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Autore: Massimiliano Serriello

Classe 1975, Romano d'ascendenza Cilentana e Toscana, Giornalista, Saggista, esperto in critica cinematografica e sport

A colloquio con Marco Castrichella sui film rari ed empatici

LA CINEFILIA DELL’ESPONENTE DELL’HOME VIDEO CHE ANTEPONE L’AUTORIALITÀ AI DIKTAT COMMERCIALI

Una conversazione con Massimiliano Serriello

È l’ultimo dei mohicani, per certi versi, dell’home video. L’esclusiva sui film d’autore trae partito dalla cinefilia. Che spinge gli appassionati a trascorrere buona parte della giovinezza nel buio della sala. Talvolta senza vederle le pellicole, quelle di grana grossa almeno, preferendo di gran lunga le effusioni romantiche col favore propizio della solenne oscurità. Come i ragazzi pieni di ormoni e ironia del tenero cult movie per adolescenti Il tempo delle mele. Ma le opere capaci di anteporre la forza significante del carattere d’ingegno creativo alla solita solfa, zeppa d’infecondi segni d’ammicco, hanno incantato Marco Castrichella (nella foto).

Dopo aver conseguito la maturità, l’idea di svolgere la professione del ragioniere non gli passava nemmeno per l’anticamera del cervello. «Due più due fa sempre quattro, ma quanto sarebbe bello se almeno per una volte facesse cinque». La possibilità di far tornare i conti motu proprio, sulla falsariga del fulgido concetto di poesia caldeggiato da Fëdor Dostoevskij, mica Franco er Buiaccaro, era tutta un’altra camminata. Marco sul finire degli anni Settanta indossava le giacche con le frange e il chiodo con le borchie. Le spillette degli amati gruppi rock erano l’ornamento ideale per lo schott nero, simile a quello di Marlon Brando nell’inobliabile apologo sulla ribellione giovanile Il selvaggio (nella foto).

Sebbene assai meno nerboruto dell’atletico divo americano, dal fascino animalesco caro alle platee muliebri, Castrichella aveva altrettanta fiducia in se stesso. Quando incontrò la sua futura moglie, Barbara Frangi, col cognome affine al look della camicia, fedele alla tendenza di punta delle giacche floreali, dei gilet glamour, dei pull bon ton, dei foularini e degli immancabili jeans a zampa di elefante, le vide indosso una spilla con un uomo che suonava il sax. Prima di chiederle lumi sul misterioso gruppo musicale in questione, si accorse che era l’effigie di New York New York con Robert De Niro in bella mostra (nella foto con Liza Minnelli).

Intelligenti pacua. Contemporaneamente alle frecce di Cupido, scattò pure la molla in grado di riuscire ad appaiare, una tantum, cuore e cervello.  Pazienza se lei, a digiuno della cultura musicale allora in voga, andava a ballare al Supersonic e che l’allusione della trasmissione “Dischi a Mach-2” alla velocità del suono fosse inconcepibile per i puri ‘rocketari’ militanti che seguivano a ogni piè sospinto l’evoluzione del sottogenere dell’heavy metal promosso dal gruppo degli Scorpions  (nella foto).  Con gli hit Wind Of Change e Still Loving You sugli scudi.

Si erano promessi eterno amore: il tempo per convertirla in quell’ambito non mancava. L’affinità elettiva, coltivata quando, oltre ad applaudire a comando negli studi televisivi per racimolare i soldi necessari alle visioni al Cineclub Tevere, sognavano a occhi aperti guardando i manifesti cinematografici utilizzati a scopo pubblicitario, servì da pungolo.  Uno sprone fuori del comune. Specie se si pensa che quei manifesti, una volta utilizzati, erano destinati al macero. Barbara Frangi vendeva in una bancarella di Piazza Navona proiettori e filmini in super 8. Il cinema era una sorta di baby sitter; la sala sembrava sin dai primi vagiti l’estensione del soggiorno domestico. Aggiungere i manifesti al catalogo diede frutti incredibili perché l’idea di svoltare in tal modo i soldi per acquisire un’abitazione tutta per loro, suggerita dal cervello, andava di pari passo con le ragioni del cuore. E, si sa, al cuore non si comanda.

Aprire il negozio per la vendita dei manifesti, chiamandolo Hollywood in omaggio al cinema underground sorto sull’esempio dei film in controtendenza concepiti dal poeta lituano Jonas Mekas fondando la rivista “Film culture” e realizzati dall’attore/regista americano John Cassavetes, grazie alla spinta delle nobili origini greche, ha cambiato la vita a entrambi. Scaldandogli il cuore, nutrendogli l’anima. Tra pochi anni ci saranno sia le nozze d’argento della coppia sia del reciproco covo “Hollywood – Tutto sul cinema”. Contraddistinto dal logo attinto all’immagine di De Niro che cammina nel marciapiede della giungla metropolitana newyorchese in Taxi Driver (nella foto).

L’immenso Bob a casa Frangi/Castrichella se la comanda, come si suol dire nell’Urbe. Altro che Un uomo da marciapiede! Anche se pure quel titolo del regista inglese John Schlesinger fa parte del catalogo nel ritrovo in via Monserrato, a un tiro di schioppo da Campo dei Fiori, per appassionati decisi a reperire qualche gioiellino negletto della Settima Arte. Ovviamente un posto d’onore è riservato a Quentin Tarantino che con il nostalgico ed emozionante dramedy C’era una volta a… Hollywood ha estratto conigli dal cilindro tanto sul terreno della cinefilia quanto su quello dell’adorata musica. Con tutti i pezzi da novanta riuniti all’unisono. Da Otis Redding ad Aretha Franklin.

Quantunque l’opinione del sottoscritto sull’ultima fatica di Tarantino, che sottobanco ha voluto esibire l’ormai arcinota egemonia del cinema di serie b sull’alta qualità, differisca, perché rispettiamo le idee l’uno dell’altro, senza talora però condividerle, la ventata d’aria fresca dei diversi richiami citazionistici trascende lo scoglio dell’adagio latino Quot capita, tot sententiae. A Marco non interessa che l’anarcoide Quentin ponga sul medesimo livello Jean-Luc Godard ed Enzo Girolami Castellari. È un suo ex collega che mischia il sacro col profano, che spiazza, zompando di palo in frasca; però ha le idee molto chiare. Quentin Tarantino al rental stor “Video Archives” situato a Manhattan Beach si è regolato in un modo. Lui, a via Moserrato, lo fa in un altro. Il suo.

