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A colloquio con Guido Lombardi sulla fabbrica dei sogni

UN REGISTA AVVEZZO ALL’ AURA CONTEMPLATIVA 
CHE CORRISPONDE ALLE ATTESE DEL GRANDE PUBBLICO

Una  conversazione con Massimiliano Serriello

Il rapporto tra la critica cinematografica e i registi è tutt’altro che semplice. Lo sa bene Guido Lombardi (nella foto), napoletano doc, a dispetto del cognome, che dietro la macchina da presa dà, come si suol dire nell’Urbe, “er fritto”. Ed è perciò irritante sentire liquidare in poche righe il frutto dell’impegno. Non solo del decantato carattere d’ingegno creativo. Utile a stabilire se i recensori abbiano a che fare con un mestierante dedito all’artigianato, magari di classe, ma nulla di più, o con un autore avvezzo ai parametri dell’arte.

Il concetto di autorialità, oltre a essere oggetto di analisi e di distinzione tra elementi poetici ed enfasi manieristica, va preso comunque con le pinze. L’infallibilità gli uomini di buon senso la chiedono solo ed esclusivamente all’Onnipotente. Dai registi eletti ad autori è lecito attendersi il guizzo capace di sublimare nella forma, costituita dalla tecnica, lo spessore contenutistico della trama. La critica, da par suo, deve evitare di lisciare il pelo dal verso giusto ai pesci grossi e spaccare il capello in quattro alle opere di quelli dal tenue cabotaggio.

Guido, in ogni caso, non è un pesce piccolo. Né uno fuor d’acqua. Anzi. Ci siamo conosciuti nella Città Eterna, la mecca della Settima Arte in Italia, il suo habitat ideale, dopo che ho redatto un articolo imperniato sulla sua ultima fatica: Il ladro di giorni (nella foto la scena più bella in assoluto). La visione alla Festa del Film di Roma mi ha richiamato alla mente antesignani agli antipodi tra loro: Il ladro di bambini diretto sulla scorta del lavoro di sottrazione da Gianni Amelio, convertito ora agli appelli del cuore col biopic su Craxi, Hammamet, e Rain Man di Barry Levinson. Rigore dottrinale ed emozione commerciale a braccetto, perciò. Lombardi mi ha invece confessato di aver tratto partito da Un mondo perfetto di Clint Eastwood. Ed è evidente nei passaggi tanto del libro, che ha scritto compenetrandosi nello stream of consciousness di un undicenne, lontano parente dell’Enrico del cult letterario Cuore di Edmondo De Amicis, quanto della trasposizione definita con gli affiatati ed energici Luca De Benedittis e Marco Gianfreda

Tuttavia, nell’ambito del confronto de visu, si è riconosciuto in determinati rimandi. Col personaggio interpretato da Tom Cruise, che passa dall’opportunismo all’affetto sincero per il sangue del suo sangue nell’arco canonico del road-movie, e il carabiniere meridionale dai modi un po’ tonti, quantunque immacolati, alle prese con l’innocenza di un’infanzia svilita.

Al di là delle trasmissioni di pensiero, delle modulazioni postmoderne, volontarie o involontarie, del dovere dei divulgatori di mettere in luce ciò che per gli autori di cinema è in nuce, per citare il regista fiorentino Igor Maltagliati (nella foto), un’altra “capa tosta” intenta ad anteporre la fragranza della sincerità alle tendenze di punta dell’ipocrisia, l’impressionismo soggettivo vale come il due di picche. Conta comunicare, senza intralci tra emittenti e destinatari. Senza pensare alle perdite di prestigio, alle (auto)legittimazioni più o meno palesi, alla pretesa di equiparare un mestiere gradito, forse vocativo, agli incarichi élitari. Ed è questa sana consapevolezza che anima Guido Lombardi.

Deciso, al pari di Maltagliati, a spiegare le cose difficili in maniera semplice. A cogliere l’aura contemplativa scongiurando però il rischio, comportato da questa scelta sul versante stilistico ed espressivo, di trascinare gli spettatori in una noia di piombo. L’unico rebus cui non si può porre alcun rimedio nel buio della sala. Per il resto, un unguento, una pezza, un rammendo, un rimpiazzo risolutivo finanche, si possono sempre apporre.

