Uzbekistan e Italia insieme nella moda e nel design

COMUNICATO STAMPA 

RELAZIONI TRA L’UZBEKISTAN E L’ITALIA NELLA MODA E NEL DESIGN 

“L’Uzbekistan instaura importanti collaborazioni con l’Italia per la promozione e lo sviluppo della moda e del design uzbeko”

  

L’Uzbekistan sta attuando un notevole sviluppo nel settore della moda e del design. Oggi in Uzbekistan, sotto la guida del Presidente Shavkat Mirziyoyev, si stanno realizzando enormi riforme, come afferma il Presidente: “Nel periodo attuale, dove il nostro Paese è in pieno cambiamento, si può dire che siamo nell’era del Terzo Rinascimento. Perché oggi la nostra gente non è più la stessa di ieri».Il Governo dell’Uzbekistan ha attuato una serie di riforme in tutti i settori, compresa la cultura, l’arte e il design. In particolare sono stati adottati i decreti presidenziali “Sulla strategia delle iniziative per l’ulteriore sviluppo dell’Uzbekistan”, “Sulle misure per l’ulteriore sviluppo e miglioramento della cultura e delle arti. Sull’approvazione della strategia di sviluppo innovativo dell’Uzbekistan per il 2019-2021”. I suddetti decreti prestano particolare attenzione alle arti e al design.

Al fine di aumentare l’efficacia delle riforme in corso si sta promuovendo la moda e l’arte attraverso gli scambi culturali e didattici con le varie Accademie e Atenei di tutto il Mondo specializzati in questi settori. Queste importanti collaborazioni sono possibili in special modo grazie al prestigioso Istituto Nazionale di Belle Arti e Design “Kamoliddin Bekhzod” (NIFAD), la principale Accademia dell’Uzbekistan di formazione professionale delle arti e del design con i docenti più qualificati nelle discipline della storia dell’arte, del design e della moda.La cooperazione con istituti stranieri è fondamentale per gli studenti per acquisire maggiori competenze, avendo l’opportunità di frequentare Università di tutto il Mondo. La maggior parte degli studenti che hanno studiato al NIFAD si stanno facendo conoscere con il loro lavoro creativo in tutto il mondo: Giappone, Malesia, Paesi Bassi, Germania, Italia, Turchia, Corea del Sud, Russia e molti altri Paesi.

L’Uzbekistan ha una cultura e tradizioni secolari nella moda e nel design. Durante il regno di Amir Temur (noto come Tamerlano in Occidente) e dello stato Temuride, una grande importanza era attribuita alla cultura dell’abbigliamento. L’ambasciatore spagnolo Ruj González de Clavijo, che visse nel palazzo di Amir Temur, scrisse il diario “Viaggio a Samarcanda” dove racconta che durante i suoi viaggi Amir Temur portò nel Paese abili artigiani che crearono splendidi abiti, oltre a tendaggi e altri complementi di arredo.L’abbigliamento è fondamentale nella storia del popolo uzbeko, non rappresenta solo un indumento, ma anche la gloria dello stato, è l’espressione dell’orgoglio nazionale, incarna una storia secolare, antiche tradizioni e cultura popolare.

Negli ultimi anni il design è diventato una delle forme d’arte più popolari in Uzbekistan, ciò è dovuto allo sviluppo delle relazioni di mercato, alla crescita delle piccole e medie imprese, all’intensificazione delle relazioni internazionali e all’informatizzazione della società. Anche in Italia l’Uzbekistan ha voluto portare la sua cultura e le tradizioni secolari nella moda e nel design. In particolare, recentemente, sono stati stabiliti contatti diretti tra la famosa Scuola di Moda Polimoda di Firenze e il NIFAD. I due istituti stanno attualmente elaborando congiuntamente forme di cooperazione accademica nel campo della moda e del design.

Inoltre la scorsa estate è stato firmato un Memorandum of Understanding tra l’Università Europea di Design (UED) di Pescara e il Tashkent Institute of Textile and Light Industry (Uzbekistan). Nel 2019 la delegazione UED ha preso parte alla Tashkent Fashion Week con una sfilata dell’esclusiva collezione donna del giovane designer italiano, laureato all’UED, David Di Iorio.

Oltre a ciò l’Uzbekistan Textile and Garment Industry Association collabora con il Milan Fashion Center e partecipa regolarmente a mostre e sfilate al Mad Mood Milano.

Numerosi sono gli accordi di cooperazione tra Aziende e designer uzbeki e italiani, dove i fashion designer uzbeki hanno la possibilità di far conoscere le proprie creazioni ispirate ai modelli della loro tradizione, ricchi di ricami decorativi, tessuti con stampe floreali, dai colori tipici della nazione. Fonte principale di influenza creativa sono le ricche tradizioni nazionali del Paese, la bellezza della natura, gli antichi monumenti architettonici e la storia della madrepatria.

L’abbigliamento ha un importantissimo ruolo, oltre che economico, rispecchia la società in cui viviamo, cambia, muta, a seconda del periodo storico, e non possiamo ignorarlo, ogni governo ha il dovere di implementare lo sviluppo del settore della moda e del design e delle relative relazioni internazionali.

 

 

 

 

Gisella Peana Ufficio Stampa e Pubbliche relazioni

e-mail: gisella.peana@gmail.com

 

 

 

Serendipity 3 crea le patatine fritte più costose al mondo

Il nome di queste patatine fritte da record è “Crème de la Crème Pomme Frites”, e sono esentate a far parte del menù di Serendipity 3 al modico costo di 200 dollari, circa 170 euro.

Il costoso piatto è stato creato da Joe Calderone, Creative Chef e Fredrick Schoen-Kiewert, Corporate Executive Chef; sono partiti da ingredienti di lusso per poter offrire ai clienti un’esperienza unica sia per unto riguarda il lato del gusto che anche quello economico.

Il piatto non è costituito solo da semplici patate tagliate e poi fritte in olio bollente ma da una serie di particolarissimi ingredienti:

  • patate Chipperbeck Upstate

  • champagne Dom Perignon

  • aceto di champagne francese J. LeBlanc Ardenne

  • grasso d’oca di animali allevati in Francia 

  • sale di Guerande al tartufo

  • olio tartufato

  • pecorino Tartufello delle Crete Senesi

  • tartufo nero estivo a scaglie italiano

  • burro al tartufo

  • panna biologica A2 A2 100% prodotta da mucche Jersey nutrite con erba

  • formaggio Gruyère Truffled Swiss Raclette invecchiato di 3 mesi

  • polvere d’oro alimentare 23k

Le patatine fritte vengono poi servite su un piatto Arabesque di cristallo Baccarat, accompagnate da una salsa speciale chiamata Mornay Sauce.

patatine fritte

La preparazione consiste prima in una scottatura delle patatine nel Dom Perignon e nell’aceto francese J. LeBlanc, per dare  un tocco iniziale dolce e acidulo; poi vengono cotte tre volte nel grasso d’oca in modo da donare all’esterno una consistenza croccante. Nel frattempo viene preparata la salsa Mornay, sciogliendo in padella burro al tartufo, si aggiunge la farina per fare un roux e si monta poi la panna biologica per addensare la salsa.

Infine nell’impasto si aggiungono i cubetti di Gruyère Truffled Swiss Raclette, per dare una cremosità simile alla fonduta. Il piatto, poi, viene guarnito con scaglie di tartufo nero, scaglie di formaggio pecorino Tartufello delle Crete Senesi e la polvere d’oro alimentare 23k.

Le jeux sont fait!

Pitti Uomo – al via l’edizione numero 100 che segna la ripartenza

 

Apre i battenti il salone di punta a livello internazionale Pitti Uomo, che torna in presenza in Fortezza da Basso fino al 2 luglio per la sua 100esima edizione dopo lo stop causa covid. Pitti Immagine 100 è “un po’ traguardo e un po’ ripartenza“, esordisce Antonella Mansi, presidente del Centro di Firenze per la Moda Italiana e vice presidente di Confindustria, nel suo intervento all’inaugurazione del salone a Firenze.

Il futuro si costruisce insieme, già ora nel presente, anche nel settore della moda”, ha sottolineato Mansi, ringraziando tutte le istituzioni, a partire dal governo, che hanno permesso di organizzare Pitti Uomo, prima fiera internazionale in presenza.

Pitti Uomo 100 è “un’edizione straordinaria: onorariamo il traguardo nel segno della concretezza e dell’orgoglio per la ripartenza”, le fa eco Agostino Poletto, direttore generale di Pitti Immagine. “Anche l’allestimento è molto diverso dal solito: per un nuovo concetto delle distanze, dei movimenti e delle interazioni, per la valorizzazione del segno Pitti 100”, ha aggiunto Poletto.

Tra i settori che più hanno patito per la crisi Covid ci sono la moda e le fiere, e dunque l’apertura di Pitti Uomo rappresenta un segnale di ripartenza, una specie di nuovo rinascimento”, commenta Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, intervenendo alla cerimonia di inaugurazione.

L’Italia è un simbolo di eccellenza nel settore della moda”, ha sottolineato Giorgetti, e la moda “rappresenta un settore vivace, variegato e prezioso, tutto da tutelare e sostenere”, per cui il Governo ha avviato il tavolo dedicato al tessile lavorando su temi quali “il rafforzamento degli strumenti orizzontali come quelli per il 4.0, progetti di economia circolare, lotta alla contraffazione, formazione tecnica e professionale”. Su quest’ultimo tema, il ministro ha sottolineato che “nelle fabbriche ormai sono parimenti indispensabili sarti con ago e filo e operaie in grado di maneggiare tecnologie avanzate: dobbiamo investire risorse sulle competenze per offrire al mercato lavoratori eclettici e al contempo altamente specializzati”.