Quando un autore di belle speranze non si conferma, preferendo uno stile di presa immediata all’aura contemplativa alla base degli stilemi della poesia, Marco guarda oltre. «Non ti curar di loro, ma guarda e passa» diceva, infatti, Virgilio al sommo poeta Dante ne La Divina Commedia. Castrichella ha quello che gli esperti di educazione fisica chiamano un valido delta. Nella corsa c’è chi dapprincipio lo supera. Tuttavia a lungo andare lui rimane intatto. A differenza degli altri che perdono colpi o si fermano del tutto. È successo con il franchise di Blockbuster. All’inizio degli anni Novanta l’attacco più pesante fu sferrato da “Paese Sera” con l’uscita delle videocassette legate al giornale. Di lì a poco il noto quotidiano politico “L’Unità”. La categoria del videonoleggio s’indignò. Ma, citando Serpico, Tarantino docet, sembrava una persona avvolta nella plastica che tirava pugni da tutte le parti senza riuscire a venirne fuori. Ora la concorrenza sleale che imperava nelle edicole, con l’iva esente, sta per volgere a conclusione.

Il mix di passione ed erudizione, all’insegna della cinefilia, invece prosegue. Perdersi nei ricordi costituisce una tentazione irresistibile.  Tra i suoi clienti storici c’è stato Carlo Verdone. Il socio numero 8 acquistò a “Hollywood – Tutto sul cinema” le catene borchiate per interpretare il ‘comparsaro metallaro’ Oscar Pettinari di Troppo forte. Barbara e Marco hanno chiamato l’ultimogenito Bernardo. L’autore di Ultimo tango a Parigi, poco prima di lasciare questa valle di lacrime, passava a salutare Castrichella a via Monserrato. Strappandogli un sorriso. Sebbene fosse impossibilitato a scendere dall’autombile. Le grandi anime dei poeti sono fatte in questo modo. Garbato, ironico, tenero ed empatico. E il padre di Bernardo Bertolucci, Attilio, era un fior di poeta. Buon sangue non mente.

Castrichella, comunque, guarda soprattutto al presente. Sole, il lungometraggio d’esordio del figlio di Alberto Sironi, celebre regista scomparso lo scorso luglio, balzato agli onori della cronaca con la serie tv dedicata al commissario Montalbano, gli è piaciuto tantissimo. Apprezza Carlo Sironi sin dai tempi dei suoi cortometraggi. Sofia in testa. L’autore in erba, figlio d’arte con le ali ai piedi e l’entusiasmo del cinephile, gli vuole bene. Amor con amor si paga, chi con amor non paga degno di amar non è. L’inarrivabile argutezza del Petrarca va a braccetto con la fragranza della sincerità:  Marco Castrichella è degno di amare ed essere amato.

Joker di Todd Philips, al contrario, non l’ha amato. A differenza dell’inseparabile consorte Barbara Frangi che, tra il serio e il faceto, lo esorta a non fare lo ‘schicchignoso’. Al film del momento vuole bene solo perché è il manifesto più venduto del 2019. Ma la scalinata del Bronx dalla quale lo Joker impersonato dal pur bravo Joaquin Phoenix scende a passi di danza sta per lui a quella di Odessa dell’ineguagliabile La corazzata Potëmkin come Alvaro Vitali sta ad Alberto Sordi. Come Vanilla Sky di Cameron Crowe sta a Mulholland Drive di David Lynch.

Sebbene facciamo fatica entrambi a pronunciarne il nome, concordiamo nel ritenere più interessanti i film non usciti dell’intelligente ed ermetico regista thailandese Apichatpong Weerasethakul dell’unico presente in commercio. Lo zio Boonmee. Comunque interessante. L’impasse dei film usciti in dvd e non in vhs Marco lo supera regalando un apposito lettore di videocassette ai clienti nostalgici che vogliono sopperire alle lacune della distribuzione. Le ingiustizie nell’humus della cinefilia che gridano vendetta al cielo le stempera nell’ironia. Anche se l’amore per l’autorialità lo prende sul serio. Fa parte della sua vita. Sotto alcuni aspetti, è la sua vita. 

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SIAMO TUTTI FIGLI DI MARIO VERDONE

LO STUDIOSO DI CINEMA CHE HA CONIUGATO LA RICERCATEZZA AL CARATTERE DI PRESA IMMEDIATA

Alberto Moravia (nella foto) riteneva inutile sprecare troppe parole in merito al successo di pubblico della commedia all’italiana. Nella sua rubrica di cinefilia sulle pagine del settimanale L’Espresso, dinanzi all’implicito diniego dei lettori che gli chiedevano perché promuovesse ad ampio oggetto di analisi la cifra stilistica degli astrusi film d’autori ignorati dalle masse anziché recensire quelli visti da tutti, lo scrittore capitolino rilevò l’impasse del filone autoctono. Nato sulla scorta della commedia dell’arte, trasmessa di bottega in bottega sino ad approdare al Pantheon della fabbrica dei sogni come versione satirica del Neorealismo. Amato dalla critica ma bocciato al botteghino.

Il Tempo resta, tuttavia, un giudice più assennato di qualunque teorico schiavo dell’impressionismo soggettivo. L’allarmismo creato dal Coronavirus, con plotoni di cinesi muniti di mascherina per la bocca che marciano per le strade dell’Urbe spingendo i cittadini romani a cambiare bruscamente direzione, genera cortocircuiti esilaranti nel tran tran giornaliero. Sul versante del ridicolo involontario intento ad amalgamarsi, anziché nei discussi rigurgiti di xenofobia, ai tratti di schietta umanità presenti in ogni persona perbene. Impreziosita dalla magia del quotidiano, sostenuta dai maestri neorealisti, insieme al sapido valore terapeutico dell’umorismo ed ergo dell’idonea naturalezza. Che, fuori da qualsivoglia facezia, nutre stima per la dignità palesata da una razza aliena alla tendenza all’iperbole. 

Lo sa bene Carlo Verdone (nella foto). Al punto da chiudere il malin-comico affresco sul mondo dello spettacolo cabarettistico C’era un cinese in coma  sulla scorta della capacità di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente gli spettatori sul sempiterno gioco degli equivoci. Connessi, sia in prassi sia in spirito, allo scoglio delle prevenzioni. Messe alla berlina dalla sana consapevolezza che la vita stessa è un palco foriero di colpi di scena talora bizzarri. Che nulla tolgono alla simpatia e al sostegno che non bisogna mai far mancare a un popolo tenuto alla larga dagli ignoranti convinti di dovergli cedere, oltre al lavoro, altresì la salute. Carlo sapeva che erano tutte ‘pinzillacchere’ sin da quando ad appena dieci anni si recò per la prima volta con il padre Mario a Cinecittà. Capì immediatamente di essere figlio di un uomo importante. Ciò nondimeno ha voluto seguire un proprio percorso per porre in risalto il ridicolo involontario che alberga anche nelle pose maggiormente austere e discriminatorie. Ritenute impermeabili agli immancabili sfottò.  A pochi giorni dalla settimana Fashion di Milano, con la Campagna Nazionale della Moda Italiana che lancia la campagna «China We Are With You», in quanto «è meglio creare ponti invece di alzare i muri», gli eredi dell’arguta commedia all’italiana ci ricordano che non esiste solidarietà più efficace della sapienza umoristica. 