Vincitore del Premio Solinas per il cinema nel 2007, proprio per il soggetto del denso ed evocativo Il ladro di giorni, Guido ha esordito quattro anni più tardi nel cinema cosiddetto di finzione. Quello documentario gli era servito per farsi le ossa. Per capire gli elementi costitutivi del reale. Allo scopo di aggiungervi l’opportuno cortocircuito immaginifico, sebbene indicato in filigrana, per scendere nell’intrigante, nonché tragica, profondità dell’animo.

A distanza di due primavere dalla versione per la fabbrica dei sogni di  Gomorra ad opera dell’applaudito Matteo Garrone, con l’accenno della partita di droga degli africani truffati dai due cani sciolti partenopei, Là-bas – Educazione criminale ha snudato parecchi incubi al riguardo.

Lombardi, alieno alle pleonastiche furbizie dei prodotti confezionati per piacere agli spettatori dalle sacche lacrimali facili, è riuscito a ricavare vigore dagli aspetti tecnici. Lungi dal cadere nell’impasse opposto alle soap smielate: l’alterigia fredda come il ghiaccio delle tecniche di straniamento.

L’egemonia del calore umano sui tecnicismi belli, che non ballano, resta la cosa migliore del debutto all’insegna dell’assesto dell’intreccio insieme ad alcuni balzi visionari degni di nota. Rinvenibili nelle occhiate in penombra degli immigrati di colore, nei timbri cromatici in grado di ergersi ad avvisi interiori, nell’idoneità degli esterni, a Castel Volurno, d’irradiare l’ingresso dell’inquieto Yussouf nel cupo ed empio mondo dello spaccio.

Il movimento di macchina da destra verso sinistra di Là-bas, ossia laggiù, che mostra l’amore per il gioco del calcio degli africani collusi con la camorra, ritorna in Take Five. Anche se in direzione opposta. Stavolta sono i mariuoli che vivono all’ombra del Vesuvio a esultare per un gol di Higuaín. Ai tempi abile e arruolato nelle file del Ciuccio. Simbolo dell’Associazione calcio Napoli.

La radio, che prende il posto del televisore, è una delle nutrite varianti dell’opera seconda di Guido (nella foto con il cast). Mettere parecchia carne al fuoco comporta sovente un rischio tangibile. Specie per chi in cabina di regìa aveva dato prova di asciuttezza ed essenzialità nell’unire la raison d’être del rapporto tra immagine e immaginazione con i tópoi della crudezza oggettiva. Il crime-movie, nell’accrescere il processo d’identificazione del pubblico, anche quello più avvertito, coi banditi, per passione o per caso, che sotto le docce ricordano i trascorsi in gattabuia, presenta dei punti di congiunzione col film numero tre: Il ladro di giorni.

Il ricorso al montaggio alternato, alle piscine dove si misura il coraggio di buttarsi, allo slow motion, per mandare a carte quarantotto l’interregno della crudezza oggettiva, sostituendola col vigore della soggettiva, segna il passaggio dal secondo al terzo.

Quot capita, tot sententiae. Ciò che piace a uno spettatore magari non rientra nei gusti di un altro appassionato. Mettere d’accordo tutti è una missione impossibile. Pure per il Tom Cruise dell’anonima serializzazione. Figuriamoci per quello di Rain Man. Simile all’impulsivo Vincenzo che, scontato il debito con la giustizia, compie un viaggio dal Nord al Sud. La compagnia del figlioletto Salvo scandisce paure, rancori, scatti di rabbia, canzoni rapinose, ricordi dolorosi, specchi rotti, cuori infranti. Lo spiccato senso dell’umorismo diventa la medicina contro la retorica. Pure se la disciplina dell’eloquenza, caldeggiata dagli antichi retori, non è estranea a Guido Lombardi. La reminiscenza degli studi classici si scontra con l’attitudine a mischiare, nella sete di sapere in chiave ludica, il sacro col profano. 