Grazie al governo, ed in particolare al ministro Giorgetti, per ciò che ha fatto e sta facendo per il settore moda. La ripartenza del settore ci può essere solo con il mantenimento delle nostre maestranze. Quindi grazie al governo per il grande aiuto che arriva con il mantenimento della cassa integrazione Covid. In questi primi mesi del 2021 i grandi marchi della moda sono rimbalzati tra il 10 e il 20% soprattutto nei mercati asiatici, mentre la parte più fragile del settore moda soffre ancora. Ecco perchè è importante la proroga della cassa CovidTutto il sistema sta facendo il possibile per sostenere l’intera filiera della moda, che senza le nostre maestranze non potrà ripartire appieno”, ha aggiunto Marenzi.

Pitti Uomo è uno dei primi grandi eventi fieristici internazionali a ripartire in presenza. È un segnale della ripartenza del nostro Paese grazie ai risultati della campagna vaccinale. E testimonia la grande capacità del Sistema Paese – fiere, imprese, istituzioni, città – di adattare modalità e azioni alle nuove circostanze“, dice Carlo Ferro, presidente di Agenzia Ice.

La moda, uno dei settori maggiormente colpiti dalla crisi pandemica per la sua natura legata alle occasioni sociali e l’outdoor, è centrale per l’export italiano”, ha proseguito Ferro. “Dopo la flessione dell’export nel 2020 – più importante che per altri settori – il tessile-abbigliamento ha registrato una crescita tendenziale dell’export nel primo quadrimestre del 2021, pari al 21,6%”.

Come Ice vogliamo sostenere tutto il settore con azioni di supporto ancora più forti che in passato, perché la realtà post-pandemica sarà diversa e richiederà strategie nuove, efficaci e veloci per rispondere alle sfide emergenti sui mercati esteri, prima fra tutte quella della sostenibilità – ha annunciato Ferro – Per questo abbiamo potenziato la nostra azione. Non solo facciamo di più, ma vogliamo farlo in modo nuovo, rapido e flessibile“.

 

via AdnKronos

Netflix – dopo la serie le vendite di Hlaston sono aumentate del 631%

La dimostrazione di cosa le serie TV possono fare per i brand di moda

 

Prima che la serie Halston uscisse su Netflix, a metà di maggio, la storia del brand newyorchese e del suo founder erano materia di studio ma non esattamente un enorme successo commerciale. Anzi, c’erano stati diversi tentativi di riportare in auge il brand (uno che includeva anche Sarah Jessica Parker e Harvey Weinstein) che però non avevano avuto enorme successo. Ma dove altri avevano fallito, il potere di Netflix ha trionfato: come il brand ha detto a WWD, le vendite sono aumentate del 631% rispetto allo scorso anno e le ricerche del sito sono salite al 3200%. E ancora la collezione di abbigliamento ispirata alla serie e co-firmata da Halston e Netflix deve ancora arrivare nei grandi magazzini Neiman Marcus in agosto, appena prima della stagione degli Emmy. Robert Rodriguez, direttore creativo del brand, ha detto che “è quasi una rinascita” dichiarando inoltre che la capsule Netflix x Halston è già stata venduta al 40%.

Si tratta di un caso molto interessante di imitazione fra realtà e finzione: nel 2019 la costumista dello show, Jeriana San Juan, chiese di accedere all’archivio del brand per ricreare gli abiti originali degli anni ’70 e ’80 disegnati da Halston. Poi c’è stato il successo di pubblico dello show e Netflix ha deciso di collaborare con il brand alla prima capsule di fashion luxury (gli abiti della capsule costano oltre i mille dollari) che il direttore creativo di Halston ha creato ricalcandoli sui costumi stessi della serie. Si direbbe quasi che in maniera del tutto involontaria, il colosso dello streaming e il brand di New York abbiano creato la formula perfetta per ridare vita a un archivio intero e rilanciare un brand. In un maniera non diversa da come La Regina degli Scacchi ha alimentato la ricerca di abiti anni ’60 e The Serpent quella di outfit anni ’70. 

Il potere della televisione

Molti hanno dato per spacciato il medium televisivo/audiovisivo in questi anni. E in effetti la tv tradizionale, con pochissime eccezioni, non è stata in grado di stare al passo con la rapidità e il successo delle moltissime serie tv prodotte dalle piattaforme streaming. Nondimeno, il format di tutte le serie Netflix, Halston inclusa, rimane un format televisivo con puntate, attori famosi, showrunner e una data di release – un prodotto che negli anni ’90 o nei primi 2000 sarebbe potuto venire fuori da HBO o FX. Ma se in Italia un Montalbano è ancora in grado di spingere moltissimi turisti a pellegrinare verso i luoghi della serie alimentando una micro-industria del turismo, e se Emily in Paris ha fatto sollevare le ricerche per i prodotti apparsi nella serie in meno di 48 ore dal primo episodio, questo significa che il medium televisivo e cinematografico non solo non è spacciato ma anzi, che potrebbe rappresentare una potente risorsa per i brand di moda – aumentandone la rilevanza in una maniera istantanea.

La moda al cinema o alla televisione ha sempre prodotto trionfi come Il Diavolo Veste Prada o film e serie per specialisti che hanno difficoltà a giungere al pubblico generalista, che dunque non se ne interessa. Ma trovare il giusto equilibro come, sul piano del pubblico e degli ascolti, ha fatto Halston potrebbe condurre a una rivalutazione del dialogo fra audiovisivo e moda che, negli ultimi anni, è stato molto altalenante se non del tutto instabile. Il nuovo capitolo di questo processo potrebbe arrivare il prossimo autunno quando uscirà nelle sale House of Gucci, uno dei film sulla moda più atteso dell’anno anche grazie alla presenza di Lady Gaga. Se dopo la uscita la ricerca di pezzi d’archivio Gucci salirà alle stelle, non è escluso che altri brand di moda guarderanno verso Hollywood o verso Netflix per dare un boost alla propria rilevanza nella cultura mainstream

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

Victoria Beckham: la rinascita e la nuova strategia

Victoria Beckham ha presentato questa settimana la sua pre-collezione primaverile, la quale rappresenta una svolta importante per la casa di moda, poiché si tratta della sua prima collezione “unificata” da diversi anni a questa parte.

In effetti la firma britannica ha fuso le sue due linee principali — Victoria by Victoria Beckham e Victoria Beckham — in una sola collezione signature, ricalibrando il suo punto prezzi, al fine di attenuare le esitazioni dei propri clienti al momento del passaggio al registratore di cassa.

Una decisione strategica che arriva in un momento di rinnovamento per la griffe, in perdita da diversi anni, ma che ora sembra pronta a tornare alla redditività.

Allo stesso tempo, l’etichetta di bellezza di Victoria Beckham ha riscosso un rapido successo dal suo lancio nell’ottobre 2019. Il marchio, che è interamente di sua proprietà – non è una licenza – basa la propria crescita principalmente sulle vendite dirette ai consumatori.

La stilista è stata a lungo la beniamina della stampa mondiale di moda, con un successo critico ben consolidato. Ma nonostante il suo talento, fama ed energia, i suoi marchi stanno facendo molta fatica a costruire un business di successo.

Nell’ultimo esercizio per il quale sono disponibili i dati, la maison dell’ex Spice Girl ha registrato un fatturato annuo di 38,3 milioni di sterline (44,8 milioni di euro) e una perdita di 16,6 milioni di sterline (19,4 milioni di euro), accentuata da un processo di ristrutturazione abbastanza radicale.

Tuttavia, questi numeri sembrano destinati a migliorare, sotto la guida di una nuova CEO, Marie Leblanc de Reynies, di un nuovo presidente, Ralph Toledano, e grazie al supporto del veicolo di investimento francese NEO Investment Partners, specializzato nel campo del lusso.

Abbiamo incontrato Victoria Beckham, seriosa come sempre, e il suo amministratore delegato, per esaminare più in profondità il loro nuovo approccio alla moda e al management.

Per noi è come una rinascita. Siamo molto entusiasti di questa collezione. Abbiamo riunito Victoria by Victoria Beckham e Victoria Beckham in un’unica linea coerente, con un prezzo d’ingresso alla gamma più accessibile. È il momento perfetto”, assicura Victoria Beckham, coi capelli raccolti da uno chignon.

D’ora in poi, la maison realizzerà quattro collezioni all’anno, oltre a qualche capsule, contro le otto precedenti.

Dopo 18 mesi di lockdown, questa collezione propone un modo di vestirsi abbastanza moderno. Le nostre clienti ci hanno fatto capire che vogliono qualcosa di facile. Tutto è cambiato nel nostro modo di vestirci durante la pandemia. Ma quando parlo di comfort, non si tratta delle tute da ginnastica che si potrebbero indossare in palestra. Bellissimi abiti lunghi in jersey, una silhouette rilassata per i pantaloni, ampi tailleur formidabili e una femminilità potente si possono trovare nei nostri abiti ispirati agli anni ’90, per un look cool e disinvolto”, sorride Victoria Beckham, indossando un maglione grigio di cachemire.

Marie Leblanc de Reynies aggiunge: “Vogliamo offrire un design estetico a un prezzo accessibile”. La CEO afferma che il prezzo medio di Victoria Beckham finora è stato di 900 sterline, mentre quello dell’etichetta Victoria by Victoria Beckham era di circa 300 sterline. In futuro, gli articoli entry level saranno compresi tra 300 e 700 sterline (tra 350 e 820 euro) e i look completi saranno venduti tra 1.000 e 1.300 sterline (tra 1.170 e 1.520 euro).
 
