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Dalla guerra fredda alla fine dell’URSS

Il termine guerra fredda fu introdotto nel 1947 dal giornalista americano Walter Lippmann per descrivere l’emergere delle tensioni tra due alleati della Seconda guerra mondiale, e cioè le potenze vincitrici del conflitto che furono Stati Uniti e Unione Sovietica.  Le tensioni non sfociarono mai in un conflitto combattuto sui campi di battaglia, ma rimasero come un’ostilità tra i due blocchi. Gli eventi che vanno dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla caduta del muro di Berlino (1989) e dell’Urss (1991), sono quelli che gli storici hanno denominato proprio Guerra Fredda la cui origine si situa nel periodo compreso tra il 1947 e il 1962.

I due modelli ben distinti tra loro che influenzarono sempre di più i Paesi con cui entrarono direttamente in contatto furono da una parte il mito dell’Occidente capitalistico e dall’altra il socialismo reale sovietico. L’Europa era ormai fuori scena: la Germania venne divisa fisicamente in aree di occupazione (tra Gran Bretagna, Francia, Usa e Urss), ma anche i restanti Paesi furono più o meno rapidamente inghiottiti nelle sfere d’influenza delle due superpotenze.

 La Francia, generosamente riammessa dagli alleati al tavolo dei vincitori, e la stessa Gran Bretagna vittoriosa uscirono, invece, dalla guerra gravemente indebolite, incapaci di mantenere i loro imperi coloniali (che infatti sarebbero stati smantellati nel giro di pochi anni) e di conservare il loro ruolo di potenze mondiali. La definizione di aree di influenza, ipotizzata per la prima volta durante la conferenza del 1945 tenutasi a Yalta, in Crimea, non interessò soltanto la Germania, ma anche altri Paesi del globo; tra questi la Corea, che venne divisa in due Stati: la Corea del Nord di stampo comunista e la Corea del Sud a matrice occidentale. Anche al Giappone, in quanto nazione sconfitta, non toccò altra possibilità che l’occupazione militare, operata dal generale statunitense MacArthur.

Il “grande disegno” di cooperazione fra Occidente e Unione Sovietica era morto con Roosevelt: l’avvento di Harry Truman alla presidenza degli Stati Uniti, nell’aprile del ’45, coincise con un brusco cambiamento del clima e con un generale irrigidimento americano nei confronti dei sovietici. La conferenza di Parigi dell’estate-autunno del 1946 fu l’ultimo atto della cooperazione postbellica fra Urss e potenze occidentali. Il blocco occidentale pose le sue basi sulla dottrina Truman, per contenere l’espansionismo dell’URSS, il piano Marshall, con un vasto programma di aiuti economici all’Europa e la Nato, l’alleanza difensiva tra Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia.

Dall’altra parte, il modello sovietico non tardò a imporre le sue strutture, in opposizione a quelle occidentali: nacquero così il Cominform (un Ufficio d’informazione dei partiti comunisti, una sorta di riedizione in tono minore della Terza Internazionale, che era stata sciolta nel ’43 in omaggio all’alleanza antifascista), il Comecon (un’area economica in cui vennero regolati il tasso dei cambi e il prezzo dei beni) e il Patto di Varsavia (una alleanza militare integrata comprendente anche la germania est).  Inoltre, le caratteristiche del modello di sviluppo imposto ai paesi dell’Europa dell’Est comportavano una forte compressione dei consumi e del tenore di vita della popolazione; per evitare agitazioni sociali e moti di rivolta antisovietica. L’Urss dovette esercitare un controllo molto stretto sui paesi “satelliti” e questa non fu certo una buona pubblicità per la popolarità dei regimi comunisti.

LONU, all’interno di questo complesso quadro di strutture che ha permesso la nascita del bipolarismo, è stato fin dalla sua fondazione solo lo specchio fedele del carattere conflittuale della comunità internazionale. Esautorata dalle maggiori potenze, paralizzata dai loro contrasti sulle questioni più importanti, questa organizzazione ha spesso finito per essere inadempiente al suo compito principale: quello di prevenire e contenere le crisi. Ciò non toglie che essa abbia svolto un’importante funzione di centro di contatti e consultazioni, nonché di tribuna mondiale dove ogni Stato poté, e può tuttora, far sentir la propria voce.