Riccardo Scamarcio è letteralmente catturato dalla cinepresa. Nei cerchi sotto gli occhi e nelle lievi rughe d’espressione del sosia nostrano di Alain Delon, in versione tamarra, con l’aria da ex ragazzo, alieno alla barba sale e pepe, si cela il talento di restituire gli stimoli fornitigli dall’autore per tracciare le dicotomie di un cattivo maestro. Ma pur sempre un maestro, un genitore, un punto di riferimento. Con tutti i suoi difetti.

Riuscire ad amalgamare la capacità di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente, sull’esempio della commedia all’italiana, agli stilemi del giallo, alla base dell’impegno civile di Là-bas, è un bell’azzardo. Il margine d’enigma riposto nei profili di Venere, al posto della modella bresciana in Take Five (Esther Elisha nella foto) che il fotografo coi trascorsi illeciti Sasà seduce seguendo le orme dell’antesignano per antonomasia nell’inobliabile Blow Out di Michelangelo Antonioni, impedisce ai fruitori di cedere al dominio fugace delle simpatie e delle antipatie. Il crescendo narrativo trascende altresì i ripieghi nell’humus del déjà-vu.

L’accento posto da Guido sull’intesa di Scamarcio con l’attore in erba Augusto Zazzaro ha tagliato la testa al toro. Esortando il piccolo a fare le cose da grande. E il grande a ritornare piccolo. Ai tempi dei libri sui pirati, delle corse a perdifiato alla Indiana Jones.

Basti pensare alla sequenza in cui la necessità di affermarsi, in mezzo alla ruvidezza di un habitat analogo agli scenari western, va di pari passo con quella di gettare la maschera. Il match-cut visivo che unisce la lotta con la natura, rappresentata dalle scogliere marine, alla sfida all’Uomo, artefce dei vertiginosi trampolini, non è, né sarà mai, un fatuo tecnicismo.

Walter Zenga, ai tempi in cui conduceva la trasmissione sportiva Forza Italia sul canale Odeon, obbligava il giornalista e polemista Maurizio Mosca, buonanima, a palleggiare per constatarne, con l’indomabile spirito guascone, l’imbarazzo di tradurre le teorie in pratica. Guido può fare dunque spallucce. Confrontandosi con disponibilità, garbo e un pizzico di causticità. Che non guasta. A ciascuno il suo. Sciascia ha ispirato in merito nientepopodimeno che Elio Petri. Non uno qualsiasi. Lombardi è in buona compagnia. Formuliamo l’augurio che Il ladro di giorni, anziché piacere a una presunta cerchia (dis)incantata di falsi esperti, corrisponda all’immaginazione delle masse. Guido Lombardi da bambino voleva emulare Clark Gable. Poi ha scoperto che ad assicurargli quella magica abilità era il regista. E ha fatto la sua scelta. In tenerissima età. Sennò il cinema che fabbrica dei sogni sarebbe?

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1). D / Il compianto Antonio Pennarella (nella foto), che hai diretto in “Take Five” nel ruolo di O’ Ninnillo, è stato un attore in possesso di una fulgida umanità. Lo ricordo pure nel film più autobiografico di Daniele Luchetti, “Anni felici“, nelle vesti di un critico in grado di farsi capire, nel bene e nel male, dallo scultore impersonato da Kim Rossi Stuart. Ritieni comunque utile confrontarti con i recensori?
R /  L’aspetto più fastidioso, che spesso ostacola un confronto costruttivo tra registi e critici, risiede in una certa supponenza con cui è giudicato il lavoro di chi sta dietro la macchina da presa. Le stroncature frettolose da parte delle persone chiamate a recensire centinaia e centinaia di film divengono poco attendibili quando il metro di giudizio usato li porta a considerarli tutti dei prodotti muniti di dinamiche narrative catalogabili anziché delle opere di creazione. Magari non perfette ma più difficili da archiviare in determinate cerchie.

2). D / È l’ambito letterario quello col quale molti critici giudicano i film. Confondendo l’autoreferenzialità con l’autorialità.
R / Concordo. D’altronde è anche vero che gli uomini a forza di vedere un numero considerevole di donne nude, perdono interesse. Non scatta più la molla del desiderio. Che per i critici rappresenta la voglia di approfondire sul serio il testo filmico dispiegandone i significati senza rapportarli solo a quello che conosce, o peggio riconosce, all’interno di un’opera frutto, in ogni caso, di sforzi considerevoli da parte del regista di turno sottoposto al vaglio della recensione.