Il nostro obiettivo consiste nel proporre un lusso da designer a un prezzo realistico”, insiste Marie Leblanc de Reynies.
 
Il primo lancio del brand avverrà a fine novembre, con altri “drop” previsti fino a fine gennaio, ma ogni collezione resterà in vendita per sei mesi.

Prima, avevo difficoltà a sapere dove acquistare abbigliamento di lusso a prezzi accessibili. E poi le persone ci fanno sempre i complimenti per la qualità dei nostri prodotti, il che è fantastico”. A proposito, Victoria Beckham ha iniziato a collaborare con uno stilista, Jen Hogg, “una prima volta”.
 
L’ultimo lookbook molto elegante, fotografato nello splendore di un maniero, sarà diffuso sul sito Web del marchio e presso i retailer online. La stilista lavora già con l’elite dell’e-commerce di moda: Moda Operandi, Matches, Net-a-Porter e MyTheresa.

Oltre ad aver abbassato la griglia dei prezzi, le due donne a capo del brand hanno anche ampliato la gamma di prodotti, per offrire una collezione più ibrida. “Un po’ più sbottonata”, scherza Victoria Beckham. “Le donne di oggi vogliono un guardaroba facile, pur rimanendo femminili ed eleganti. E abbiamo intenzione di soddisfare questa richiesta con un’offerta completa”.

Come molte case che, come la sua, stanno ancora cercando di uscire definitivamente dall’emergenza sanitaria, Victoria Beckham resta cauta quanto al suo ritorno in passerella.
 
“Non so se una sfilata a settembre mi sembri appropriata. Mi piacerebbe realizzare una piccola sfilata personale a Londra – presentare una collezione di lusso in un ambiente lussuoso. Ma nessuna grande sfilata è in programma per le prossime stagioni”, confida.
 
Madre di quattro figli, Victoria Beckham ha avuto un successo impressionante nel bilanciare vita familiare e carriera, arrivando persino a portare lei stessa i figli a scuola. Vestita con gli abiti del suo brand, ovviamente, ma spesso anche con la collezione creata in collaborazione con Reebok.

È un progetto che esiste da qualche anno e di cui parlo molto. Durante la pandemia il successo della collezione è stato immenso. Faccio sport tutti i giorni, è stato un piacere creare capi sportswear che fossero allo stesso tempo funzionali e sufficiantemente eleganti per portare i propri figli a scuola. Siamo sempre David o io che ce ne occupiamo”, afferma Victoria Beckham, alzando le spalle. Suo figlio maggiore Brooklyn ora vive a Los Angeles e Romeo sta per trasferirsi in Florida, dove suo padre possiede una squadra di calcio nel campionato MLS (Major League Soccer), l’Inter Miami.
 
Dopo due anni difficili, l’ex Posh Spice sembra di buon umore, soprattutto perché il suo business nei prodotti di bellezza è in piena espansione. “È un’ottima strategia per rivolgersi direttamente ai consumatori, con un’enfasi sulla sostenibilità e sugli ingredienti puliti”, spiega.
 
“La nostra attività nel Beauty ha raggiunto il punto di pareggio in un anno. Stiamo riscuotendo un enorme successo”, afferma Marie Leblanc de Reynies a proposito dell’etichetta, la cui gamma si estende dallo skincare ai prodotti di bellezza al make up. Gli Stati Uniti sono il suo mercato più grande, seguiti da Regno Unito, Francia e Germania.

Era importante per noi insistere sul lato social, di comunicare con la nostra comunità. Ho l’impressione di avere due figlie, una figlia fashion e una figlia beauty”, ride la stilista.

La prossima primavera, il marchio lancerà anche la propria linea di scarpe, concentrandosi sulla pelletteria nel prossimo Autunno-Inverno.
 
“Victoria Beckham diventerà un vero e proprio marchio di lusso e lifestyle”, insiste l’ex cantante inglese. “Ho 29 milioni di follower su Instagram con cui posso parlare direttamente. Abbiamo molte opportunità da cogliere”.

Quando le si chiede del ritorno in attivo dell’azienda, la CEO risponde: “Siamo sulla strada giusta. Era chiaramente impossibile nel 2020 a causa della pandemia, ma abbiamo retto bene. Abbiamo ridotto della metà le perdite rispetto al 2019. Da qui a due anni, avremo raggiunto il nostro obiettivo”, assicura Marie Leblanc de Reynies, lanciando un’occhiata a Victoria Beckham, che chiosa così: “Mi sento molto fortunata a lavorare con Marie e ad avere qualcuno come lei al mio fianco. Non potrei essere più entusiasta del futuro”.

articolo di

I cosmetici tra passato, presente e futuro

Vogue Italia lancia la sua prima linea di abbigliamento

In Italia, per ora, all’indirizzo shop.vogue.it è presente un vasto assortimento di t-shirt, felpe, pantaloni da jogging e una capsule frutto della creatività del team dell’edizione nazionale. La collezione Vogue Italia Limited Edition è composta da due t-shirt e quattro felpe oversize nei toni del bianco optical e del nero assoluto, caratterizzate dal logo della testata, nella sua versione classica datata 1964 e in quella reinterpretata da Ferdinando Verderi, direttore creativo del magazine. Due felpe celebrano anche il magazine maschile L’Uomo Vogue. I prezzi sono compresi tra i 59 e i 149 euro. Vogue Italia sottolinea l’anima green dei prodotti: tutti i capi sono realizzati in cotone 100% biologico certificato, e proposti in colori naturali per garantire un processo di lavorazione a basso impatto ambientale e idrico. Inoltre, le collezioni vengono realizzate in quantità limitate, senza giacenze, da aziende europee selezionate in base a criteri di sostenibilità.

Condé Nast sta sviluppando in tutto il mondo nuovi progetti ‘direct to consumer’ che avvicinano ulteriormente i brand al pubblico: in Italia, con il nuovo e-shop di vogue.it nasce una collezione di abbigliamento street style per tutti coloro che amano Vogue e il suo mondo”, dichiara in una nota Alessandro Belloni, consumer revenue director Condé Nast Italia. “Vogue Collection è il primo progetto digitale pan europeo di Condé Nast, realizzato e gestito interamente in house, grazie a cui Vogue Italia entra nell’e-commerce con una linea esclusiva all’insegna della sostenibilità”, afferma Roberto Albani, digital director Condé Nast Italia.

articolo via PambiancoNews.com

Roma Jewelry Week – al via la prima edizione

 

Apre ufficialmente il bando per la prima edizione di Roma Jewelry Week. L’evento si propone di valorizzare il gioiello contemporaneo, d’autore, d’artista e realtà orafe storiche con l’intento di offrire al pubblico un alto valore culturale che esalti il grande patrimonio della Città Eterna, mettendo in connessione le realtà più interessanti del settore.

Protagonisti dell’iniziativa sono i designer di gioielli e l’eccellenza degli orafi romani, e di atelier del gioiello, gallerie, accademie e associazioni con sede a Roma. L’esposizione è aperta, su selezione, anche a designer provenienti da altre città italiane e dall’estero.
Una tre giorni romana all’insegna della cultura e della bellezza animata da mostre, presentazioni, premiazioni e talk per far vivere e rivivere la capitale grazie a un progetto inedito per la città, dove inclusione, connessione e gioia sono le parole chiave.
 
La Roma Jewelry Week è stata ideata dall’architetto Monica Cecchini, che è anche il direttore del progetto. La selezione delle realtà coinvolte si avvale della curatela dell’artista orafo Emanuele Leonardi e della storica e critica del gioiello Bianca Cappello, mentre il giornalista Jonathan Giustini animerà uno degli incontri in calendario. Il progetto di marketing e comunicazione è affidato alla consulente Eugenia Gadaleta.

Da sinistra: Bianca Cappello, Monica Cecchini, Glauco Cambi, Eugenia Gadaleta, Emanuele Leonardi – Roma Jewelry Week

È importante fare sistema per dare voce e fare conoscere l’eccellenza in questo settore a livello internazionale”, afferma Monica Cecchini. “Vogliamo creare un evento di riferimento per valorizzare la città di Roma e il suo vasto patrimonio culturale, immateriale e artistico che vada incontro alle esigenze di una nuova generazione di turismo lontano da quello frettoloso e consumista. Soprattutto in questo periodo storico così complesso, la città si deve riappropriare degli spazi deputati all’arte, al design e all’artigianato, e deve tornare ad attrarre non solo per le sue magnifiche vestigia storiche ma anche per l’immenso heritage anche nel campo del gioiello artistico”.

Tutti coloro che volessero presentare un progetto, candidare la loro location o esporre durante l’evento devono mandare l’iscrizione entro il 12 luglio 2021.

L’evento si terrà in concomitanza con la seconda edizione del Premio Incinque Jewels, indetto dall’associazione Incinque Open Art Monti. Il contest intende promuovere la cultura del gioiello contemporaneo sul territorio di Roma e si svolgerà per la prima volta nella location storica dell’Auditorium di Mecenate, che risale al 30 a.C. L’auditorium è un antico ninfeo fatto costruire da Gaio Cilnio Mecenate, consigliere di Augusto e protettore di letterati e poeti. Inoltre è il sito dove Virgilio e Orazio declamavano i loro versi, e dove si promuoveva la condivisione nell’arte. 
 