«Siamo tutti Verdoniani» sostiene l’attrice Mavina Graziani (nella foto). Una ragazza solare, dalla battuta pronta, innamorata della famiglia, del premuroso sposo, dei dolci ed energici figli e della psicotecnica allo scopo di ricavare linfa dalla sfera delle emozioni, spesso custodite nei meandri dell’inconscio, per aderire alle dinamiche interiori dei personaggi interpretati. Ed è una schietta attestazione di stima, estranea agli elogi a buon mercato, per l’alfiere sempre sul pezzo della commedia all’italiana. 

Per gli studiosi di cinema, affezionati ai film d’essai bocciati dalla miope censura del mercato, il padre putativo è invece Mario Verdone. Chiunque svolga con competenza ed entusiasmo il mestiere del critico, definito ai tempi  «ingrato e poco noto» da François Truffaut, capofila dei Giovani Turchi della Nouvelle Vague, si ritiene idealmente suo figlio. Non ce ne vogliano i legittimi eredi. Carlo, Luca e Silvia Verdone.

La nascita della Storia e Critica del Cinema come disciplina accademica l’ha visto in prima fila, con Luigi Chiarini, per portare la materia della Settima Arte, liquidata al pari di una robaccia per saltimbanchi dai fautori del teatro, nei posti invece che contavano davvero. La netta impronta impressa in questa fondamentale inversione di tendenza da Mario Verdone (nella foto) ha permesso ai CUC (Centri Universitari Cinematografici) di compiere passi da giganti nel campo delle attività istituzionali  e culturali. Colpevoli, tuttavia, a lungo andare, per motivi d’improntitudine fine a se stessa, di eclissare il sistema della critica. Anteponendogli l’analisi accademica.

Ed è lì che il valore dell’umorismo, trasmesso con prodiga soluzione di continuità al sangue del suo sangue, è giunto in soccorso di Mario Verdone. Nato povero e avverso, perciò, alle distinzioni di comodo della gente con la puzza sotto al naso cui sfuggiva l’evidenza della realtà oggettiva. Il suo obiettivo, a differenza della stragrande maggioranza dei critici d’oggi giorno, era quello di porre in risalto le qualità nascoste di opere d’arte prive di sponsor. Senza santi in paradiso. Nei circuiti alternativi le avrebbero viste solo le persone accreditate, i vice, gli indefessi subalterni delle firme prestigiose e le boriose conventicole condizionate dalle infruttifere discipline di fazione. Il regista portoghese Manoel De Oliveira ha impiegato un’eternità per arrivare alla sala commerciale. Accrescendo con l’approdo pur posticipato le prospettive di fruitori in perenne lotta con i congiuntivi, avvezzi alla bassa densità lessicale, a corto di letture sostanziose, ma capaci, se adeguatamente stimolati, di afferrare il virtuosistico ed emblematico rapporto tra immagine e immaginazione.

Non ne occorreva poi tanta per accorgersi della marcia in più del talentuoso De Oliveira (nella foto con Mario Verdone) dietro la macchina da presa. Quando finalmente i suoi capolavori, in grado di conciliare gli stilemi del cinema da camera con echi multiformi, sono giunti nei circuiti commerciali, ad appannaggio di tutti, invece di restare al servizio delle discussioni sui massimi sistemi dei soliti quattro gatti, Mario gli ha detto tra il serio e il faceto: «Ci siamo fatti vecchi. Adesso però comincia la tua seconda giovinezza». Manoel ha vissuto sino alla veneranda età di 106 anni. Da quel momento in poi, fino a quando ha coniugato l’esistenza all’imperfetto, i suoi capolavori, contraddistinti dall’inusitata interazione tra slancio moderno ed estro sempiterno, sono usciti regolarmente nelle sale. L’ultracentenario, riconoscendo nell’amico italiano «qualcosa di autentico, conoscitore di cinema, generoso e umano», ha sdoganato, de facto, la critica dalla perenne accusa di parassitismo.

Ed è stato soprattutto nell’ambito professionale un critico cinematografico ben lungi dal cercare domicilio, come si suol dire, nelle case altrui. Il suo recapito ha ispirato al figlio Carlo il libro autobiografico La casa sopra i portici (nella foto). Che lo stesso Verdone considera il film più importante della propria carriera. Mario fece le cose estremamente sul serio, anche nel prestare i servigi di ‘espertone’ alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Carlo, sin dai primi vagiti, di contro, sviluppò una propensione per gli scherzi. Arrivando a fingersi un pittore futurista indignato dall’esclusione nell’ultimo saggio accademico ad opera del riverito docente. Divenuto paonazzo per la rabbia. Finì a parolacce. Il padre ebbe modo, comunque, di rendere pan per focaccia. Nell’ambito di un’intervista a due – in occasione dell’uscita in sala di Al lupo, al lupo – gli fece credere di giudicare involutivo il cammino compiuto valutandolo un guitto. Una volta compreso lo scherzo, tirando l’equanime sospiro di sollievo, il figlio tese la mano al genitore. Esimio professore e, al contempo, imprevedibile burlone: lui c’era caduto con tutte le scarpe. 

«Vorrei poter un giorno

 

morire senza morte

 

sotto le cascate bianche

 

che vita infusero alle mie mani

 

per visi e corpi e forme alate

 

che non amerò più»

 

«Scrive astratto, questo!» Così liquida la poesia, scritta dall’ingombrante capostipite, Carlo Verdone nel ruolo del dejay di Al lupo, al lupo. Avvezzo alle forme-bandiera del romanesco canzonatorio. Anche se intimamente risentito nei riguardi del padre dalle pretese difficili da tradurre in pratica. Sarà la sorella, incarnata da Francesca Neri, a capire, grazie all’acume della sensibilità muliebre, dove voleva andare a parare con quei versi ermetici ed empatici. I richiami d’ordine autobiografico alla realtà vanno oltre gli stretti confini in cui opera qualunque elucubrazione teorica. Mario Verdone conferiva nelle argomentazioni dei suoi articoli una base concreta. Andando dritto al sodo. A dispetto della conoscenza enciclopedica del cinema e delle altre sei arti maggiori, non amava i ghirigori. Ancor meno i fronzoli e gli orpelli. Nel confronto docente/discente, però, preferiva anteporre la carota al bastone. Anche se arrivò persino a bocciare lo stesso Carlo perché non seppe proferire verbo su Georg Wilhelm Pabst. Bisognava dare l’esempio: l’espressionismo tedesco non era una passeggiata di salute ma la musa per antonomasia di Pabst, Louise Brooks, ispirando Guido Crepax nella realizzazione dell’icona erotica Valentina, riuscì ad assicurare all’atmosfera decadente e alle ragioni d’inquietudine connesse alla psicanalisi lo charme indistruttibile dei profili di Venere. Con un look, ancor adesso, tutt’altro che sorpassato. Hai voglia, allora, a sussurrargli, in alternativa, i nomi riveriti di Ingmar Bergman e Federico FelliniMario Verdone non fu tenero nemmeno con i registi eletti ad autori dai colleghi miscredenti. Se avevano bisogno di confidare in qualcosa che non fosse l’Onnipotente, attribuendo intenzioni mai passate per la testa degli idolatrati cineasti, era solo ed esclusivamente un problema loro. 