3). D / Nella selva di metafore descritta da Moravia rivolgendosi ai messaggi insiti nelle dinamiche tra immagine e immaginazione ci sono anche aspetti meno evidenti. Ed ergo più difficili da cogliere.
R / Un critico in over-dose di film corre il rischio di semplificare. Affidandosi a schemi impersonali e ad altri agganci a lui familiari. Senza cercare di scoprire realmente le intenzioni dell’autore. Si tratta, fondamentalmente, di uno spettatore. Che si sa esprimere, come sottolinei giustamente tu, sulla base di un impressionismo soggettivo privo di basi scientifiche. E, quindi, inoppugnabili. Come, in fondo, il regista non è nient’altro che uno spettatore capace di utilizzare gli strumenti comunicativi a lui più congeniali all’interno di migliaia di altre opere. Esibendo in modo personale concetti e stili di rappresentazione già parecchio sfruttati dai suoi illustri predecessori.

4). D / Serve un bagno di umiltà d’ambo le parti per stabilire un sano confronto. Con il giudizio dotato di un’auctoritas intenta a chiarire le idee agli stessi autori. In virtù di una prodiga padronanza degli stilemi di precorritori poco noti ma stimolanti. Quanto conta invece una via d’intesa tra il regista e gli attori?
R / È importantissimo. Così come conta, ripeto, per un regista incontrare dall’altra parte un critico che tenga a bada l’over dose di visioni filmiche segnalandogli nello specifico come se l’è cavata. O perché non ha raggiunto l’esito prefisso. Argomentando in maniera costruttiva e particolareggiata invece di dare sfogo a elucubrazioni teoriche lontane dai propositi del regista. Facendogli comprendere cosa ha fatto bene e cosa avrebbe potuto fare meglio. Se, al contrario, compie uno sfoggio segnalando in negativo unicamente le cose che ha colto, dando per inesistenti quelle che non conosce, e dunque non sa cogliere, la supponenza prende il sopravvento. Per quanto riguarda l’intesa tra il regista e il cast, è più agevole segnalare le mie esperienze al riguardo che fare una sintesi sulla questione. Con “Là-bas” l’attore che mi dava l’impressione sul set di seguire al meglio le mie indicazioni, una volta giunti al montaggio è risultato meno efficace rispetto all’interprete in apparenza più indisciplinato nel memorizzare le battute. Perché, quest’ultimo intendo, era in possesso di maggior carisma. Indispensabile a imprimere alla sua prova non solo un timbro di verità ma anche una forza di significato fuori del comune. A questo punto, ai fini di una conclusione utile al rapporto tra regista e attori, ne consegue che quel tipo di forza al cinema costituisce uno dei requisiti decisivi affinché il film riesca. Con Gianfelice Imparato (nella foto), che ho diretto nei panni di Armando nel primo episodio “Nina e Yoyo” di “Vieni a vivere a Napoli”, ho beneficiato del suo immenso talento, progredito sino a raggiungere altissimi livelli sulle tavole del palcoscenico, in teatro, con il dono di un’immensa ironia. Grazie alla quale mi ha restituito delle battute perfettamente aderenti al personaggio interpretato. E le suggeriva anche, con notevole slancio, pieno di generosità, al resto del cast. Ed è stato merito dell’intesa che abbiamo stabilito.

5). D / Nel suo caso è legittimo parlare di status d’autorialità o almeno di co-autorialità?  
R / Senza ombra di dubbio. Il suo lavoro sul personaggio, che gli calzava a pennello, è divenuto un prezioso valore aggiunto. Lui ci ha messo tanto del suo. Ed è combaciato alla perfezione al lavoro che ho fatto in fase di sceneggiatura e poi al momento delle riprese. C’era una tale condivisione che non poteva che tramutarsi in un’intesa proficua.