Convivialità, interdisciplinarità, rigenerazione sociale e gioia sono i temi scelti per la seconda edizione del concorso. Il Premio Incinque Jewels quest’anno vuole favorire una riflessione sul tema del “recuperare i gesti e gli animi di convivialità per una rigenerazione sociale” e creare un dialogo tra chi realizza l’opera e chi la osserva. Si chiede ai partecipanti di pensare e progettare un gioiello che valorizzi le antiche arti e che possa creare un legame con l’arte contemporanea, di interrogarsi sul valore della condivisione di idee, sentimenti, stati d’animo.

(in foto Glauco Cambi, collana “In Touch”, in titanio, argento e acciaio, vincitrice del Premio Incinque Jewels 2019)

I tre vincitori avranno la possibilità di esporre le loro creazioni con una personale per il primo classificato e una bipersonale per il secondo e terzo classificato presso la galleria Incinque Open Art Monti di Roma. Un premio speciale di comunicazione per il gioiello sarà offerto dalla consulente e docente Eugenia Gadaleta che consiste in un press kit professionale e una consulenza di comunicazione. Iscrizioni entro il prossimo 1 luglio.

Royal Ascot e la svolta green

La sostenibilità irrompe anche nel tempio della tradizione britannica. Dal 15 al 19 giugno tornerà uno degli eventi più amati dagli appassionati di equitazione, il Royal Ascot. Da oltre 300 anni la manifestazione unisce sport, tradizione e folklore. Oltre alle corse dei cavalli si assiste infatti allo sfoggio di mise attentamente studiate dalle invitate, molte delle quali di sangue blu. Da dieci anni a questa parte, l’organizzazione diffonde una pubblicazione realizzata in collaborazione con il luxury brand Longines; al suo interno si susseguono le regole di stile per partecipare alle giornate di gare, cocktail e mondanità. A sorpresa quest’anno c’è stata un’inaspettata virata green: “Sinonimo di stile individuale e scena delle tendenze sartoriali, la Royal Ascot Style Guide quest’anno celebra anche la sostenibilità e l’arte dello shopping consapevole. Vogliamo dimostrare a tutto il mondo che ad Ascot essere vestiti bene non significa necessariamente comprare qualcosa nuovo di zecca”, si legge nell’opuscolo.

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Gucci e Facebook insieme contro la contraffazione sui social

Facebook e Gucci uniscono le forze e collaborano nella lotta contro la diffusione e la vendita di prodotti contraffatti sui social media. Il gigante americano e la maison italiana del lusso hanno avviato una causa congiunta contro una persona fisica per violazione dei termini di servizio e delle condizioni d’uso di Facebook e Instagram, nonché per violazione dei diritti di proprietà intellettuale di Gucci, contraffazione dei marchi Gucci e concorrenza sleale.

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Alber Elbaz – un ricordo

di 
versione italiana di Gianluca Bolelli
 

Elbaz, deceduto sabato, ha creato collezioni per una mezza dozzina di case di moda, inclusa la sua, anche se è stato il periodo di 14 anni da Lanvin quello in cui ha lasciato maggiormente il segno, scrivendo un capitolo della storia della moda che gli è valso un posto nel Pantheon dei più grandi designer di tutti i tempi.
 
Il suo cerebrale senso del fascino e dell’incanto, la sua profonda sensualità e il lusso opulento delle sue creazioni per la maison Lanvin hanno fatto inserire per un decennio e mezzo i suoi show fra i cinque o sei più importanti e attesi défilé del calendario internazionale. Dotato di un caloroso senso dell’ironia, di uno spirito poetico e di una naturale bonarietà, era anche una delle figure più popolari dell’intera industria della moda. E in un settore che può arrivare ad essere spietatamente competitivo, irriconoscente o persino maldicente, Alber è sempre riuscito ad essere rispettoso di tutti.

Elbaz, deceduto all’età di 59 anni, era ancora nella fase ascendente nella sua carriera, avendo appena lanciato l’etichetta AZ Factory, che prende il nome dalla prima e dall’ultima iniziale dei suoi nomi, finanziata dal colosso del lusso Richemont. Un progetto ambizioso, che sembrava destinato a scrivere un altro appassionante episodio nel mondo dello stile.
 
Il designer è morto all’ospedale Pitié-Salpêtrière di Parigi circa tre settimane dopo aver contratto il Covid-19, anche se era stato vaccinato due volte. Sembrava che avesse superato il momento peggiore e stesse recuperando le forze, ma sabato ha avuto un infarto. Il suo funerale dovrebbe essere celebrato in Israele mercoledì, dove sarà sepolto accanto ai suoi genitori.
 
Si ritiene che Richemont stia progettando un memoriale in suo onore, anche se, dato il distanziamento sociale richiesto dalle misure anti-Covid-19, l’evento potrebbe non essere organizzato per diversi mesi.
 
Nato a Casablanca nel 1961, Elbaz si è trasferito da bambino in Israele con il padre parrucchiere e la madre pittrice. Risiedevano a Holon, la città-dormitorio della classe operaia a sud di Tel Aviv. Illustratore di innato talento, Elbaz ha iniziato a disegnare abiti all’età di sette anni, andando poi a studiare alla grande scuola di moda e design di Israele, lo Shenkar College.
 
Poco dopo la laurea, Elbaz partì per New York, dove finì per essere assunto da Geoffrey Beene, uno dei più grandi designer americani, famoso per l’utilizzo di tessuti modesti, come panno e tela jeans, per creare abiti da sera alla moda. Ad Alber piaceva ricordare che era arrivato a New York con 800 dollari, datigli da sua madre Allegria, e due valigie, una piccola con le sue cose e l’altra grande con i suoi sogni.

Alber ha lavorato per sette anni con il solitario Beene nel suo studio e showroom della 57th Street a Manhattan, mantenendo un profilo basso, visto che Beene era impegnato in una guerra prolungata con il redattore capo di Women’s Wear Daily, John Fairchild. Una polemica che portò quello che allora era il quotidiano di moda dei record a bandire totalmente Beene dal giornale. Un giorno, dopo una presentazione in cui Beene ricevette una pioggia di complimenti per un vestito che Elbaz aveva disegnato dal primo all’ultimo elemento, lo stilista israeliano si rese conto che era ora di voltare pagina e trasferirsi.
 
Fortunatamente, nel 1996 Elbaz è stato strappato all’oscurità dell’anonimato quando è stato nominato direttore creativo di Guy Laroche dal suo visionario CEO Ralph Toledano.
 
“Mi aveva mandato il suo curriculum su carta rossa, con sopra il suo nome “Alber Elbaz” scritto come un logo. Comprendeva chiaramente la sua identità ed era molto consapevole e intuitivo. Così l’ho incontrato al Carlyle di New York, e questo tipo basso e grassoccio si presenta con giacca, scarpe e occhiali rossi, e senza calzini… in inverno! E io pensai: è lui. Al suo book mi bastò dare appena una scorsa”, ha ricordato Toledano, oggi presidente della Fédération de la Haute Couture et de la Mode e presidente del marchio Victoria Beckham.
 
Così Elbaz lasciò Beene dopo 10 giorni e arrivò su un volo di linea con in mano i bozzetti per la sua collezione di debutto a Parigi, dove venne creato un nuovo studio per Guy Laroche, maison all’epoca quasi dimenticata, acquistando i mobili al negozio BHV di rue de Rivoli.
 
Il suo impatto fu immediato. Lo stilista ottenne recensioni entusiastiche per la sua combinazione di chic francese, brio newyorkese e glamour hollywoodiano.
 
Durante il suo debutto, a una modella che sta sfilando in passerella si spezza il tacco, ma la top riesce miracolosamente a uscire di scena con eleganza. E, per la gioia di un mortificato Elbaz, il pubblico inizia ad applaudire con entusiasmo. L’applauso fragoroso per il suo debutto, messo in scena all’interno del Carrousel du Louvre, lo porta a fare un lungo giro della passerella, dando inizio a una gloriosa tradizione della sua carriera professionale. Sembrava più un intellettuale di New York nel suo completo sartoriale; capelli ribelli e occhiali cerchiati di metallo, Elbaz amava palesemente questi suoi momenti finali in passerella in cui veniva adorato.

Per il suo secondo show, all’Opera della Bastiglia, a cui partecipava sua madre, WWD lo mise in copertina.
 
Alla domanda su cosa pensasse della sfilata, Allegria ha risposto: “Non l’ho vista, stavo pregando”.
 
Tre anni dopo, è stato assunto da Pierre Bergé per essere il primo stilista di prêt-à-porter della collezione Yves Saint Laurent Rive Gauche, dopo il semi-pensionamento di Yves. Un sogno d’infanzia per qualsiasi designer, ma un’esperienza estremamente difficile per Elbaz, visto che lo staff di YSL ha praticamente incrociato le braccia al suo arrivo.
 
Durante il suo mandato, Yves non è mai andato a nessuna delle sfilate della linea Rive Gauche concepita da Alber e ha continuato a disegnare l’alta moda. Elbaz riuscì a creare tre mirabili collezioni Rive Gauche senza però raggiungere mai le sue maggiori vette creative, prima di essere licenziato nel 1999 quando Gucci acquisì YSL e assunse Tom Ford come designer.
 
Nel successivo periodo sabbatico di 18 mesi, Elbaz è persino riuscito a disegnare una sola, brillante collezione per Krizia, il cui valore venne testimoniato da una manciata di giornalisti e buyer, prima di lasciare l’etichetta dopo appena tre mesi. Molti hanno scherzato dicendo che quella era stata la sua migliore collezione per YSL.
 
