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Un monologo per la morte o per la vita?
To be, or not be, that is the question

“ESSERE O NON ESSERE ….” 

UNA RIFLESSIONE COLLEGATA AGLI ANTICHI VALORI DEL MONDO GRECOLATINO PERENNEMENTE TRAMANDATI SINO AI NOSTRI GIORNI, ANCHE E GRAZIE AD UN GRANDE  WILLIAM SHAKESPEARE.

___________a cura di Alessandro Longo  

To be, or not to be, that is the question:
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them. To die—to sleep,

No more; and by a sleep to say we end
The heart-ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to: ‘tis a consummation
Devoutly to be wish’d. To die, to sleep;

To sleep, perchance to dream—ay, there’s the rub:
For in that sleep of death what dreams may come,
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause—there’s the respect
That makes calamity of so long life.

For who would bear the whips and scorns of time,
Th’oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
The pangs of dispriz’d love, the law’s delay,
The insolence of office, and the spurns
That patient merit of th’unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin? Who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscovere’d country, from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will,
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?

Thus conscience doth make cowards of us all,
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pith and moment
With this regard their currents turn awry
And lose the name of action.

 

******* *** *******

 

Essere o non essere: questo mi chiedo
Se sia più nobile l’animo che subisce

Le percosse e i dardi di una sorte oltraggiosa,
o quella che si leva in armi contro un mare di affanni,
E combattendoli vi pone termine. Morire, dormire –
Null’altro. E con quel sonno mettere fine
allo strazio del cuore e ai mille traumi della natura
Che la carne eredita: è una consumazione

Da augurarsi devotamente. Morire, dormire;
Dormire, sognare forse. Ah, qui sta l’inciampo;
Poiché nel sonno della morte quali sogni possono venire,
Quando ci siamo spogliati di groviglio funesto,
Deve pur farci esitare. Ecco il dubbio
Che da sì lunga vita alla sventura;

Chi infatti sopporterebbe le frustate e le beffe dei tempi,
I torti inflitti dall’oppressore, le ingiurie dei superbi,
Gli spasimi dell’amore disprezzato, gli indugi della legge,
L’insolenza dei potenti, e le umiliazioni
Che il merito paziente riceve dagli indegni,
Quando da sè potrebbe procurarsi la pace
Con un semplice stiletto? Chi mai porterebbe simili fardelli,

Gemendo e sudando sotto il peso della vita,
Se non vi fosse il terrore di qualcosa oltre la morte,
Il paese inesplorato, da cui confini
Nessun viaggiatore fa ritorno, a paralizzarci la volontà,
E a farci preferire i mali che abbiamo,
Che fuggire ad altri di cui non sappiamo nulla?

Così la coscienza ci rende tutti codardi;
E così il colore naturale della risolutezza
Si illividisce all’ombra pallida del pensiero,
E imprese di grande rilievo ed importanza
Per questo timore sviano dal loro corso
E perdono il nome stesso di azioni.

 

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UN MONOLOGO PER LA MORTE O PER LA VITA?

Il monologo di Amleto “Essere o non essere” (atto III scena i) è un capolavoro della letteratura, che mi ha sempre affascinato sin dai tempi della scuola media, quando assistevo ad adattamenti teatrali con attori del calibro di Vittorio Gassman o Giorgio Albertazzi.
È un’analisi profonda della natura umana secondo Shakespeare, che tocca il dilemma dell’azione rispetto alla sopportazione delle difficoltà della vita. Questo struggente monologo esplora temi universali come il dolore, la frustrazione, la mortalità e la ricerca di significato nella vita.  Scava anche nella natura dell’essere umano e nella sua capacità di determinare il proprio destino.
Amleto si chiede se sia meglio accettare le ingiustizie del destino o lottare contro di esse. È un conflitto interiore che rispecchia la complessità della condizione umana, una complessità che anch’io ho sperimentato. Ho patito momenti di vivo dolore contro i quali ho combattuto per decine di anni; e ancora oggi spesso mi chiedo se sia valsa la pena affrontare tutti questi scontri contro l’avversa fortuna. Oggi, esausto, continuo a prender fiato ancora per reagire a questa vita grama che mi rimane da vivere.

 

Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them.

(Se è più grande l’animo che sopporta /le percosse e i dardi di una sorte insensata,
/ o quello che si arma contro un mare di guai/ e opponendosi li annienta.)

No, no, questo conflitto interiore riflette la complessità della condizione umana di Amleto, io sono un’altra persona, che ha avuto una vita diversa pur nella difficoltà di prendere a volte decisioni cruciali. Incertezza e ambiguità sono centrali in questo testo e nell’intero dramma. Amleto si trova in uno stato di confusione e indecisione, incapace di agire con determinazione. Questo tema si riflette nel titolo stesso del monologo, che pone una domanda senza una risposta definitiva.
To be or not to be, that is the question  (Essere o non essere, questo è il problema. Ma ancora meglio: questo mi chiedo)
Ciò che mi ha colpito di più è il momento in cui Amleto contempla la morte come un sonno eterno, ma si interroga anche sul fatto che nel sonno della morte si possa sognare.

To die, to sleep; To sleep, perchance to dream—ay, there’s the rub:
For in that sleep of death what dreams may come, When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause.
(Morire, dormire;/dormire, sognare forse. Ah, qui sta l’inciampo;/poiché il pensiero di quali sogni possono venire, /quando ci siamo districati da questo groviglio mortale, /è la domanda che ci fa esitare.)