Apostrofato come un “teppista” per aver insistito nell’esibire particolari raccapriccianti nel cult Il silenzio, colmo nondimeno anche di soprassalti visionari alla Fellini appunto ed eloquenti scene madri, da preferire al vacuo frastuono dell’enfasi di maniera onde comprendere meglio l’approssimarsi dell’incomunicabilità nelle ore del trapasso, Bergman per lui non era un intoccabile. Mario Verdone ne apprezzò in ogni caso i colpi d’ala conferiti al mix di sogno e realtà. Lodandolo per il viaggio dei ricordi compiuto dal mesto luminare al crepuscolo ne Il posto delle fragole. Col regista spagnolo Luis Buñuel (nella foto) aveva più intesa. Senza, per questo, esimersi dal muovergli, di quando in quando, qualche appunto. Il timbro surreale e l’humour, che dispensava secondo i casi, necessitavano, nel processo di creazione, dello stimolo giusto. Dispositio ed elocutio rimanevano i suoi strumenti preferiti in tal senso. Al pari della saggezza popolare. Dispensata realmente a piene mani.

Al contrario degli arroganti teorici, all’oscuro dei valori tecnici del cinema, bollati con l’appellativo di tecnicismi per celare l’ignoranza in materia, Mario (nella foto in cabina di regìa) conosceva a menadito il significato delle correzioni di fuoco, dei raccordi di montaggio, degli scavalcamenti di campo, fondamentali per l’apprezzatissimo Yasujirō Ozu, delle dissolvenze, degli stacchi, della luce contrapposta al buio. Sapeva scrivere con la luce. Lo dimostrò appieno dirigendo il documentario Immagini Popolari Siciliane. La registrazione nuda e cruda degli algidi eventi gli sarebbe sembrata il trionfo dell’effimero se non avesse padroneggiato così tanto gli apostrofati tecnicismi al servizio della geografia emozionale. Una disciplina ufficiosa nel Bel Paese. Quantunque legata a filo doppio all’anima dei territori promossi a location.

Il tavolo dello studio, stipato di carte e testi d’ogni tipo, era il suo campo di battaglia. Ci passava diverse ore al giorno. Ad approfondire questioni date per scontate dai seguaci delle scorciatoie del cervello. La materia grigia gli piaceva tenerla all’erta. Con l’adorata moglie (con lui nella foto da giovani) l’univa, oltre al sentimento piegato ma non abbattuto dalla precoce dipartita della consorte, la passione per il teatro e l’egemonia del buon vivere sul bel vivere. L’estetica resta una cosa ben diversa dall’estetismo. Il Futurismo effettivamente gli stava a cuore esortandolo a far uscire dall’anonimato con le sue dotte argomentazioni molteplici pittori ridotti, se non alla fame vera e propria, se non altro all’appetito.

Mentre i soliti tromboni lisciavano il pelo dal verso giusto a Bergman, per poi sprecare gli improperi contro le commediole impersonate da Totò, il re dei poveri senza basi culturali a parer loro, Mario Verdone si accorse subito dell’inarrivabile maestria del Principe De Curtis. «Un guaglione che si scopre gentiluomo». La gesticolazione dell’immenso benché incompreso fuoriclasse della recitazione, che ha ispirato la black dance (nelle foto il raffronto con Michael Jackson), costituiva la ciliegina sulla torta. Lo specchio dell’anima apparteneva al mento a forma di spatola, agli occhi enormi, a un gioco fisionomico che costituiva tanto un atto d’avanguardia futurista quanto un inno all’assennatezza plebea.  


 

«Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere, se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza… e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita».

Alla medesima stregua di Totò, pure Mario Verdone fece la guerra con la vita. Per prenderne congedo con la pacata sagacia dei filosofi trasparenti. Consci che, in veste d’inesausti divulgatori, hanno dato lustro a una nobile missione. Privilegiando la scoperta dell’alterità, dei film mostrati in pidocchietti negletti, rispetto alle stroncature sistematiche. Il legame cominciato in tenerissima età con Siena, proseguito da adulto con Roma Caput Mundi,  ha scandito i momenti lieti. L’Accademia locale – dove Carlo ha girato la scena di Al lupo, al lupo in cui lo squillo del cellulare squarcia l’austerità della nota intima – l’ha accolto da trionfatore. Ma al di là dei titoli onorifici, nonché degli allori di sicuro effetto per i seguaci dell’infecondo ossequio, conforme ai maramaldi del sabato sera, forti coi deboli e deboli coi forti, Mario Verdone è stato soprattutto una persona alla mano. Andava ai musei, alle mostre, giocava a pallone coi figli al Circo Massimo, scattava in piedi nel pieno del climax dei film-western, si reggeva la pancia dal gran ridere per i frizzi e i lazzi di Jerry Lewis alla prese con le vivaci distrofie mimetiche.

Ha esercitato lo strumento del giudizio critico per unire. Non per distruggere: per segnalare. Invece di prevaricare o ambire ad avere la medesima influenza di una sentenza della Corte di Cassazione. La ricercatezza non era un mezzo per negare il diritto di esistere a un’opera e accettare quella meritevole in club per pochi eletti. Era, piuttosto, sinonimo di perseveranza, d’impegno, di passione per mettere una forma di scrittura creativa ed emozionante al servizio della scoperta di opere degne d’encomio. Finite nel dimenticatoio a causa di una cieca indifferenza. Le battaglie pro o contro questo o quell’autore non gli facevano né caldo né freddo. La guerra, ripetita iuvant, l’aveva già fatta con la vita. Di fronte al laconico Gian Maria Volenté replicò: “Mi ha visto una volta, non mi rivede più”. L’attore comprese l’antifona affrettandosi a salutarlo con calore e reverenza. Bastava esibire l’orgoglioso decoro dei critici che non lustrano le scarpe nemmeno a Sir Laurence Olivier. Un gioco da ragazzi per chi ebbe l’ardire di celebrare l’unica lode dedicata alla spazzatura: Santa immondizia.