6). D / Nel presentare “Là-bas” il tuo adagio prima del debutto alla Settimana della Critica a Venezia, dove vinse il Leone d’Oro del futuro, costituisce ancor oggi un oggetto di riflessione: «3 cose non bisogna fare al primo film: parlare in altre lingue, usare attori neri e non professionisti; trattare il tema dell’immigrazione». Hai voluto dimostrare che il cinema d’autore sa travalicare le regole cui è sottoposto quello commerciale o era semplicemente un’idea di marketing per il lancio del film?
R / Era più che altro una constatazione del paradosso che si era verificato per cui non si trattava di una commedia, né del classico film drammatico o del dramerdy on the road, che pure va molto di moda. Non seguiva nessuna delle tendenze di punta. Era, tutt’al più, come hai detto te, una sorta di Gomorra nero. La cosa curiosa è che in passato mi ero visto rifiutare dai produttori idee molto più commerciali e in linea con i gusti del pubblico che decreta il successo al botteghino delle opere decise a corrisponderne le attese. Invece l’operazione incentrata sugli immigrati, senza l’impiego di attori noti, ritenuti da sempre l’elemento decisivo nella scelta degli spettatori al momento di pagare il prezzo del biglietto, è andata in porto. Va detto che tutto ciò è stato possibile grazie pure alla tenacia e alla competenza in veste di produttore di Gaetano Di Vaio (nella foto). Nell’ambito del cinema indipendente, partendo proprio da “Là-bas”, ha dato vita ad autentici film d’autore.

7). D / Passando dal cinema documentario a quello di finzione hai tratto linfa dalle correzioni di fuoco, oltre che dall’uso virtuosistico della Canon 5 e della Canon 7 con gli appositi sensori usati in seguito da Barry Jenkins con “Moonlight“. Ogni aspetto tecnico caldeggia un valore drammatico ed evocativo?
R / Sono contrario anch’io agli attestati di stima fini a se stessi. Ma hai la capacità, come studioso del cinema, di notare dei particolari che sfuggono alla maggior parte dei critici che dovrebbero indicare al pubblico il peculiare valore di un film. La mia scelta luministica nasce da un cortometraggio precedente. Il direttore della fotografia in questi casi deve garantire la debita tridimensionalità. In “Moonlight” gli attori neri al buio divenivano blu. Ed era una cosa esplicita pure sotto l’aspetto narrativo. L’effetto del chiaro di luna assumeva anche una funzione simbolica. Nel mio film volevo concretizzare una lunghezza focale per conferire a quel campo e controcampo al quale fai riferimento, caratterizzato dall’eloquente scambio di sguardi nel cuore della notte di Yussouf con la squillo sensibile, un valore figurativo ben preciso. Noi abbiamo fatto una cosa che in teoria non è ritenuta corretta, ovvero adattare la correzione di colore alla musica. Per riprodurre un respiro segreto che esula dall’ordinario. Magari sono ingrippi miei. 