Prima di riemergere da Lanvin e riprendere il suo percorso verso la gloria realizzando oltre una ventina di collezioni iper-influenti. Le sue prime linee per Lanvin furono lodate universalmente. L’8 ottobre 2006 Fashion Wire Daily scriveva: “Finalmente, l’ultimo giorno del tour di quattro settimane delle capitali mondiali della moda, una stagione impantanata in idee retrò, Lanvin ha offerto qualcosa di nuovo ed emozionante”.

Quello è stato uno di quegli show in cui tutto è andato a posto come doveva, in cui il mood, la musica, lo stile e il trucco si sono mescolati in modo nuovo… Ma ciò che contava di più erano i vestiti, dove un tocco di futurismo, una dose di nitore chic e alcuni abiti strepitosamente ben tagliati hanno portato alla creazione della collezione più importante della stagione. La linea per la Primavera-Estate 2007 ha segnato anche una svolta significativa nel design per il direttore creativo di Lanvin, che ha portato la sua moda su un terreno molto più sexy. Prima, Elbaz si attaccava agli stili, esibendo un’eleganza parigina modernista. Quel giorno abbiamo assistito a un maestro che creava vestiti più estremi e provocatori: bellezze autoritarie e vestite di scuro in tessuti high-tech che arrivano a dominare qualsiasi spazio o stanza in cui entrano.
 
C’era un filo di futurismo”, disse Elbaz a FWD, pochi minuti dopo aver ricevuto una standing ovation e il più grande applauso collettivo della stagione. “Ma non è come negli anni ’60 o ’80 quando si trattava di power dressing. Le donne hanno più potere oggi. Questa collezione parlava del potere delle loro menti”.
 
Elbaz avrebbe continuato a mettere in scena alcuni show straordinariamente teatrali spaziando per Parigi, partendo dall’Opera Comique, dove Bizet ha proposto per la prima volta la “Carmen”, prima di accontentarsi della Halle Freyssinet, una gigantesca stazione ferroviaria in disuso dove il suo bellissimo cast sembrava apparire dall’infinito, in un magico gioco di prospettiva. Lavorando con il produttore di spettacoli Etienne Rousseau, Elbaz ha anche sviluppato un portale a sbalzo unico, che dava ai suoi défilé un’illuminazione cinematografica immediatamente riconoscibile. Inoltre, le sue collezioni erano sempre messe in scena in modo estremamente elegante, a partire dalle targhette scritte a mano – con solo i nomi degli ospiti indicati sulle sedute in stile Luigi XVI.
 
Decine di star del cinema hanno assistito alle sue sfilate, mentre Elbaz ha continuato a vestire letteralmente centinaia di attrici a livello internazionale. Da Natalie Portman, Meryl Streep, Kim Kardashian e Kate Moss a Nicole Kidman, Chloé Sevigny e Sofia Coppola.
 
Collaborando con il designer dell’abbigliamento maschile di Lanvin Lucas Ossendrijver, Elbaz ha anche reso il marchio influente nell’abbigliamento maschile – utilizzando tessuti improbabili per gli uomini, come il raso duchessa; realizzando camicie button down con le perle; e abbinando smoking con pantaloni da jogging. Lo stile personale di Elbaz (dalle sue cravatte gros-grain agli occhiali neri squadrati alla sua preferenza per non indossare mai i calzini) ha anche creato una nuova idea di stile maschile.

Ma Elbaz sarà ricordato soprattutto per la sua inimitabile arte nel drappeggio e la capacità di creare tubini e vestiti scultorei dal taglio indulgente per la figura, nonché sublimi abiti da cocktail. Ma oltre a questo va ricordata la sua tavolozza di colori spesso straordinaria: rosa chiaro leggermente tenue, beige violaceo e carbone lucido, tonalità che si associano più al trucco che ai vestiti.
 
I suoi show sono diventati assolutamente imperdibili, come la straordinaria collezione Autunno-Inverno 2008, realizzata principalmente in gros-grain nero, con nastri in stile armadillo su camicette da suora sexy, gonne tagliate asimmetricamente e alcuni abiti da sera deliziosamente ben disegnati.
 
In seguito, un Elbaz per una volta cupo è uscito a salutare il pubblico in mezzo ad intensi applausi, poche settimane dopo la morte di sua madre Allegria, dalla quale volò decine di volte quell’inverno per andarla a trovare in Israele, disegnando anche a tarda notte in ospedale. Un commovente promemoria che la classe è il trionfo dello stile sulle avversità.
 
Sebbene non abbia mai prodotto una collezione d’alta moda, ogni anno a gennaio durante la stagione parigina della Haute Couture, Elbaz presentava la pre-collezione Lanvin prendendo un caffè al mattino con una manciata di giornalisti e critici all’interno di un salone dorato dell’Hôtel de Crillon. Era il ritrovo di moda definitivo e per eccellenza degli addetti ai lavori, un tutorial di stile in cui parlava al suo pubblico attraverso ogni look, durante il quale ci si chiedeva se in una vita precedente non fosse stato un cabarettista. Come quando ricordò l’ultima volta in cui si era rivolto a un pubblico newyorkese spiegando che Lanvin aveva sviluppato sette collezioni “satellite”. “Ma tutti pensavano che avessi detto cellulite”, ridacchiò.
 
Molto prima dell’esplosione di Black Lives Matter e degli altri movimenti odierni per l’inclusione, una mattina in hotel ha presentato un’altra collezione utilizzando un cast interamente nero. Situato proprio dietro l’angolo del quartier generale di Lanvin, il Crillon è diventato la mensa di Alber, dove chi vi scrive ha avuto il piacere di pranzare con lui in varie occasioni. Non faceva per lui l’umorismo acido di tanti altri ambiziosi designer, invece Elbaz mostrava sempre gioia di vivere e un enorme rispetto per i suoi colleghi, mentre cercava e chiedeva sempre nuove idee.
 
Durante una conferenza tre anni fa al The Israeli Museum, ha detto al pubblico presente: “I vestiti sono sempre nuovi, ma il metodo non lo è. Non esiste industria al mondo che funzioni a una tale velocità, fashionisti che corrono una maratona, e stanno sempre a correre e correre, me compreso, …e senza perdere una sola caloria. Un cantante può produrre otto successi all’anno e nessun grande scrittore può scrivere “Guerra e Pace” in 12 diverse varianti in un anno. Ma nella moda, sia a livello locale qui in Israele che in tutto il mondo, ai designer viene richiesto di essere più grandi, più economici e più veloci. Siamo nevrotici, siamo sorpresi di [riuscire ad] essere sempre così veloci”.
 
Sempre orgoglioso della sua cittadinanza israeliana, Elbaz ha finito per essere il Mosè della moda del suo popolo, un campione che li ha aiutati a condurli nella terra promessa.


Mentre era da Lanvin, ha anche prodotto una collezione per H&M, democratizzando la sua moda altrimenti costosa; e ha ricevuto numerosi premi, dall’International Designer of the Year del CFDA alla Legion d’Onore. Successi che ha condiviso con il suo partner di lunga data e il più fedele dei compagni, Alex Koo.
 
Tuttavia, dopo numerosi show trionfali, hanno cominciato a diffondersi voci sul fatto che Elbaz fosse ai ferri corti con la proprietaria della maggioranza di Lanvin, l’imprenditrice taiwanese Shaw-Lan Wang. Ciò nonostante, quando Elbaz è stato licenziato nell’ottobre 2015 la notizia ha generato un grande shock. La sua rimozione è ancora considerata uno degli autogol più stupidi nella storia delle gestioni dei marchi di lusso, poiché secondo l’opinione della maggior parte degli esperti essa ha dimezzato dall’oggi al domani la valutazione di Lanvin.
 
Dopo Lanvin, lo stilista svilupperà un profumo con Frédéric Malle e una collezione di scarpe e borse con Tod’s, prima di trovare un finanziatore ideale in Richemont per lanciare la sua casa di moda. Alber Elbaz ha fatto debuttare il suo concept AZ Factory nel gennaio di quest’anno, catturando (a un prezzo accessibile) il suo vero DNA: raffinatezza da ora dell’aperitivo, drappeggi superlativi e la capacità di esaltare la bellezza femminile con una finitura esotica e artistica.
 
Oltre ad ampliare il suo pubblico di riferimento, Elbaz ha anche infranto alcune regole con il suo lancio, mettendo in scena quello che ha definito “show fashion”, ovvero un finto programma televisivo di varietà.
 
Per un po’ di sprint, un abito dallo scollo profondo tagliato con spalle a sbuffo e maniche a zampa di montone; o un perfetto vestito da sera dotato di un enorme fiocco posteriore. Undici capi in totale, lanciati a poche settimane di distanza uno dall’altro, creazioni nuove proposte in diverse tavolozze di colori.
 
Ma questa non è una capsule collection, perché mi ricorda gli antibiotici!” ha scherzato, nella mia ultima conversazione con lui, vis-à-vis su Zoom.
E tutti abiti realizzati in taglie dalla extra-extra-small alla extra-extra-extra-extra large.
 
Conosco troppe donne che vanno al reparto bambini per comprare vestiti! Questo è un progetto orientato alle soluzioni”, ha sottolineato Elbaz.
 
Lo stilista ha chiamato i suoi abiti da sera “Diamonds and Pearls”, con tubini neri dagli ampi décolleté decorati con collane di cristallo logate e orecchini pendenti; o con diverse collane di perle oversize. La sua altra decisione chiave è stata quella di far calzare al suo cast delle nuove sneaker a punta allungata a forma di ballerine. Un modello che ha chiamato “Sneaky Pumps”.
 