Un elemento di destabilizzazione fu sicuramente la guerra di Corea (’50-’53). La tensione in questo caso si venne a creare dopo la nascita della Repubblica popolare cinese, proclamata il 1° ottobre del 1949. Il leader comunista che riuscì a conquistare il potere, Mao Tse-tung, ebbe la meglio sul partito nazionalista Kuomintang, ampiamente sostenuto e supportato economicamente dagli americani: in questo modo, la Cina si avvicinò diplomaticamente all’Unione sovietica. La prova più drammatica delle nuove dimensioni del confronto fra i due blocchi si ebbe nel 1950 proprio in Corea. In base ad accordi precedenti, quel paese era stato diviso in due zone, delimitate dal 38° parallelo.

La tensione tra le due coree fece temere che un qualsiasi pretesto potesse diventare il fattore scatenante di un nuovo conflitto mondiale anche a causa dell’acquisizione da parte dell’Urss della bomba atomica, nel 1949. Ma l’opinione pubblica americana riteneva inconcepibile il raggiungimento di un simile traguardo da parte dei sovietici, senza che qualche cittadino statunitense non si fosse macchiato dell’ignobile crimine di alto tradimento: si scatenò così una violenta campagna anticomunista, che prese la forma di una vera e propria caccia alle streghe e che ebbe il suo principale ispiratore nel senatore repubblicano Joseph McCarthy (da cui l’espressione maccartismo, con cui fu designato il fenomeno), presidente di una commissione parlamentare istituita per reprimere le “attività antiamericane”.

Ora che entrambe le superpotenze avevano raggiunto lo stesso livello tecnologico, l’imperativo divenne rendersi più pericolosi dell’avversario: ne scaturì una corsa agli armamenti, probabilmente uno degli aspetti più noti di tutta la guerra fredda. Tale competizione fece paventare più volte l’approssimarsi di un conflitto nucleare che avrebbe avuto come unico esito la distruzione dell’intero mondo. Gli arsenali atomici andarono ingrandendosi e si avviò una frenetica corsa allo spazio, vinta peraltro dal blocco sovietico, capace di inviare fuori dall’atmosfera terrestre un satellite artificiale, lo Sputnik, ed un astronauta, Yuri Gagarin.

Il 1953 fu anno di importante ricambio politico: nel novembre del ’52 Truman concluse il suo mandato, mentre nel marzo del nuovo anno morì Stalin. La guerra fredda perse così i suoi maggiori protagonisti e il confronto tra il blocco occidentale e quello sovietico cominciò ad assumere nuove forme, anche se molto lentamente. La direzione collegiale succeduta a Stalin non fece alcun gesto di apertura verso l’Occidente e allo stesso tempo, negli Stati Uniti, la nuova amministrazione repubblicana guidata dal generale Eisenhower pareva accentuare l’atteggiamento di sfida globale nei confronti dell’Urss. In realtà proprio il nuovo presidente americano si rivelò capace di allentare la tensione e compiere scelte moderate. Ma anche il mondo sovietico fu teatro di profondi cambiamenti: dopo una serie di duri scontri, il segretario del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica), Nikita Kruscev, si impose come leader indiscusso del paese, giungendo a cumulare nel ’57, le cariche di segretario del partito e primo ministro. La nuova guida dell’URSS si fece promotrice di alcune significative aperture, ma per giungere alla distensione, si dovranno alcuni attendere alcuni anni. Infatti, gli anni di transizione dopo la morte di Stalin non trascorsero senza crisi internazionali: in particolare non si possono dimenticare quella di Suez e dell’Ungheria, entrambe datate 1956. Proprio quest’ultimo fu significativo per smentire brutalmente le speranze suscitate dalla destalinizzazione: la risposta sovietica alle manifestazioni anticomuniste a Budapest fu l’immediato invio di carri armati.

Nel novembre 1960, scaduto il secondo mandato di Eisenhower, il candidato democratico John Fitzgerald Kennedy salì alla presidenza degli Stati Uniti. Probabilmente considerato il simbolo della distensione, in realtà Kennedy esordì nel momento più critico di tutto la Guerra Fredda. Tale momento fu segnato dalla seconda crisi di Berlino e da quella dei missili a Cuba. Il presidente americano incontrò Kruscev nel ’61 per discutere del problema di Berlino Ovest: gli americani la consideravano parte della Germania federale, mentre i sovietici avrebbe voluto trasformarla in “città libera”. L’incontro non andò a buon fine e, mentre gli Stati Uniti riaffermarono il loro impegno in difesa di Berlino Ovest, l’Urss in risposta fece innalzare un muro che separava le due parti della città e rendeva pressoché impossibili le fughe, fin allora molto frequenti, dall’uno all’altro settore. Il muro di Berlino sarebbe divenuto da allora il simbolo più vistoso della divisione non solo della Germania, ma anche dell’Europa e del mondo intero.