8). D / Dai un certo risalto pure alla cosiddetta metonimia, che Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (nella foto) utilizzava nel cult “La corazzata Potëmkin” inquadrando gli stivali dei soldati come parte per il tutto, e all’idonea geografia emozionale. La scena in cui Yussouf, per sfuggire alle forze dell’ordine, fugge per i campi e arriva sulla riva della spiaggia è abbastanza emblematica. Preferisci prendere ispirazione dai tuoi numi tutelari o scoprire motu proprio l’anima del territorio eletto a location?
R / Hai pienamente ragione. Ed è questo che intendo per scambio costruttivo tra critica e regìa. Perché mi spingi a riflettere sulle scelte che ho compiuto. Come quella d’inquadrare nel dettaglio i tacchi delle scarpe della prostituta dal cuore buono e dallo sguardo triste. Ne “Il ladro di giorni” la cura di questo tipo di particolare, con l’ausilio della steadicam, mi ha dato modo di fare quello che dici tu: cogliere l’aura contemplativa senza tediare gli spettatori. Per spiegare le cose complesse in maniera immediata. Quando, viceversa, le cose semplici sono complicate ad arte per dare l’idea di complessità, allora il regista trascina nella noia gli spettatori. Io scrivevo poesie in adolescenza e quindi ho confidenza con le figure della retorica tradizionale tipo la metonimia. Bisogna saperle adattare al linguaggio del cinema. Sennò risultano pesanti. Lo stesso vale per i territori che chi sta dietro la macchina da presa intende filmare dandogli una concreta ragione d’essere. La fase di location scouting, quando si scoprono i luoghi adatti, è importante in tal senso. Quella delle riprese lo è ancora di più. E in quel caso l’ispirazione è autonoma al cento per cento. Anche se pure la rielaborazione degli stili registici dei maestri non è un ripiego. Bensì si va ad aggiungere a una consistente connessione di stimoli per definire il carattere dei personaggi al pari dell’identità degli spazi dove agiscono. Ogni inquadratura in qualche modo deve catturare l’attenzione del pubblico spingendolo a riflettere. Occorre tenere sempre la barra dritta. L’ho capito da poco. La location nella quale il personaggio interpretato da Massimo Popolizio in “Il ladro di giorni” ha una baracca nasce dalla ricerca che ho fatto con Google Maps scoprendo l’idoneo corso d’acqua. Giacché avevo la necessità di uno specchio. Ed era perfetto per raccontare quell’abbandono che riverbera, insieme alla solitudine, gli stati d’animo. Assicurandogli uno spicco immediato. La morale è che puoi trovare un posto magico che non serve alla bisogna e trarre ispirazione da un altro che è solo utile, funzionale, non fatato, per il progetto filmico da tradurre in realtà. Ed è l’aspetto sorprendente di quella materia, a te molto chiara, che chiami geografia emozionale.

9). D / Non sono stato io a battezzarla. In “Take Five“, piuttosto, sei riuscito ad allargare gli spazi dell’immaginazione prendendo spunto dalla cultura postmoderna. Dai movimenti di macchina in avanti, a partire dall’alto, come le inquadrature di Scorsese sul finale di “Taxi Driver“, sino ai tuffi e agli scontri in slow motion che tornano nella tua ultima fatica, “Il ladro di giorni“. È un punto di convergenza tra due opere agli antipodi?
R / Non potrei mai dimenticare quella scena, che finisce per mettere in risalto il personaggio interpretato da Gaetano Di Vaio mentre il nipote disputa il match clandestino di pugilato all’aperto: ci sono voluti venti ciak. Effettivamente sul versante stilistico ho dei modi di girare che uniscono tutti i miei film. E tu li hai colti pienamente. Non hai però idea di quanto siano complicati i movimenti di macchina circolari  che danno la sensazione dell’intrigo mentre i personaggi stanno seduti al tavolo verde. Il movimento, che all’inizio rappresenta l’unione, si ferma quando inquadro Carmine Paternoster. Che cova qualcosa di assai discordante. L’uso del rallenty mi serve invece ad accrescere la tensione. Ad aumentare il senso di attesa spossante. A enfatizzare momenti traumatici. Che contraddistinguono, anche se in maniera diversa, “Take Five” e “Il ladro di giorni”. Dove lo slow motion mostra il punto di vista del protagonista.

10). D / “Il ladro di giorni” nasce come una sorta di diario emotivo del pre-adolescente protagonista sulla falsariga del richiamo citazionistico. Dal rimando a Clark Gable, come simbolo dell’invulnerabilità, ad altri sapidi colpi di gomito. Tipo il nesso con la serie tv in voga nei primi anni Ottanta, “Starsky & Hutch“, sino ad arrivare al parallelo tra l’Obi-Wan Kenobi di “Guerre stellari” e Padre Pio. La bulimia cinefila è un mezzo per rivelare qualcosa di te?
R / Siamo coetanei, Massimiliano. Apparteniamo alla generazione che ha assistito alla prima invasione mediatica con Canale 5, Rete 4, Italia 1. Sono rimasto legato a quelle suggestioni. Non solo quelle facete, ma anche la vicenda seguita passo per passo dai giornalisti televisivi del bambino, Alfredo Rampi, caduto in un pozzo artesiano. Ci fu un bombardamento d’informazioni da parte del Tg1, di ragguagli sullo speleologo dalla corporazione minuta che si calò nel vano tentativo di salvare Alfredino. Volevo inserire quell’episodio nel libro. Ma non coincidevano le date. L’invasione della cultura popolare, che ha occupato in un certo senso le nostre case, si è unita con la cultura classica. Quella trasmessaci dai nostri genitori. Siamo stati i primi quindi ad aver vissuto l’approdo della cultura postmoderna che dà lo stesso peso informativo ed emotivo alle cose leggere e a quelle diciamo più pesanti. Scioccanti anche. Mi sembrava perciò importante raccontare nel libro la genesi della nostra cultura. Fatta del grido di Achille nell’Iliade ma anche di “Rocky”, di “Guerre stellari”, di “Happy Days”, di  “Starsky & Hutch”. Per raccontarla fuori dal libro avrei dovuto fare una serie tv. Ho preferito dare spazio nel film ad altre cose comunque importanti.