È lo stesso cuoco, ma con ingredienti diversi in cucina”, ha detto.
 
Il suo grande amico Toledano ha dichiarato: “Almeno Alber era stato molto felice in questo periodo dopo diversi anni molto difficili. Amava la gente e l’umanità era sempre al centro di ogni cosa per lui. La moda ha sempre riguardato uomini e donne. E Alber li amava e amava essere amato. Ed era amato da così tante persone”.
 
Alla fine è ironico, ma di un’ironia estremamente amara, pensare che proprio Alber sia stata l’ultima vittima di questa maledetta pandemia, lui che aveva scelto personalmente di isolarsi in un precauzionale lockdown, che ha osservato rigorosamente il distanziamento sociale e che teneva flaconi di gel disinfettante ovunque. 
 
Resta il fatto che nella propria carriera pochi designer hanno creato così tanta bellezza e sono riusciti a farlo con tanto umorismo, tenerezza e brio.
 
Non est ad astra mollis e terris via – Non esiste una via facile dalla terra alle stelle.

Gucci Beloved Talk show – il talk in versione retro

di Marco Caruccio via pambianconews.com

Prima le Instagram Stories, poi il boom dei podcast e infine il fenomeno Clubhouse. Gli ultimi mesi hanno visto fiumi di parole condivise sui social network. La moda spinge l’acceleratore sulla comunicazione verbale che sembra strizzare l’occhio al mondo della radio e delle trasmissioni televisive in cui gli ospiti si raccontavano senza filtri. Gucci non sta a guardare e lancia un nuovo progetto per celebrare le linee di accessori Gucci Beloved. Il direttore creativo Alessandro Micheleha tratto ispirazione dai famosi late-night show hollywoodiani per dare vita a sei episodi del The Beloved Show. L’attore e conduttore James Corden, realmente impegnato col proprio programma in onda sulla Cbs, intervista il musicista Harry Style, la campionessa sportiva Serena Williams, le attrici Diane Keaton, Sienna Miller, Awkwafina e Dakota Johnson. Durante le brevi clip le star ospiti del talk show parlano delle loro recenti attività sfoggiando i modelli Dionysus, Jackie 1961, Gucci Horsebit 1955 e GG Marmont.

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Vivienne Westwood – 80 anni da vera punk

Auguri a dame Vivienne Westwood che a 80 anni, compiti l’8 aprile scorso, resta una vera donna punk.

Ambientalista, progressista e controcorrente. È così che la stilista dai lunghi capelli bianchi e trucco teatrale ha cambiato il corso della moda diventando una vera istituzione per la moda britannica e mondiale.

Da sempre la Westwood è ambientalista predicando, nel vero e proprio seno della parola, con un trasporto quasi adolescenziale, in favore di una riduzione dei consumi, dell’attenzione all’ambiente, e adesso anche contro il mercato delle armi. La moda sembra interessarla sempre meno – ha lasciato al marito, Andreas Kronthaler, le redini della linea principale, tenendo per sé quella che porta il suo nome, fatta di riedizioni aggiornate di un catalogo di idee più vivo che mai.

Il suo percorso è passato dal punk estremo al new romantic. Inizialmente compagna del geniale Malcolm Mclaren, impresario musicale dalle ascendenze situazioniste, ha inventato il look fatto di cinghie e spille da balia del punk britannico; poi, all’inizio degli anni 80, i due hanno creato il new romantic, che avrebbe ispirato Blitz Kids e Duran Duran, e che ha trovato nell’iconografia corsara della collezione Pirates (1982) la sua summa. Quando si è messa in proprio e ha canalizzato la verve trasgressiva attraverso una rilettura potente del costume storico – dal settecento alla belle epoque, con elementi rinascimentali – ha stravolto una iconografia in apparenza conservatrice per farne veicolo di progresso e rottura. 

Sul fondo sempre lo sberleffo, l’irriverenza ed il gusto del gioco. Nel 1989 Tatler la mise in copertina, travestita da Margaret Thatcher, con lo strillo «this woman was once a punk» (questa donna è stata una punk).

Vivienne Westwood è uno dei pochi personaggi dei quali si può davvero dire che hanno cambiato il corso della moda: non comunicando, ma facendo.

 

C’era una volta Fifth Avenue: ora è una guerra di affitti stellari

Non molto tempo fa, i principali marchi di moda erano disposti a pagare affitti vertiginosi solo per avere un negozio sulla Fifth Avenue di Manhattan. Ora la famosa via dello shopping si è trasformata in un campo di battaglia tra proprietari di spazi e inquilini in cerca di una via d’uscita da contratti di locazione che non riescono più a sostenere. La conferma arriva da Bloomberg che ricorda come il cuore della Grande Mela stia scontando, come altre destinazioni di shopping internazionali, l’impatto negativo della pandemia Covid-19 e la quasi totale assenza di turisti, mentre a moltiplicarsi sono i cartelli “For rent” su vetrine e ingressi.

I pochi commercianti che cercano di firmare nuovi contratti di locazione chiedono sconti elevati. Alcune insegne che sono state lì da sempre, come gli store dell’Nba o di Marc Fisher, sono coinvolti in battaglie legali con i loro landlords per l’affitto non pagato”, si legge su Bloomberg. Dallo scorso marzo, i retailer in difficoltà negli Stati Uniti hanno bloccato il pagamento di affitti per miliardi di dollari, appellandosi al crollo delle vendite. Mentre molte aziende hanno riaperto i loro store o hanno raggiunto compromessi con i proprietari degli spazi, alcuni deal sono oggi incrinati e rallentano il cammino di ripresa della Fifth Avenue, erodendone l’appeal in vista di un ritorno dei big spender da tutto il mondo.

A giugno 2020, la maison italiana Valentino aveva fatto notizia per la scelta di chiudere il negozio di punta a Manhattan, proprio sulla Quinta strada, avviando una battaglia legale con Savitt Partners, il proprietario dell’immobile dello store. Nello specifico, come spiegato da Reuters , il brand si era detto pronto ad annullare il contratto di locazione poiché il negozio, a causa degli effetti della pandemia di Covid-19, non poteva operare “in linea con la reputazione di alta qualità, lusso e prestigio” del quartiere, come previsto dal contratto d’affitto.

Nel 2020, in altre aree di New York, anche Victoria’s Secret era andata in tribunale per chiedere l’annullamento del proprio contratto di locazione per lo store di Herald Square, mentre Gap ed H&Msono stati entrambi denunciati per non aver pagato l’affitto dei loro negozi.

Meno complessa la situazione della Upper Fifth Avenue, che si estende fino alla 60esima strada, dove gli affitti sono scesi del 3,7 per cento.

Sulla Fifth Avenue – conclude Bloomberg – potrebbero apparire altre vetrine vuote, con almeno tre contratti di locazione che scadranno presto. L’accordo di Giorgio Armani per la sua boutique (e ristorante) vicino alla 56esima strada scade tra due anni e non è chiaro se il marchio di moda italiano lo rinnoverà, secondo persone a conoscenza della trattativa. Dall’altra parte dell’incrocio, la proroga a breve termine di Abercrombie & Fitch terminerà all’inizio del prossimo anno e i dirigenti affermano di non aver ancora deciso il futuro. Tiffany prevede infine di lasciare il suo temporary store di 6.900 metri quadrati entro la metà del 2022″. Contattati da Bloomberg, rappresentanti di Tiffany, Abercrombie e Armani hanno preferito non commentare.

 

Stan Smith – la storia di un’icona

Agli inizi degli anni ’70, Stanley Roger Smith è una leggenda del tennis. Il giocatore americano vince due titoli del Grande Slam (Us Open ‘71, Wimbledon ‘72) e la prima edizione della Masters Cup, sia in singolo che in doppio. Eppure, finiti gli anni d’oro della sua carriera, Smith si lamenta che “la gente pensa che io sia una scarpa”. Il figlio, addirittura, arriva a chiedergli: “Papà, hanno chiamato la scarpa dopo di te o te dopo la scarpa?

Stan Smith infatti è il nome del campione di tennis, ma anche delle famosissime sneakers dell’adidas che prendono il suo nome nell’edizione degli anni ’70 e successive, pur essendo state originariamente create in onore del tennista francese Robert Haillet, che nel 1965 ne disegna il modello, dandogli il suo nome. Agli inizi degli anni ’60, infatti, adidas vuole entrare nei campi da tennis, e lo fa con lo stile inconfondibile di una scarpa leggera ma dalla struttura solida, che prende dunque il nome di Haillet. Poi, quando nelle decade successiva diventa lo sponsor di Smith, queste scarpe di pelle bianca, con le riconoscibili tre file di buchi traspiranti e l’immancabile linguetta verde, passano al nuovo campione. Sulla linguetta frontale compare il ritratto e la firma del giocatore, e per la scarpa opportunamente riveduta e corretta, ha inizio una nuova vita come Stan Smith.