Nel medesimo periodo il confronto più drammatico fra le due superpotenze ebbe per teatro l’America Latina. All’inizio della sua presidenza, Kennedy tentò di soffocare il regime socialista affermatosi nel ‘59 a Cuba, in cui Fidel Castro aveva spinto il paese ad una politica economica decisamente ostile agli Stati Uniti e ad una pericolosa simpatia per il blocco orientale. Il governo americano, nel 1961, appoggiò una spedizione armata composta da gruppi di esuli anticastristi: lo sbarco, avvenuto nella Baia dei Porci, nei progetti americani avrebbe dovuto suscitare un’insurrezione contro Castro, ma si risolse in un totale fallimento e in un gravissimo scacco per l’amministrazione di Kennedy. Nella tensione così creatasi si inserì l’Unione Sovietica che non solo offrì ai cubani assistenza economica e militare, ma iniziò l’installazione nell’isola di alcune basi di lancio per missili nucleari. Quando, nell’ottobre del ’62, le basi furono scoperte da aerei-spia americani, Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l’isola. La crisi, iniziata il 15 ottobre, durò tredici giorni e mai si ebbe un così alto rischio che la situazione precipitasse in un conflitto armato globale. Ma alla fine Kruscev cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche, in cambio dell’impegno americano ad astenersi da azioni militari contro Cuba. Dopo la crisi missilistica, il clima di profonda tensione che aveva caratterizzato gli anni della Guerra Fredda fu sostituito da un’atmosfera di pacificazione e dialogo: la nuova epoca che si aprì, e di cui presenterò solo gli aspetti fondamentali, prese il nome di distensione.

Nel 1968, tuttavia, si verificò un importante arresto a tale processo, perché l’Urss decise di stroncare il tentativo di liberalizzazione operato da Dubcek in Cecoslovacchia. Questo esperimento di socialismo dal volto umano, che inaugurò nel paese una stagione di radicale rinnovamento politico e di esaltante fermento intellettuale, venne ritenuto prematuro e pericoloso per gli altri paesi satelliti: l’intervento sovietico di “normalizzazione” ricordò per molti aspetti la repressione della protesta ungherese del ’56. Lo stesso blocco occidentale dovette fare i conti con l’inizio della guerra del Vietnam: il conflitto, scoppiato sotto la presidenza Kennedy, proseguito con Johnson e conclusosi con Nixon, portò solo a mezzo milione di morti, senza alcun vantaggio economico e politico, se non per soddisfare una logica di competizione e contenimento.

Dopo l’allontanamento di Kruscev (ottobre 1964), l’Urss era stata guidata da Breznev: questi nei primi anni della sua presidenza aveva mutato profondamente lo stile della politica krusceviana, pur lasciando invariata la sostanza. Durante gli anni Settanta, Breznev rilanciò le ambizioni di estendere la sfera d’influenza sovietica in tutti i continenti. Ne risultò la crisi della distensione e un riacutizzarsi della tensione: si inaugurò il periodo che dal 1975 portò alla fine del bipolarismo per il crollo dell’Unione Sovietica (1991). La riapertura delle antiche ferite fu visibile con l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1979. Sempre nello stesso anno la competizione tra i due blocchi ebbe anche come teatro il Medioriente ed in particolare Iran e Iraq. Alla presidenza americana fu eletto Ronald Reagan, anziano ex-attore esponente dell’ala destra del Partito repubblicano: il suo programma in politica estera era volto a mostrare una linea più dura nei confronti dell’Urss e di tutti i nemici dell’America.

La svolta verso la fine del bipolarismo fu datata 1985, ossia quando la segreteria del Pcus fu assunta da Michail Gorbacev. Questi si mostrò subito deciso a introdurre una serie di radicali novità nel corso della politica sovietica: negli affari interni le sue parole d’ordine divennero perestrojka (riforma) e glasnost (trasparenza) e per quanto concerneva le relazioni internazionali fu ripreso il dialogo con l’Occidente. Gorbacev iniziò così a trattare con Reagen per la riduzione degli armamenti e approvò il ritiro dall’Afghanistan. Ma una tale democratizzazione non poteva che portare all’implosione del sistema sovietico: il 9 novembre 1989 furono aperti i confini fra le due Germanie, compresi i passaggi attraverso il muro di Berlino, emblema della Guerra Fredda. Ad una ad una le Repubbliche che componevano l’Unione Sovietica dichiararono la loro indipendenza sancendo, nel 1991, la morte dell’Urss.

Nicola Sparvieri

Foto © Il Fotografo

Divisione in blocchi, Guerra fredda, URSS