La convinzione radicata in Moravia, per il timore di una deminutio capitis acuita dall’occuparsi di qualcosa di stretta competenza del sociologo, va quindi a farsi friggere. Con tutto il rispetto dovuto a una mente ricca d’ingegno. Ma col timore di perdere colpi, ed ergo autorevolezza, pencolando verso opere ree di suscitare grasse risate. Nei tratti linguistici, nella bassa densità lessicale, nelle battute sovraesposte, nelle distorsioni dei sentimenti della commedia all’italiana persiste un nitore poetico composto di elementi con carne e sangue. Altro che esanimi. Non è vero che il pubblico preferisce quello che non c’è e non esiste. Casomai sono gli intellettuali autoreferenziali ad apprezzare i trattati elitari per sentirsi superiori alle masse. L’attenzione riposta invece da Mario Verdone nei confronti dei testi filmici, dispiegati tenendo conto sia della componente filologica sia del carattere di presa immediata, ha afferrato l’aura contemplativa mandando a carte quarantotto lo scarso interesse riposto nell’umorismo dai presuntuosi guardiani della qualità e della poesia. Across the Universe di Julie Taymor fu l’ultimo film che il papà di Carlo Verdone vide prima di lasciare questa valle di lacrime. Lo chiamò per condividere l’entusiasmo trasmessogli da un’opera trascinante, genuina, zeppa di canzone dei Beatles, in possesso degli slanci dell’arte, allergica agli snobismi. Privilegiò, come sempre, l’emozione al rigore scientifico. Il calore alla freddezza. L’ironia, di chi sa prendere l’ordine naturale delle cose con somma filosofia, alla supponenza. Ed è proprio vero: siamo tutti figli di Mario Verdone.

MASSIMILIANO SERRIELLO

Una data da ricordare senza guerre tra fantasmi

IL GIORNO DEL RICORDO BUSSA ALLA COSCIENZA DELL’ONESTÀ INTELLETTUALE

«Quando comincia una guerra la prima vittima è sempre la verità. Quando la guerra finisce le bugie dei vinti sono smascherate, quelle dei vincitori diventano Storia».

L’aforisma del compianto giornalista ligure Arrigo Petacco (nella foto) coglie in flagrante i seguaci dell’ipocrita livellamento ugualitario che, con buona pace dei princìpi propugnati a ogni piè sospinto, vanno in escandescenze dinanzi al ritegno di equiparare Norma Cossetto ad Anna Frank. Il martirio della giovane istriana, violentata e ingoiata dalla Madre Terra che non volle rinnegare a causa dell’ondata d’impressionante ferocia degli aguzzini titini, non vale nulla, agli occhi degli imperterriti faziosi ottenebrati dalle ragioni di partito, rispetto all’atroce sofferenza dell’adolescente ebrea tedesca. Vittima dell’inesorabile Terzo Reich.

L’onestà intellettuale, alla base del codice deontologico di qualsivoglia divulgatore deciso ad anteporre il concetto di aletheia all’impasse degli schieramenti ideologici, ha il sacrosanto dovere di censurare l’inesausta guerra tra spettri. Non per fare pari e patta, come si dice a Roma. Ma per assicurare la priorità allo svelamento della benedetta verità. Anziché all’arcinota attitudine di portarsi l’acqua al proprio mulino, a costo di negare l’evidenza.

Ad Arrigo Petacco, autore d’innumerevoli pubblicazioni incluso il libro L’Esodo, lo rimpiangono, oltre agli aderenti all’onorevole egemonia dello spirito sulla materia, scudo tuttavia talora degli impulsivi soverchiatori, anche i degni rifugiati che, come sostiene giustamente Dino Messina, scelsero di essere italiani due volte.

Inorridirsi di fronte ad abominevoli slogan sulla Shoa, che condannano gli artefici a corto di cuore e materia grigia alle fiamme dell’inferno, per poi sghignazzare con indegna lestezza sul tiro al piccione ai danni della salma dello schietto scrittore Giampaolo Pansa (nella foto) non ha alcun senso. A meno ché non si voglia conferire un nobile avallo alla smania di trascinare la coperta tutta da un lato. Qualcosa resta sempre scoperto. 

Talora il gap prevede il dolore autentico di gente estranea ai cali di personalità, in merito agli slanci sensibili che tralignano o in cieca indifferenza o, ancor peggio, in compiaciuta empietà. Con tanti cari saluti ai pistolotti sui migliori angeli dell’indole umana caldeggiati dagli epigoni smemorati del 16º presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln.

Sulla medesima stregua della Civiltà, l’attaccamento ai vincoli di sangue e di suolo non c’entra nulla con le banalità scintillanti della scaltra ed ergo menzognera propaganda. Lo prova la solennità civile rappresentata oggi dal Giorno del Ricordo. Per tenere bene a mente, a caratteri di fuoco, il rispetto che si deve ai testimoni della fede in quei vincoli. Il rispetto per i pacifici individui finiti negli inghiottitoi, dovuti all’erosione dell’acqua sulla roccia. Trasformati nel punto di orrida raccolta di vittime neglette. Negate per anni e anni.

Comunque al di là delle immancabili polemiche, nella piena consapevolezza che Pansa, considerato un voltagabbana dagli equilibristi intenti a rivoltare la frittata, è morto nel calduccio del suo letto, invece di coniugare l’esistenza all’imperfetto in un campo di concentramento nazista o nei lager di Tito, è meglio spegnere il fuoco degli eterni battibecchi. Continuare ad alimentarlo è un tragico paradosso. L’ennesimo.

Quando, a distanza di due primavere dall’abbattimento del Muro di Berlino, in coincidenza con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Francesco Cossiga (nella foto), allora Presidente della Repubblica Italiana, attraversò il confine con la Jugoslavia, creato dal Trattato di Parigi al termine delle crudeli ostilità, per inginocchiarsi nei pressi della foiba di Basovizza, l’atto di pentimento fu ritenuto uno sconfinamento.

Quando Pansa nel libro La notte dei fuochi mise in risalto le ragioni dei vinti ai tempi del biennio rosso, seguito dal Ventennio mussoliniano in trionfo con la marcia su Roma, le maggiori testate scrissero che tornava a indagare legittimamente su un passato che rischiava di divenire la premessa del presente. Che era capace di rivedere il Novecento e le ragioni degli altri con la fulgida virtù dell’obiettività. 

Con l’uscita poi del controverso best seller Il sangue dei vinti, apriti cielo! Gli attacchi aprioristici a Pansa, senza leggere nemmeno una riga della sua debita fatica letteraria, sono piovuti ‘a manetta’. La voce degli sconfitti in quel caso doveva restare silente per i gendarmi della Memoria, alfieri fino a poco prima della libertà d’espressione.

Piero Fassino si distaccò dall’acefalo schieramento compatto per spendere parole doverose, quantunque inopinate, e rendere così onore alla necessità d’illuminare gli angoli bui della Storia chiedendo idealmente venia. Il lungo tempo del silenzio cedeva dunque il passo al rilascio della medaglia commemorativa ai parenti delle vittime occultate a Istria, a Fiume, in Dalmazia. Sull’onda di una violenza pianificata. Cui seguì l’Esodo giuliano dalmata.

Adesso il revisionismo, il negazionismo, il giustificazionismo, che considera le azioni d’infoibamento per opera dei titini la ‘giusta’ reazione ai soprusi perpetrati in precedenza dagli “ustascia” capitanati dall’autocrate Ante Pavelicn e al tradimento dei “domobranzi”, i ragazzi di leva schierati per il tricolore nostrano, servono a poco. C’è qualcosa che ha molto più rilevo della conta dei caduti, delle opinioni discordanti sulla resistenza civile, sul concetto di tradimento agli occhi di coloro che abbracciarono le armi contro lo straniero, per il giuramento di fedeltà al re, per mettere fine ai progetti di sterminio d’ambo le correnti. La riflessione implica l’uso del cervello. La carica di pietas chiama, viceversa, in causa il cuore.