11). D / La trasposizione di un libro sul grande schermo comporta diversi cambiamenti. In merito a ciò che è importante per l’autore e a quello che va incontro al destinatario optimum: il pubblico. Ogni sceneggiatura racconta una storia nel modo tipico del cinema. Quando hai girato, Guido, qual è stato l’input per riuscire ad anteporre al dunque il linguaggio delle immagini alle parole?
R / Un’altra bella domanda. Che mi spinge a riflettere. Guarda, è il set il momento della verità. Per così dire. C’è poco da fare: la sceneggiatura implica quello che hai rimarcato, certo. Un conto è scrivere un libro, spingendo i lettori a immedesimarsi, a immaginare le cose che sono raccontate; un altro è raccontare queste cose con il linguaggio del cinema. Sono aspetti diversi: fuori discussione. A me fa piacere che tu abbia letto il libro dopo aver visto il film individuandovi anche più motivi d’interesse. Spero che, ora con l’approdo del film nelle sale commerciali, siano tanti a fare quello che hai fatto. Solitamente avviene il contrario secondo il marketing: sono i lettori di un libro che divengono, o potrebbero divenire, per meglio dire, spettatori del suo adattamento sul grande schermo.

12). D / Sì, è una delle cosiddette strategie di riduzione del rischio d’insuccesso. Anche se non si tratta di formule infallibili.
R / Per rispondere alla tua domanda, in un primo momento avevo pensato di dare più spazio alle parole. Alla voce fuori campo. Poi, alla fine, ho preferito che fossero le immagini a parlare. È un fatto d’istinto. Sono grato ai miei co-sceneggiatori.  Abbiamo fatto un lavoro di squadra di un certo tipo. Nell’aggiornare la vicenda. Dagli anni Ottanta ad adesso. Ai nostri giorni. Nello spostare pure degli avvenimenti particolari per necessità drammaturgiche. Poi è l’istinto del regista a chiudere il cerchio. Per far sì che i silenzi comunichino il succo della storia. Il senso complessivo.

13). D / Nondimeno la componente parlata, munita di toni sfottenti ed empatici, acquista notevole spicco. È un modo per alleggerire la tragicità degli eventi o per caricarla ulteriormente di senso?
R / So bene a cosa ti riferisci. D’altronde ne abbiamo parlato a lungo. A te è piaciuta in particolare la sequenza nella quale Vincenzo, il padre impersonato da Scamarcio (nella foto), storpia in modo pecoreccio il motivetto musicale della nota serie televisiva in chiave romantica “Love Boat”.

14). D / Al cinema la bassa densità lessicale, le pause dialogiche, i giochi di parole, le storpiature sarcastiche funzionano. Io stesso da ragazzo nella vita di tutti i giorni, prendendo una pausa dallo studio matto e disperatissimo alla Leopardi, preferivo la schiettezza insolente dell’università della strada alle pose solenni.
R / Ma, infatti, sai come la penso sull’alta densità lessicale. Può divenire un’autorete. Io ti preferisco quando parli con spontaneità e chiarezza a quando scrivi con termini aulici. Benché tu sia bravo ad argomentare pure per iscritto. Il bello del cinema, per un regista, è che si può dare spazio sia all’una sia all’altra cosa: l’alta e la bassa densità lessicale. Il timbro di verità è espresso con le parole spontanee che delineano il personaggio. La densità delle immagini colma il vuoto lasciato dalle cose non dette. L’utilizzo della cultura popolare consente inoltre di conferire attendibilità alla componente parlata facendo passare così un sottotesto più profondo. Riconoscere un lavoro tanto sottile non è da tutti. L’importante, come mi hai ripetuto quando ci siamo visti la prima volta, è gettare la maschera. Ed è un concetto della commedia dell’arte. Da cui prende le mosse la commedia all’italiana.

