Una fertile ferita il dolore come via per la creatività
Nel silenzio nascosto del giardino, due lumache si avvicinano con una lentezza che è quasi una meditazione. Si toccano, si riconoscono, danzano in spirali perfette. Ma nel cuore di questo rituale amoroso, accade qualcosa di inatteso: uno dei due corpi estrae un pugnale calcareo e trafigge l’altro. Questo strumento, conosciuto con il nome scentifico gypsobelum, non è un’arma, ma un gesto biologico, erotico e simbolico insieme.
Dal punto di vista scientifico, il gypsobelum è un dardo segreto, calcificato, che alcune lumache ermafrodite usano prima dell’accoppiamento. La sua funzione, chiarita solo negli ultimi decenni, è sorprendente: il dardo non serve a trasferire sperma, ma è rivestito da una sostanza chimica che, una volta iniettata nel corpo del partner, altererebbe il tratto riproduttivo per favorire la conservazione dello sperma di chi lo ha scagliato. E tuttavia, la scienza da sola non esaurisce il significato di questo gesto. Già all’inizio del Novecento, il naturalista Marcel Rolland, affascinato da questo comportamento, osserva che il gypsobelum non è soltanto un meccanismo biologico. Egli accoglie come plausibile l’ipotesi del professor Louis Germain, secondo cui questo dardo sarebbe un vero e proprio “organo” eccitatore: non semplice ornamento riproduttivo, ma lo strumento necessario per mettere in moto l’accoppiamento. Questo passaggio è cruciale: non si tratta di ferire per dominare, ma di aprire una via alla procreazione attraverso la lacerazione. Il dolore non è un incidente, ma una condizione necessaria, un segnale al corpo e all’anima che qualcosa di più profondo si sta preparando.
Traslando questo gesto sul piano simbolico, si delinea una verità che attraversa la condizione umana: ogni vero atto creativo nasce da una ferita. L’artista, come la lumaca, conosce la trafittura. Non può generare senza prima essere stato toccato nel profondo da qualcosa che lo incrina: una perdita, una mancanza, una tensione irrisolvibile. Ma questa condizione va oltre la creazione dell’artista, e appartiene al bisogno creativo dell’anima umana. La sofferenza punge, squilibra, destabilizza, e attraverso ciò dà vita ad una nuova connessione, un’unione inattesa tra ciò che prima sembrava diviso.
Questa idea – che la ferita possa aprire la via a una trasformazione – non è nuova, ma si annida profondamente nella struttura archetipica dell’inconscio. Carl Gustav Jung parlava della necessità di confrontarsi con l’Ombra, quella parte rimossa e dolente della psiche che, se accolta, può diventare chiave di evoluzione. La ferita, in questa luce, non è soltanto dolore: è accesso. È varco. È il punto esatto in cui la coscienza si incrina e può entrare in contatto con un sapere più profondo, non razionale, ma creativo.
Così come la lumaca penetra con il gypsobelum il corpo del partner per attivare un processo riproduttivo più efficace, allo stesso modo l’essere umano che crea penetra sé stesso attraverso il trauma, la perdita, il limite. Sigmund Freud definiva questa trasformazione con il termine sublimazione: le energie pulsionali, spesso dolorose o conflittuali, vengono trasposte in forme artistiche, etiche, simboliche. Non si cancella la ferita: la si trasmuta.
Anche nel mito, la creazione segue spesso la distruzione: Orfeo canta perché ha perduto, e dal suo dolore nasce la poesia. Chirone guarisce perché è ferito. In molte culture, la ferita è la soglia attraverso cui passa la conoscenza. Nel simbolismo cristiano, è proprio dal costato trafitto che sgorga acqua e sangue, segni della nascita e del sacrificio.
Orfeo, in questo senso, è forse la figura che più profondamente incarna la natura liminale dell’atto creativo. Cantore e amante, attraversa l’oscurità degli inferi per tentare di riportare in vita Euridice. Ma il suo gesto, dettato da desiderio e impazienza, infrange la regola del silenzio e del buio: si volta, e la perde per sempre. Eppure, proprio da questa perdita definitiva nasce la sua voce più profonda, quella che nessuno potrà più dimenticare. Orfeo non è solo un artista: è colui che ha amato abbastanza da scendere agli inferi, e che ha sofferto abbastanza da far nascere un canto. In lui si concentrano la ferita e la trasfigurazione, l’eros e la mancanza, il tentativo e il fallimento. Come la lumaca che trafigge per generare, Orfeo canta perché è stato trafitto. L’arte non consola: incide. Ma nel solco di quella ferita, come in un solco di terra aperto dall’aratro, può germogliare una nuova vita.
Veronica Socionovo