La visione del documentario This Is My Land… Hebron ha spinto i reazionari lineari ad alzarsi dalle poltrone del cinema con un soprassalto di sdegno nei riguardi dei prevaricatori rei di vantarsi dell’omicidio di Cristo per intimidire gli indesiderati palestinesi. Il giusto riguardo lo merita altresì il docu-film For Sama incentrato sull’atto d’amore compiuto da una madre, attraverso la registrazione nuda e cruda della guerra in Siria, per la figlia nata ad Aleppo sotto l’assedio d’uno Tsunami di fuoco. L’addio ai luoghi dell’anima penetra nel cuore di chiunque lo abbia quell’organo. Sopravvalutato e sottovalutato secondo i casi.

Chi non sente nessuna pietas per la gente – fascista, antifascista, cattolica, atea, di destra, di sinistra, agnostica – costretta ad abbandonare il suolo natìo, affrontando un viaggio nel Bel Paese fatto d’infinite ed empie umiliazioni, è chiamato, con un monito alieno alle repliche puerili, dalla coscienza, ammesso ve ne sia una nell’intimo dei negazionisti, a togliersi il cappello, a metterselo sul petto, a chinare il capo. Nel ricordo delle spoglie, spacciate inizialmente per detriti chimici dagli alfieri del depistaggio e dell’orrido occultamento indefesso, recuperate dall’impressionante inghiottitoio situato presso l’Albona d’Istria a Vines (nella foto).

I cinefili rammenteranno l’atipico western Soldier Blue di Ralph Nelson. È d’altronde pressoché impossibile togliersi dalla testa e dal cuore il momento in cui Candice Bergen (nella foto), con in braccio una creatura squartata durante l’attacco dei sanguinari cavalleggeri del Colorado all’inerme villaggio Cheyenne a Sand Creek, grida al coscritto che aveva commemorato i caduti al termine di un previo assalto indiano: «Adesso non la reciti più la poesia, soldato blu?!». 

Ed è questo il punto. Per comprendere l’oscillazione della sensibilità orientata ai partiti presi. A differenza del regista Maximiliano Hernando Bruno (nella foto), estraneo alle pretese di legittimazione dei delitti commessi tanto in nome della Civiltà quanto in quello della Patria, che ha realizzato lo splendido Red Land – Rosso d’Istria per onorare la Memoria di Norma Cossetto.

L’accoglienza ricevuta a La Spezia lo ha ripagato sul piano in primis morale ed etico della campagna d’odio costruita altrove per lordare l’uscita in sala del film d’impegno. Prodotto senza l’erogazione del Ministero dei Beni culturali.

Il ricordo della firma del contraddittorio Trattato di pace che ha costretto gli esuli di Pola, capoluogo dell’Istria, ad affrontare la manifesta avversione dei compatrioti italiani, lasciandosi alle spalle una città esanime, necessita d’un Omero sobrio ed essenziale. Per riflettere sul destino degli esuli in partenza, in fuga, in viaggio con la morte nel cuore, sotto la neve, sui negozi coi sigilli, sulle finestre chiuse a Parenzo, a Rovigno e ad Albona. Sulla montagna di sedie messe una sopra l’altra (nella foto).

Né va passato sotto silenzio il treno della vergogna, col convoglio preso a sassate a Bologna e il latte per le creature a bordo versato sui binari. E così la caserma  “Ugo Botti” a La Spezia adibita per decenni ad abitazione ai limiti dell’assurdo per gli esuli istriani sgraditi. Meno che mai si può ignorare il barbaro modus operandi col quale mogli, figli, genitori di presunti collaborazionisti, ma finanche partigiani restii a prestare giuramento alla dittatura di Tito, furono disposti a ridosso delle foibe. Con i polsi legati dietro la schiena. Congiunti gli uni agli altri col fil di ferro. In attesa del colpo di pistola indirizzato alla prima fila. E i restanti destinati a precipitare nel baratro in preda a un’indescrivibile agonia.  

Gli esuli sgraditi però a lungo andare sono divenuti graditi in quel di La Spezia. La mamma di Andrea Manco (nella foto), originaria di Pola, una volta fuori dalla caserma, inseritasi in una comunità in grado di fare ammenda, non volle rovinare al figlio il sogno tricolore all’epoca della vittoria della Nazionale di calcio nei Campionati Mondiali del 1982. Crescendo avrebbe appreso la verità segreta sulle foibe, sull’Esodo, sui disguidi delle sensibilità coi cali di personalità, su una Storia celata sui banchi di scuola. Allora voleva che la sua creatura gioisse come tutti gli altri bimbi inebriati dal successo patrio. Ricordate La vita è bella di Roberto Benigni? È un regalo il tenero trucco, a fin di bene, che solo un genitore può fare per il sangue del suo sangue.

Oggi, nel Giorno del Ricordo, a La Spezia, Andrea, in veste di Delegato Provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, ha reso onore a quei vincoli di sangue e di suolo. Che non hanno bisogno dell’arma dell’aggressione, della reazione, della polemica, della giustificazione. Perché hanno dalla loro la fragranza della Verità. L’antidoto migliore ai miasmi dell’ipocrisia.

E se le persone con la sensibilità che va a corrente alternata si fossero frattanto rimesse il cappello in testa, sbadigliando con indifferenza, se lo ritogliessero cospargendosi il capo di cenere. È l’onestà intellettuale, non certo il sottoscritto o altri, a imporglielo bussando alla loro coscienza senza unghie né tantomeno nocche. Bensì con la linearità dell’anima. Per non dimenticare. Né oggi né mai. A Dio piacendo.

MASSIMILIANO SERRIELLO

A colloquio con Ivano De Matteo sui dubbi utili dei film d’autore

UN REGISTA LEGATO AL VEICOLO D’INTERROGATIVI CRUCIALI ED ECHI SEMPITERNI DEL CINEMA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Molti spettatori dai gusti semplici lo identificano nel ruolo di Puma nella serie tv cult Romanzo criminale. Quelli più avvertiti ne avevano applaudita in precedenza la psicotecnica sul grande schermo in Velocità massima di Daniele Vicari. Uno spaccato sulla passione per i motori, preferiti alla sete di cultura, che sta all’adrenalinico ma superficiale Fast & Furious come il capolavoro Mulholland Drive di David Lynch sta all’ammiccante Vanilla Sky.

Al posto degli infiniti testacoda, dei coefficienti spettacolari promossi ad antidoto contro i dispendi di fosforo, lui, Ivano De Matteo, conferisce al tronfio figlio di papà detto “Fischio” un’ampia gamma di sfumature.