15). D / Come in ogni road-movie che si rispetti il tema del viaggio va a braccetto col romanzo di formazione. La vera sorpresa consiste nella necessità espressiva dei campi lunghi. Alla fine di uno in particolare il personaggio interpretato da Popolizio (nella foto con Scamarcio) si leva per l’appunto la maschera. È un concetto più risolutivo del rallenty?
R / Ripeto: mi ci hai fatto pensare quando hai scritto la recensione del film. E poi quando me ne hai parlato. Tengo molto alla scena in cui Scamarcio insegue Popolizio che si batte il petto insieme ad altri peccatori. Per uscire fuori dal passato. Un passato fatto di errori. È un modo per cercare la propria identità. E quindi, a pensarci bene, per gettare la maschera.  Ti ho spiegato a cosa mi serve il rallenty a livello espressivo e capisco anche perché ti convinca meno rispetto ad altre cose più sfumate. Come il campo lungo al quale segue la rivelazione connessa alla maschera gettata.

16). D / Molti film meritevoli, pur partecipando in concorso nei vari festival internazionali, hanno problemi di distribuzione e finiscono nel dimenticatoio. Senza poter accedere alle sale commerciali né in nessun  altro mercato di sbocco. Che ne pensi?
R / Azz…! È una questione bella intricata. Gaetano Di Vaio come produttore ha permesso al regista Giuseppe Mario Gaudino di girare un film molto particolare: “Per amor vostro”. Il suo gusto scenografico, con certe scelte poco commerciali, dà molte garanzie sul piano della qualità. Decisamente meno sotto l’aspetto commerciale. Serve un produttore col coraggio, ma anche con la sensibilità, di Gaetano per credere in una simile scommessa. Che non si attiene alle formule gradite al botteghino. Davide Manuli è un altro regista pieno d’estro che con l’abilissima trasposizione al cinema del suo libro “La leggenda di Kaspar Hauser” ha realizzato una pellicola di culto. Priva però delle cauzioni di commerciabilità, come le definiscono gli esperti di marketing, compreso te, richieste dai produttori che vogliono fare incasso. Il risultato è quello che hai detto: i film d’autore, applauditi ai festival, nei circuiti alternativi, alla sala commerciale, dove il sacrificio è ripagato in termini pratici dal botteghino, rischiano di non arrivarci mai. È una bocciatura che brucia. Pure ingiusta tante volte. Tuttavia ci sono delle regole. Comprese nei rapporti tra distributori ed esercenti. Le questioni in ballo sono tante. I critici fanno bene a segnalare l’ingegno di film che in sala non ci arrivano proprio anche se meriterebbero di arrivarci. I successi di critica non bastano in ogni caso. Le cosiddette pippe intellettuali danno poco a livello umano. Che poi è la cosa che conta maggiormente. Francesco Munzi ha realizzato film con un calore umano indiscutibile. Da “Il resto della notte” ad “Anime nere”. Il primo l’hanno visto in pochi. Il secondo ha ottenuto un riscontro migliore al botteghino. Vincendo pure un sacco di David di Donatello. Anche se i premi non sono una garanzia d’incasso. Chi fa incasso, come “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese, con un’idea intelligentissima dal punto di vista della sceneggiatura, acquista molta credibilità sul mercato. Ed è più che legittimo. Potrai non essere d’accordo, ovviamente, ma io la penso così. Hitchcock, maestro del cinema commerciale, è stato eletto ad autore da François Truffaut. Un critico che è diventato regista. Simbolo della  politique des auteurs. Ci vuole un genio assoluto per unire i requisiti del cinema commerciale con quelli del cinema d’autore, mettendo d’accordo critica e pubblico. Hitchcock lo era. 

MASSIMILIANO SERRIELLO

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