Già dagli anni ’70 e ’80, questo modello, dalla linea minimal ma distintiva, diventa subito un classico tra gli sportivi (Smith ammette di aver provato un certo fastidio nel perdere con atleti che indossavano le sue scarpe) e anche fuori dal campo da tennis. Ma è negli anni ’90 che arriva il boom di vendite: nel 1990 la Stan Smith entra nei Guinness dei Primati per aver venduto 22 milioni di modelli nel mondo. Compare nel testo della hit francese Je danse le Mia del collettivo IAM (All’inizio degli anni ’80, ricordo le serate, dove l’atmosfera era calda e i ragazzi stavano tornando a casa, Stan Smith ai piedi) e al cinema nel film di Mathieu Kassovitz La Haine, ai piedi di Vincent Cassel (solo per citarne alcuni esempi). Le Stan Smith da scarpa sportiva diventano un fenomeno di costume, un’icona della cultura street e pop. Per Stan Smith l’impresa di conquistare i giovani con il suo modello di scarpa era impossibile, ma evidentemente si era sbagliato.

Personalmente, da ragazza che ha vissuto l’infanzia negli anni ’90, le Stan Smith non le ho mai legate al giocatore di tennis (lo ammetto) ma a quel tipo “scarpa da tennis” che va bene con tutto e che ha sempre mantenuto la sua aura iconica: è stata la scarpa dei miei maestri di recitazione, dei divi hollywoodiani che ammiravo sulle riviste, insomma le scarpe di chi aveva, ai miei occhi, stile e fascino da vendere. E sebbene nei primi anni duemila le vendite abbiano subito un calo, nel 2014 dopo aver interrotto la produzione 3 anni prima, le Stan Smith tornano sul mercato per non lasciarlo più. Nuove collaborazioni con stilisti e designer, nuovi colori, ma sempre la stessa impressione di una scarpa dal design minimale e senza tempo.

E anche oggi questa scarpa leggendaria mantiene il binomio di tradizione e innovazione grazie alle nuovissime Stan Smith della linea Primegreenche rappresenta i valori di sostenibilità che adidas sta perseguendo. Reinventare una leggenda si può, anzi, per adidas si deve, e per questo anche le Stan Smith sono rientrate nel programma Primegreen che ha come obiettivo quello di sostituire il poliestere vergine con il poliestere riciclato. Un primo passo per inaugurare buone pratiche sostenibili e al contempo mantenere alte le prestazioni. Nel caso di questo modello, il 50% della tomaia è realizzato con materiali riciclati e per realizzarlo non è stato utilizzato poliestere vergine – ma lo stile rimane invariato, portando questa scarpa leggendaria in un nuovo, esaltante, capitolo della sua storia.

 

Bottega Veneta sfida i social lanciando il suo magazine digitale

Cover del digital journal ‘Issue 01’

Essere online senza usufruire dei social network. Sembra questa la nuova mission impossibile di Bottega Veneta che, a sorpresa, ha appena lanciato il primo numero del suo magazine digitale intitolato Issue 01. La pubblicazione avrà cadenza trimestrale e sarà condivisa in concomitanza con l’arrivo delle nuove collezioni in boutique. Un’operazione coerente con la strategia controcorrente del direttore creativo Daniel Lee che, proprio ieri, ha dichiarato al The Guardian: “I social media rappresentano l’omogenizzazione della cultura. Tutti guardano lo stresso flusso di contenuti. Un enorme quantità di riflessioni viene incarnata in quello che faccio, e i social media lo semplificano eccessivamente”.

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Louboutin – il mito con la suola rossa

Non sempre portabili e purtroppo fuori dalle possibilità economiche della media ma uno tra gli oggetti più desiderati da avere nel guardaroba, parliamo delle Louboutin, le scarpe dalla suola rossa.

Metà delle donne vuole una scarpa che la faccia sembrare un po’ provocante, e l’altra metà è composta da donne provocanti che vogliono una scarpa raffinata. Credo che la scarpa completi la donna, le dia quel che non possiede ancora” questa è la motivazione chiara e concisa che ne da Christian Louboutin.

L’attrice francese Léa Seydoux ha confessato che Christian Loboutin le regalò il primo paio quando aveva soli dodici anni, e ogni volta che raconta questa storia poggia ancora l’indice sulla guancia come le bambine quando pensano al loro pasticcino preferito.

Christian Louboutin aprì il suo primo negozio a Parigi nel 1992 dopo aver lavorato con Foger Vivier. Rimase incantato dalle calzature strabilianti realizzate per l’incoronazione dello scià Reza Pahlavi e dalle décolleté di diamanti di Marlene Dietrich. La sua ispirazione però viene da lontano, dalla vita notturna che lo distraeva dai suoi doveri di studente, dalle gambe delle ballerine e dai loro maliziosi sandali gioiello.

Spesso imitate, le originali hanno sempre avuto la meglio (ovviamente!). Curioso il caso dell’azienda olandese Van Haren, che nel 2012 aveva messo in commercio scarpe con tacco alto e suola rossa -chiamate 5th avenue by Halle Berry. Poco dopo è stata citata per contraffazione e la corte di giustizia europea interpellata dal tribunale dell’Aja, si è pronunciata a favore del brand francese: le suole rosso pantone 18-1663tp, nate da un esperimento di smalto per le unghie, non possono essere copiate.

Rizzoli nel 2011 ha pubblicato l’autobiografia di Louboutin in un sorprendente non-libro perchè alcune delle sue scarpe sono non-scarpe, delle vere e proprie creazioni visionare. Basti pensare alle famosissime Fetish ballet heels disegnate in collaborazione David Lynch, e costruite per tenere il piede perfettamente verticale “con queste scarpe non si può di camminare, e tanto meno correre. Si può solo stare sdraiate”.

 

 

La produzione è tutta italiana, a Vigevano, e comprende non solo modelli dal tacco vertiginoso ma anche ballerine e sneakers. Il modello più famoso rimane senza dubbio la Pigalle  Tra i modelli famosi ci sono le ballerine Sophia flat, a punta e con fiocchetto; le altissime So Kate, disegnate per il matrimonio di Kate Moss; le impossibili ballerine Ultima, indossate da Beyoncé nel video di “Green Light”; e ancora The Blake, il sandalo in vernice e stringhe laccate arcobaleno dedicato a Blake Lively. Ma il modello più famoso (ed mio avviso il più bello) senza dubbio sono le Pigalle

“Non ho intenzione di raccontare che il 12 è comodo. Non si tratta di comodità, ma di bellezza” e Jill Abramson, prima donna a dirigere il New York Times, ha reso esplicito il messaggio “Ti infili le suole rosse e non temi più nulla”.

 

 

Addio a Giovanni Gastel, con i suoi scatti ha esaltato la moda made in italy

 
Il fotografo Giovanni Gastel, che con i suoi scatti ha esaltato la moda made in Italy, grazie a campagne pubblicitarie per i marchi più prestigiosi che hanno fatto il giro del mondo, è morto il 13 marzo a Milano per le complicazioni da Covid. Aveva 65 anni. Era stato ricoverato all’ospedale in Fiera a causa dell’aggravarsi dello stato di salute dopo essere stato colpito dal virus.

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Donne chef – la cucina non è solo deGLI chef

articolo di Martina Tripi via Vita su Marte 

Vi prego non chiamiamole quote rosa, queste donne chef sono talmente cazzute che potrebbero, e forse dovrebbero, governare il mondo. Gestiscono ristoranti, collezionano stelle Michelin come fossero figurine Panini, fondano associazioni benefiche e si occupano anche delle proprie famiglie.
La cucina è donna, ma fin troppo a lungo è stata dominata dagli uomini, ricordiamolo sempre: il talento non ha genere.

 

Tutto molto bello ma…

Però rifletteteci: ancora oggi nell’immaginario collettivo la donna in cucina è colei che alleva, nutre e coccola la famiglia, mentre l’uomo ci appare nella sua divisa intonsa, pronto a dirigere una brigata venerante, come il nuovo sex symbol dei nostri tempi.
Le cose stanno ormai cambiando, grazie al cielo! A suon di eccellenze l’universo femminile si è fatto strada anche in questo campo, dimostrando, ovviamente, di esserne più che all’altezza.

Voglio cominciare con una premessa: segue una lista di donne che cucinano per professione portando a casa grandi risultati e che, non solo secondo me, lasceranno il segno nella storia.
Ma oltre a loro ce ne sono tante altre, mi duole davvero non averle inserite tutte, ma vi avrei obbligati a leggere questo articolo fino alla vecchiaia.

SheF Valeria Piccini: dalla Maremma con amore

Chef donne Valeria Piccini

SheF – She+F – non è un nomignolo, ma un vero e proprio marchio registrato che, se la pandemia non avesse stravolto il mondo e i piani di tutti, sarebbe diventato un progetto concreto per supportare le aspiranti chef.

Valeria Piccini è stata fortunata perché la sua carriera ha coinciso con la famiglia, anche se non è sempre stato facile, ma è ben cosciente di quanto sia complicato per una donna far conciliare la vita privata e un lavoro che richiede tante ore di servizio.

Non bisogna mollare

Per questo vorrebbe incoraggiare le donne a conquistarsi il proprio posto nel mondo culinario, senza farsi abbattere da barriere e stereotipi, ormai passati e senza senso.
Se lo dice lei, che è riuscita a trasformare la trattoria di un paesino da 200 abitanti in un ristorante bistellato, possiamo fidarci. Da Caino ha ottenuto un successo sorprendente, la prima stella è arrivata nel 1991 e la seconda nel ’99, grazie a una cucina che attinge dalla tradizione e la rinnova, con particolare attenzione alla qualità degli ingredienti, che vanno sfruttati fino all’ultimo grammo, per evitarne ogni spreco.

dolce stellato

Uno dei piatti di Da Caino

Vicky Lau – le prime due stelle Michelin in rosa di tutta l’Asia

Chef donne Vicky Lau

In Asia non era mai accaduto prima che una donna vincesse ben due stelle Michelin, quest’anno però la chef Vicky Lau ha piacevolmente stupito col suo risultato senza precedenti.
La Hong Kong & Macau Guide le ha assegnato il riconoscimento per il lavoro svolto nel suo ristorante di Hong Kong, la TATE Dining Room, dove propone una cucina innovativa, d’impronta franco-cinese.