Sul set, nelle dispute dialettiche, non certo in punta di forchetta, con il rivale indigente e insolente impersonato dal grintoso Valerio Mastandrea (nella foto insieme a De Matteo), le forme-bandiere del canzonatorio vernacolo romanesco si sono andate ad appaiare all’espressività neolitica del volto cupo. Negato al sorriso. Nelle pause, invece, Ivano declamava con sincero trasporto ed entusiasmo ridanciano i versi dei poeti classici in grado d’illuminarne i tratti somatici, addolcendoli decisamente, spingendo così il resto del cast a esclamare, tra il divertito e lo stupito, che di Fischio se ne erano perse le tracce. 

Ed è la qualità basilare degli attori che sanno entrare nello stream of consciousness dei personaggi incarnati sulla scorta della fiamma interiore che infonde all’arte della recitazione stimoli inesausti. Restando, comunque, legato all’intensa leggerezza che lo esorta a stemperare nell’ironia e nell’autoironia lo scoglio del delirio d’onnipotenza. A metterlo a riparo dalla goffa e dilettevole improntitudine dei colleghi che trascinano la ricerca delle pose maggiormente lusinghiere nella realtà è la sana estrazione proletaria.

Trasteverino di nascita, Ivano proviene da una famiglia numerosa. Il padre operaio, scomparso eppure vivissimo nei suoi ricordi, resta un esempio di rettitudine e di franchezza da anteporre al vacuo frastuono dei falsi modelli. La madre, che lo assiste tra un ciak e l’altro preparando le melanzane per l’intera troupe, è una donna schiva. Che parla con gli occhi. Lo scorso mercoledì, al Cinema delle Province, al termine della proiezione dell’amaro ed emozionante scandaglio introspettivo La bella gente, il suo sguardo emanava quel connubio di affetto e saggezza che fa difetto agli intellettuali. Che, secondo Woody Allen, non l’ultimo degli sprovveduti quindi, non sanno cogliere la verità oggettiva. Perché troppo condizionati dai compiaciuti bla-bla, dalle infeconde discipline di fazione, dall’impasse di menzognere certezze fini solo a se stesse.

Ivano è, comunque, soprattutto un regista schietto ed estroso. La bella gente è il suo fiore all’occhiello. Gli è costato fatica, sudore, soldi. Gli stessi che ha guadagnato li hai reinvestiti a sostegno della propria meravigliosa creatura. Impreziosita dall’omaggio in filigrana nei confronti del nume tutelare per eccellenza Luis Buñuel, che con L’angelo sterminatore e Il fascino discreto della borghesia seppe aprire in chiave surreale l’atroce vaso di vermi celato dagli impostori benpensanti attraverso le menzognere buone maniere.

Non c’è, però, alcuna invidia sociale. Né l’impasse delle idee attinte all’ingegno d’incensati antesignani. Ivano alla forza immaginifica del cortocircuito poetico ed evocativo privilegia, per molti versi, la crudezza oggettiva per fare una franca radiografia dei cali di personalità e delle ipocrisie nascoste dei cosiddetti radical chic. Una categoria con cui condivide alcuni punti di vista. Senza rinunciare all’onestà intellettuale che lo spinge ad ammettere di essere divenuto anch’egli un borghese. Allergico nondimeno alla spocchia intellettuale. L’intralcio assoluto alla fragranza dell’onestà.

Antonio Catania (il rimo a sinistra nella foto col cast), in grado nei panni del sensibile ma scettico capo-famiglia di arricchire La bella gente d’infiniti semitoni, preposti agli accenti sia degli irosi che tirano pugni sui tavoli sia dei saccenti che montano in cattedra a ogni piè sospinto, ha dichiarato ai tempi in cui il film fu proiettato al Teatro Valle Occupato: «Se tutti i registi avessero la passione di De Matteo, il cinema italiano sarebbe salvo». 

Ivano fa spallucce, per evitare gongolando di cadere vittima dell’infruttifero narcisismo. Chi si loda, si sbroda. Così si dice nella Città Eterna. Tuttavia è felice per l’attestazione di stima dell’attore siciliano. Un fior di galantuomo alieno agli elogi a buon mercato che, piuttosto, dice quello che pensa e fa quello che dice. Anche quello che gli dice il regista per evitare di costruire castelli di carta aderendo agli slanci e ai limiti dell’architetto protagonista. Restio a ospitare nella villa delle vacanze, su sprone della moglie impegnata nel sociale, una prostituta costretta a battere. Lì a due passi. Sulla strada che porta al paese limitrofo

Ivano, lungi dal sentirsi depositario della verità assoluta, non lancia strali acuminati contro nessuno, non abbaia alla luna, non si perde nei rivoli dell’accademia, non cerca di parlare inutilmente in chicchera. Va al sodo: vuole insinuare un dubbio utile. Mentre la coppia dei vicini esibisce a bella posta la propria insensibilità, il nucleo familiare dei buonisti cela dietro la nonchalance il compiacimento dell’azione filantropica compiuta mettendosi in casa una di quelle. Che si porta dietro un dolore profondissimo. Ed è come se facesse l’amore per la prima volta quando il primogenito della coppia la seduce. Il desiderio di cambiarle la vita va a carte quarantotto. Fai del male e scordati, fai del male e pensaci. Così recita un vecchio adagio popolare che conosce la gente davvero bella dentro. All’oscuro dei versi della Divina Commedia ma col dono, assai più importante, dell’assennatezza. Ivano ne è ben provvisto insieme alla virtù di servirsi della scrittura per immagini come mezzo investigativo. Lontano dalla spocchia propinata dalle presunte élites alla stregua di un valore speciale.

Ivano non pretende di piacere a tutti, né di emettere sentenze, bensì desidera far riflettere la gente nel buio della sala. Non per toglierle il sonno. Ma per metterla all’erta. Ai prodotti d’evasione, che non procurano grattacapi, replica andando avanti per la sua strada. Irta talora di ostacoli. In apparenza insormontabili.

Le traversie distributive patite da La bella gente, divenuto proprio un film fantasma dall’ingegno più vivo che mai, lo hanno messo a dura prova. Superata grazie alla tigna di chi si batte per le giuste cause. Di chi non è accecato dalle ragioni di partito. Di chi non fa sconti. Di chi sostiene l’importanza di un confronto tra progressisti e conservatori. Tra produttori e distributori. Tra distributori ed esercenti. Purtroppo qualcosa si è inceppato nel trapasso ai limiti dell’incredibile in quattro complicati ed eterogenei contratti di distribuzione che hanno finito per rendere il film fantasma un’opera schiava delle meste circostanze.

