluto era un miracolo. Ma dietro la sua corazza introversa e scontrosa nascondeva un cuore d’oro. Stiamo parlando di un campione irraggiungibile. Che ha lasciato imbattuto il titolo. Ed è fondamentale avere cuore per arrivare a essere un asso della sua levatura.  Superiore a mio avviso, con tutto il rispetto, anche a Nino Benvenuti. Il cuore di Bruno dentro e fuori dal ring non aveva eguali. È stato il migliore. E mi ha insegnato tantissimo. 

11). D / Nonostante la vostra indole. Diametralmente opposta. A Boscaglio, oltre che con il finto burbero Arcari, stringi amicizia con i calciatori della Sampdoria. Nella metà degli anni 80’ l’allegra ciurma capitanata da Vialli e Roberto Mancini (nella foto) getta le basi per il primo, storico, scudetto. Il loro contagioso piglio espansivo resta un’affinità elettiva?
R / Per certi versi sì. Mi è piaciuto averli come vicini di casa. Erano ragazzi spensierati, come chi sta in vacanza, e al contempo non lesinavano l’impegno. Tanto negli allenamenti quanto nel rettangolo di gioco la domenica. Ricordo Luca Pellegrini, Moreno Mannini, Fausto Pari, Roberto Mancini e, ovviamente, Vialli. Il capobanda. Educato fuori dal campo. Un gladiatore in campo. L’espansività è una benedizione. Negli sport di squadra dà ottimi frutti. I musi lunghi sono dannosi.

12). D / Sei stato un allievo recettivo. Che insegnante sei diventato? 
R / Come atleta non mi è stata concessa la chance di ricaricare le batterie tra un incontro e l’altro. Di staccare la spina. Al contrario di altri colleghi. Come insegnante faccio capire ai miei allievi l’importanza del sacrificio, di governare le tensioni e di vincere lo stress. Le scorie dovute allo stress rovinano tutto. Prima bisogna sottoporsi a un allenamento completo. Per ottimizzare la coordinazione. Avvalendosi di esercizi specifici. Il training implica diversi sforzi. Occuparsi delle condizioni psicofisiche, del livello tecnico-tattico, dei carichi leggeri, medi e pesanti, dell’incremento della potenza richiede competenza ed entusiasmo. Vorrei forgiare un campione.

13). D / La regista e sceneggiatrice Giovanna D’Urso (nella foto) ha in mente un ruolo pensato su misura per te nell’imminente serie tv “Il ragazzo senza identità“. Mordi il freno all’idea?  
R / E certo! Mi piacciono le sfide. Tra l’altro Giovanna è una donna dolcissima ed energica. Al di là del ruolo pensato su misura per me, le auguro di raggiungere gli obiettivi prefissi con la serie tv. Lo merita.

14). D / La magia del cinema, denominata la fabbrica dei sogni, è il contravveleno alla fabbrica delle illusioni?
R / Illudersi è tremendo. Sognare è bellissimo. Non bisogna mai smettere di farlo. I sonni vanno coltivati. Non riposti nel cassetto. Sono affascinato dal mondo del cinema. Anche se non lo conosco a fondo. Ma l’appellativo di fabbrica dei sogni calza alla perfezione con la mia vita.  Fatta di sacrifici, lacrime, sudore, vittorie, risate, sconfitte, rivincite e sogni. Ancora vivissimi, tutti da realizzare. Almeno spero. Basta avere fede. E io ce l’ho. 

    MASSIMILIANO SERRIELLO

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