La cucina è creatività e impegno

I suoi piatti raccontano una storia, come suggerisce il menù di otto portate che ha chiamato proprio “Edible Stories”.
Ciò che più stupisce della sua carriera è che prima di diventare una dea dei fornelli si occupava di grafica pubblicitaria in America. Poi, di punto in bianco, spinta dalla voglia di dare ancora più sfogo alla sua creatività, si è iscritta prima a un corso base di tre mesi presso Le Cordon Bleu a Bangkok per poi conquistarsi il Gran Diplôme di nove mesi al corso Le Cordon Bleu Dusit. Una vera fuoriclasse.

Ode to Read Fruit
“Ode to Red Fruit”, composta da croccante meringa allo yogurt, sorbetto al lampone e mousse di cioccolato bianco all’osmanto.

Hélène Darroze: chef donne famose? Vabbè ciao!

 Hélène Darroze cuoca donna

Hélène appartiene alla quarta generazione di una stirpe di ristoratori francesi, ha mosso i suoi primi passi al fianco di Alain Ducasse, nel suo Le Luis XV a Montecarlo e oggi è una delle chef più importanti del mondo.
Quest’anno ha ricevuto una seconda stella Michelin per il suo ristorante di Parigi Marsan ed è stata premiata con tre stelle Michelin nella guida Gran Bretagna e Irlanda per Hélène Darroze at The Connaught, il ristorante londinese che si trova all’interno del Connaught Hotel.

Un’icona della cucina moderna

Hélène è una mamma single che ha anche contribuito alla fondazione dell’associazione Le Bonne Etoile, in aiuto dei bambini più svantaggiati e per la quale ha ricevuto l’onorificenza di cavaliere dell’Ordine nazionale della Legion d’onore.
Il mondo la riconosce, ormai, come un’icona femminile dell’alta cucina: è a lei che ha pensato la Pixarquando nel 2007 ha creato il personaggio di Colette per Ratatuille ed è sempre a lei che si è ispirata la Mattel quando nel marzo 2018 ha realizzato Barbie Chef, in occasione dell’International Women’s Day .

Alice Waters: si comincia sempre dall’ingrediente

Donne Chef Alice Waters

Nel suo ristorante di Berkeley Chez Panisse ha definitivamente stravolto la cucina americana, che fino al suo arrivo era fatta di fast food e cibi preconfezionati. Da lei un pasto si prepara partendo dall’ingrediente, è al mercato la mattina che si decide cosa mettere sul menù che, ovviamente, cambia ogni giorno.

I progetti che segneranno la Nazione

Nel 1996 ha dato vita al progetto Edible Schoolyard, creando un orto a disposizione della cucina della scuola e coltivato proprio dagli alunni. Ha anche aiutato Michelle Obama a realizzare un laboratorio di agricoltura biologica nel giardino della Casa Bianca.
Non è, quindi, assolutamente un caso che sia vicepresidente di Slow Food International, associazione di cui incarna alla perfezione i valori da quando cominciò a muovere i primi passi nella cucina, dopo un viaggio in Francia dal quale tornò in America cambiata per sempre.

Claire Vallée e la rivincita delle bionde… vegane

Chef donne_Claire Vallée

La cucina francese e la carne sono un tutt’uno, quindi la scelta da parte della Guida Michelin Francia 2021di premiare un ristorante vegano è stata sorprendentemente lungimirante.
L’Ona – che sta per Origine Non Animale – di Claire Vallée non è di certo il primo ristorante a eliminare la carne né, tantomeno, il primo ad aggiudicarsi un riconoscimento simile, ma ogni piccolo passo verso l’innovazione è una grande conquista per la cucina. Non si può trascurare quanto l’alimentazione senza carne e senza derivati sia oggi parte integrante delle nostre vite.

Claire Vallée_piatto
Dessert de carottes confites à la passion, meringue géranium, éclats de chocolat noir, crème au yuzu, tuile de citron. | Ph. Cecile Labonne
So’ soddisfazioni

Ma sapete qual è la cosa che dà più soddisfazione? Claire Vallée ha aperto il suo ristorante nel 2016 solo grazie al crowdfunding e al supporto di una banca verde. Gli altri istituti bancari non credevano possibile che un ristorante simile potesse ottenere successo. La chef si è guadagnata la sua rivincita, dimostrando al mondo che passione e perseveranza possono tuttoTiè!-.

Antonia Klugmann e la sua stanza tutta per sé

Chef donne_Antonia Klugmann

Mi dovete spiegare perché se è Gordon Ramsay a fare il giudice il fatto che sia uno str*** lo renda figo, mentre quando si tratta di Antonia Klugmann diventa un’arpia da riempire di insulti. La cosa non mi torna!
Quando era ancora chef al Venissa, nell’isola di Mazzorbo, un certo giornalista che s’inorgoglisce nell’autodefinirsi “acceso misogino” di lei ha scritto: “…al Venissa si serve in tavola l’ideologia del gender: per me indigesta, ma de gustibus .”

Non entrerei nel merito di quell’articolo che comunque potete leggere qui; piuttosto mi concentrerei sul fatto che Antonia Klugmann, insieme a tante altre sue colleghe, ha ricevuto spesso il classico trattamento che si riserva alle donne che dimostrano autorità nel mondo del lavoro.
È successo anche quando ha sostituito Cracco a MasterChef, dove ha dimostrato un carattere bello tosto, che l’ha condotta, però, a trasformarsi nel bersaglio di tanti leoni da tastiera frustrati, che le hanno detto veramente le peggio cose.

Ma che ce frega, noi abbiamo la cucina!

Il suo è un ristorante di confine: L’argine a Vencò si trova in provincia di Gorizia, poco distante dal fiume che ne ha ispirato il nome, a solo un chilometro dalla Slovenia. Ma è anche il confine ideale fra ciò che l’ha formata e quello che la ispira quotidianamente.

Quando parla di donne in cucina, Antonia Klugmann lo fa citando Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, dove l’autrice s’interrogava sullo scarso numero di scrittrici nel suo tempo. Il problema è profondamente culturale: la donna è ancora subissata da una serie di compiti che le sono stati attribuiti a livello sociale e che spesso le impediscono di pensare e progettare.

Serve uno spazio dove poter dare libero sfogo alla creatività e per chef Klugmann è proprio la cucina. Non ha mai dato ai suoi colleghi dei maschilisti, anzi, nell’intervista rilasciata a La Cucina Italiana nel numero di cui è stata direttore per un mese proprio l’anno scorso, ha detto: “La prima volta che sono entrata in cucina non mi sono vista femmina o maschio, ho visto me stessa”.

 

Asma Khan e la sua brigata in rosa

Chef donne_Amsa Khan

Siete mai stati a Londra? La cucina indiana è sicuramente fra le più diffuse e amate dagli inglesi. I piatti di Asma Khan ne esplorano tutte le declinazioni, raccontando la storia della sua famiglia e delle sue origini.
Dopo il trasferimento a Londra insieme al marito, Asma si ritrovò a vivere a lungo in uno stato di desolata solitudine, che riuscì a colmare solo tornando in India a farsi insegnare la cucina di casa.
Di rientro a Londra cominciò ad accogliere le persone nella propria cucina, con dei Supper Club, che diventarono letteralmente virali. Qualche anno dopo aprì Darejeeling Express, il suo ristorante a Covent Garden.

Sorellanza ai fornelli

Asma è la chef dell’uguaglianza: la sua cucina è composta esclusivamente da donne che hanno alle spalle storie difficili, lei le accoglie, offrendo loro un mestiere e tutto il supporto di cui hanno bisogno.
Giungendo da una terra che non fa emergere la donna e che l’ha obbligata tutta la vita a misurarsi con la colpa di essere una secondogenita femmina, Asma ha fatto il possibile per affermarsi. Il suo fascino indiscusso è stato ritratto in una delle più belle puntate della serie Netflix Chef’s Tables, vi consiglio di guardarla!

Jessica Préalpato: la migliore pastry chef del mondo

pastry chef

Fare la rivoluzione è così tipicamente francese, ma rivoluzionare la cucina di Alain Ducasse è da veri impavidi.
Jessica Préalpato arriva dalla tradizionale formazione pasticcera a suon di burro e croissant. Nel 2015 inizia a lavorare al Plaza Athénée, ristorante parigino nel quale il mito indiscusso dell’alta cucina Alain Ducasse ha scelto di non servire carne – pur continuando a servire pesce.
Si parla di naturalité: una cucina sensibile alle nuove necessità alimentari legate alla sostenibilità e alla salute.

Liberté, Naturalité, Desseralité

Qui nasce anche il concetto di desseralité – dessert + naturalité – coniato dalla Préalpato: via gli zuccheri, le creme e le decorazioni che fanno tanto ancien régime e dentro tutta la dolcezza della frutta all’apice della sua maturità, erbe e vegetali.

Jessica Préalpato_il dessert

E se i primi esperimenti non hanno incontrato i gusti del Maestro, alla fine la pastry chef più famosa del mondo l’ha a dir poco conquistato. Nel 2019 Ducasse Editions ha pubblicato il suo libro intitolato, appunto, Desseralité, che raccoglie le ricette di chef Préalpato e gli abbinamenti più innovativi.

 

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