Oggi, guardando indietro agli anni trascorsi, non posso fare a meno di confrontarmi con le mie esperienze di sofferenza e umiliazione dovute alla mia condizione di invalidità. La mia incapacità di muovermi agilmente, di correre o persino di guidare, costringendo la mia cara moglie a prendere su di sé quel compito che una volta era mio. Amleto si interroga sul valore di sopportare le sofferenze della vita o porvi fine,

For who would bear the whips and scorns of time,…..
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin?
(Chi infatti sopporterebbe i colpi e le ingiurie del tempo,…/ quando egli stesso potrebbe procurarsi la pace/ con un semplice colpo di punta?)

 e io, pur nelle mie tribolazioni, ho abbandonato l’orrenda idea di porre fine alla mia esistenza, consapevole del dolore che causerebbe a coloro che amo.
Non posso fare a meno di citare le parole di terapeuti e psichiatri che mi esortano a impegnarmi al massimo,
no! Devi impegnarti al massimo perché ce la puoi fare”, ma come posso impegnarmi di più di quanto non abbia già fatto in tre decenni di lotta? La vita ha avuto il sopravvento su di me, ma non mi sono arreso al pensiero di porre fine alla mia esistenza, conscio del dolore che lascerei dietro di me. E così abbandono l’idea del “morire”, che immagino sia più simile a cadere in coma che a dormire.
Fortunatamente, il mio sonno è privo di sogni, un piccolo conforto in una vita segnata dalla sofferenza. E forse recuperare le gioie che ho avuto prima di questa sequela di affanni deve farmi riflettere.

Thus conscience doth make cowards of us all,
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
(la coscienza ci rende tutti codardi/ e il colore naturale della risolutezza /si illividisce all’ombra pallida del pensiero)

L’imagery del testo che viene evocata dalle parole che lo compongono spiega molto bene questo due temi centrali e l’atteggiamento di Amleto riguardo ad essi: la morte viene descritta con immagini attive, energiche, vitali, come la guerra e le imprese “di grande altezza e momento”, qualcosa che l’uomo può ottenere con un atto di volontà, mentre la vita si accompagna ad immagini di passività, piene di sofferenze e traumi, di fatiche e offese subite.
Ma proprio nell’incognito, nel non sapere l’esito reale dell’azione sta l’ambiguità del passo stesso, che scopre in maniera chiara il dramma della condizione umana incapace di decidere sul proprio destino e sulle proprie azioni.

E allora, pensando a me e alla mia vita, mi fermo e rifletto sui momenti positivi che pur ci sono stati, come le gioie dei figli e dei nipoti, e che qualche giorno fa sono rinnovati alla festa per il secondo compleanno della mia quinta nipotina. E mi sovvien il lunghissimo tempo (no, non è l’Infinito) fatto di tanti anni  che si sono accumulati nella mia mente e nel mio animo con la mia Marinella, e alle altre splendide feste dei due anni prima dei figli e poi degli altri quattro nipotini. Erano momenti della stessa tenerezza, assieme ai nostri figli diventati a loro volta genitori di quei teneri bimbi che imparavano a pronunciare le loro prime parole, con le quali entrare in questo mondo e imparare a lottare contro i problemi che crescendo avrebbero avuto da affrontare. Proprio come fa adesso Ginevra, la quinta nipotina, mentre spegne sorridendo le sue prime due candeline.
Tutto questo mi fa riflettere anche sul pessimismo di Amleto che medita sulla nobiltà del togliersi la vita che doveva vivere:
…..togliersi la vita?  Ma siamo matti?  E così togliermi anche quei momenti di felicità lontani e meravigliosi!

E allora sì, continuo a lottare anche per mostrare anche a questi dolcissimi pargoletti che vale la pena sconfiggere l’avversa fortuna e le frustate (che nel mio caso sono state anche quelle del mio nervo trigemino. Anche queste ho dovuto sopportare, e sono così violente che fanno pensare di aprire una finestra e di farla finita.
Già, non mi sono fatto mancare proprio niente!) Ma no, non vale la pena di farsi mancare anche la speranza di quelle gioie tra le più grandi della vita: spegnere nella nostra mente pure quelle tenere candeline che ho vissuto per cinque volte con la mia bella famiglia.
E poi non è solo questo: quel po’ di vita normale che ho potuto vivere fino ai 40 anni è stata decisamente una cosa meravigliosa, ricca e produttiva, e per questa mi posso dichiarare fortunato:
Io una Famiglia ce l’ho, a differenza del povero Amleto….. quindi (e purtroppo…ndr) meglio lasciarlo nella sua “amletica” incertezza. 

ALESSANDRO LONGO

 

NOTE DELLA REDAZIONE

QUESTO INTERVENTO CI E’ PERVENUTO DA ALESSANDRO LONGO, AUTORE DEL LIBRO <I MIEI PENSIERI IN LIBERTA’> ED IN PRECEDENZA GIA’ GRADITISSIMO OSPITE SU QUESTA  TESTATA GIORNALISTICA. TRATTASI DI RIFLESSIONI DI NOTEVOLE INTENSITA’ CHE (PUR SE A VOLTE PARTICOLARMENTE INTIMISTICHE) SUSCITANO UNA VIVA CONDIVISIONE E PARTECIPAZIONE.
A MIO PARERE, COMUNQUE, PUR DECISAMENTE AMMIRANDO IL GRANDE SIR WILLIAM SHAKESPEARE (COME PERSONALMENTE E DECISAMENTE AVVERSANDO – TRANNE ALCUNE ECCEZIONI – IL “MONDO ANGLO-AMERICANO) RITENGO PURTROPPO CHE GLI ANTICHI VALORI DEL MONDO GRECOLATINOPOSSANO ESSERE SOCCOMBENTI DIFRONTE AI PERICOLI DI UNA NUOVA “ERA – POST UMANA”, ORAMAI  MINACCIOSAMENTE INCOMBENTE DA BEN OLTRE UN VENTENNIO SULLA “NOSTRA” VECCHIA EUROPA. _________G.M.

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