L’uscita il 27 agosto 2015 del terzo figlio, La bella gente, è stata quindi una vittoria per il film finanziato dal ministero dei Beni culturali. Con i soldi dei cittadini gettati alle ortiche sennò. La sala commerciale, anche se la parola è disdegnata dai nerd con la testa per aria, costituisce una meta d’approdo diversa, in prassi e in spirito, dai circuiti d’essai. Ivano, d’altronde, è un regista sia da bosco sia da riviera. E i suoi film, così come i suoi due figli, gli somigliano. Da Gli equilibristi a I nostri ragazzi con Rosabell Laurenti Sellers (nella foto) capace in entrambi di far vibrare corde profonde. Nella parte della buona, la prima volta; in quella dell’incosciente, la seconda. I nostri ragazzi, attinto al romanzo La cena del vispo romanziere nonché attore olandese Herman Koch, ha esercitato sulla scorta delle interpolazioni un forte ascendente sul poliedrico regista israeliano Oren Moverman. Autore già di Time Out of Mind. Imperniato sul mondo dei senzatetto. Il suo adattamento per il cinema, The Diner, con star del calibro di Richard Gere e Laura Linney, rappresenta una pietra di paragone piuttosto curiosa per saggiare l’audacia stilistica di due autori agli antipodi ma ugualmente decisi a metterci del proprio. 

 

La padronanza della tecnica non è un motivo di sfoggio. Le sue molle, in quest’ottica, sono le correzioni di fuoco da un soggetto all’altro e i piano-sequenza. Ivano preferisce lo spirito di verità che dal Neorealismo in poi è diventato un fertile avvicendamento ai colpi di gomiti dei colossi. Alcuni dai piedi d’argilla. I film di Ivano hanno, al contrario, i piedi ben piantati per terra. Con le idee chiare e la cognizione che le storie per il grande schermo devono usufruire del linguaggio cinematografico.

Con la dolce metà Valentina Ferlan (nella foto) s’intende a meraviglia. Sulla medesima falsariga di Billy Cristal in Harry ti presento Sally …, ha un punto di vista femminile sulle cose. Una finestra aperta sul mondo che mostra al cinema. Scrivere a quattro mani con lei gli ha permesso di scandagliare composite tematiche. Dalla violenza ai danni delle donne alla precarietà dei legami familiari; dall’angoscia delle separazioni, esacerbate dai problemi finanziari, all’insidia del bullismo che s’impadronisce mostruosamente finanche dei figli in teoria perbene. La questione della difesa personale è invece al centro dell’ultima fatica, Villetta per ospiti

A Ivano piace da sempre combinare la passione per la musica alla costruzione dell’inquadratura e ai movimenti di macchina che trasformano i corridoi degli uffici adibiti ad alcove dalle coppie clandestine in posti tutti da scoprire. Nel bene e nel male. La geografia emozionale, che dà ai luoghi eletti a location ed ergo ad attanti narrativi carichi di senso lo stesso risalto degli attori e delle attrici, se non di più, è un altro suo irrinunciabile pallino.

Il Nord Est dello Stivale, teatro a cielo aperto di una vicenda che nell’incipit richiama alla mente Il cacciatore di Michael Cimino e Jagten di Thomas Vintenberg, sembra averlo ispirato in maniera particolare. La labile morale venatoria, gli echi della commedia all’italiana, l’ordine naturale delle cose, con i foschi presagi degli animali che da dolci bestiole si mutano in predoni secondo i princìpi dell’ineluttabile selezione darwiniana, sfociano in un noir da camera. L’egemonia del lavoro di sottrazione sull’accumulo, in nuce già con I nostri ragazzi, prende definitivamente piede. L’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici cementa la virtù di amalgamare gli affondi amari nella realtà con una partitura ritmica volutamente imperfetta. Che deriva dal jazz. Adorato pure dall’amico Marco Castrichella, proprietario della storica videoteca capitolina Hollywood – Tutto sul cinema, covo per gli amanti dei film d’autore dove Ivano fa un salto di tanto in tanto.

La predilezione per il darwinismo antropologico, che ispirò Otto Preminger, per i rimandi western, per la contaminazione dei generi, per l’indipendenza autoriale di John Cassavetes, estraneo agli scaltri segni d’ammicco privi di passione, traspare da tutti i pori. Definirlo l’erede di questi mostri sacri della cinepresa equivarrebbe a dargli quella che a Roma è chiamata ‘na calla. Il compito dei critici cinematografici consiste, all’opposto, nell’instaurare con gli autori un interscambio fondato sulla sincerità a beneficio del destinatario optimum: lo spettatore/lettore.

A Ivano vanno a genio l’Università della strada, celebrata nel 1° Festival del Cinema di San Lorenzo, e la metonimia. Utilizzata dal Maestro Sergej Michajlovič Ėjzenštejn mostrando gli stivali dei cosacchi nel cult La corazzata Potëmkin. De Matteo la parte per il tutto ne La bella gente è la traduce in pratica con l’inquadratura delle mani della bravissima Viktorija Larčenko . La mancanza di diritto al merito, con la crisi occupazionale imperante nel mondo assai poco dorato del cinema che condanna a lunghi periodi di stasi le interpreti più sensibili, è un dispiacere autentico. Specie perché Ivano conosce le fulgide doti d’immedesimazione di Viktorija sin da quando la diresse, appena sedicenne, in Ultimo stadio. Il suo primo film di finzione, dopo il documentario sugli ultras Prigionieri di una fede.

«Per me i film hanno poca importanza. La gente è più importante».

L’aforisma del compianto John Cassavetes, deux ex machina dell’orgoglioso New American Cinema, parla chiaro e tondo. Ed è la gente, bella in apparenza, brutta alla resa dei conti, imperfetta, umana, che Ivano vuole rappresentare sigillando nell’ordine esistente, in mezzo alle debite varianti umoristiche, un tragico ma utile margine d’enigma. 

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A colloquio con Guido Lombardi sulla fabbrica dei sogni

UN REGISTA AVVEZZO ALL’ AURA CONTEMPLATIVA 
CHE CORRISPONDE ALLE ATTESE DEL GRANDE PUBBLICO

Una  conversazione con Massimiliano Serriello

Il rapporto tra la critica cinematografica e i registi è tutt’altro che semplice. Lo sa bene Guido Lombardi (nella foto), napoletano doc, a dispetto del cognome, che dietro la macchina da presa dà, come si suol dire nell’Urbe, “er fritto”. Ed è perciò irritante sentire liquidare in poche righe il frutto dell’impegno. Non solo del decantato carattere d’ingegno creativo. Utile a stabilire se i recensori abbiano a che fare con un mestierante dedito all’artigianato, magari di classe, ma nulla di più, o con un autore avvezzo ai parametri dell’arte.

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A colloquio con Giuseppe Colombo sugli aspetti concreti della Settima Arte

UN PRODUTTORE CHE PRESERVA LE VARIABILI STRATEGICHE E IL CARATTERE D’INGEGNO CREATIVO DEI FILM DI POESIA

Una conversazione con MASSIMILIANO SERRIELLO 

Mettere in pratica le variabili strategiche contemplate dagli esperti di economia dei beni artistici, in cui rientra a pieno titolo la cosiddetta fabbrica dei sogni, non è certo una passeggiata di salute. Il cinema, come parte integrante sia dell’industria culturale sia del settore dell’entertainment, impostosi all’attenzione dell’intero pianeta grazie alle prospettive finanziarie stabilite oltreoceano, resta un’arma a doppio taglio.

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