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Il valore dell’amicizia: da Cicerone a Ciro Ferrara

L’AMICIZIA NEL GIOCO DEL CALCIO:
UNA COMBUTTA TRA POCHI CHE CONTA MOLTO

Chi fa informazione non può nascondersi dietro un dito: ci sono notizie con pesi divulgativi degni di rilievo e altre, riguardanti il mondo pur seguitissimo dello sport e dello spettacolo, certamente meno urgenti.

È più utile mettere in luce l’andamento dei costi di produzione, le norme di formazione dei prezzi, gli strumenti di manovra dei politici, i sequestri conservativi contro empi gestori d’immensi patrimoni, i nuovi piani per le liste di attesa per migliorare l’accesso alle cure dei cittadini, l’incremento di validi enti di ricerca scientifica, le strategie di comunicazione delle imprese turistiche, il regime di protezione dei dati per le imprese mondiali, la dottrina sociale della Chiesa, le ricadute della criminalità, i riflessi della globalizzazione sul piano giuridico, la varietà di transazioni di capitali, beni e servizi, l’impasse delle dotazioni infrastrutturali, l’ossessione competitiva delle élites, le missioni commerciali e scientifiche inerenti la pesca, l’acquacoltura e l’agroalimentare nel Mare Nostrum.

Nondimeno, anche se non soprattutto dopo questa lista smisurata che finisce nel trascinare chi legge in un tedio di piombo, il gioco del calcio resta la grande medicina contro la noia. Una cura dello spirito che non si può circoscrivere all’ignoranza dei tifosi più accesi convinti di costituire il proseguimento nell’era dell’oscuro progresso dei combattimenti gladiatori.

Sarebbe un insulto all’intelligenza dei lettori meno ingenui avallare la sterile e improbabile teoria per cui la mentalità ultras rappresenta un valido antidoto all’orrido cosmopolitismo giacché rinsalda il senso di appartenenza. Il tratto che porta al vacuo folklore e agli eccessi campanilistici, che tralignano la cifra dell’amore per i colori amici a quella dell’odio nei confronti dei colori nemici, è assai breve. Equiparare la foga agonistica dei giocatori di pallone alla furia dei lottatori che duellavano per la sopravvivenza nella grande corsa delle quadrighe, come in Ben Hur, o nell’arena del Colosseo, significa cadere senza paracadute nel ridicolo involontario.

Eppure, al di là della mitomania di voler conferire richiami ‘fighi’ tanto agli sbandieramenti e ai cori dei supporters quanto agli splendidi gesti atletici compiuti da fior di professionisti capaci di fare coi piedi ciò che ai rugbisti non riesce nemmeno con le mani, il valore dell’amicizia costituisce una costante in grado di resistere alla prova del Tempo. Giudice ben più assennato di qualunque docente, di qualsivoglia teologo, di qualsiasi antropologo.

Secondo il saccente critico cinematografico Nicola Palumbo in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola l’amicizia è “una combutta tra pochi, un’intesa antisociale”.

Il capitano in pensione Fausto Consolo, rimasto cieco per via di un incidente in caserma ma abilissimo a riconoscere la fragranza del gentil sesso e i miasmi dell’ipocrita livellamento ugualitario, ritiene invece l’amicizia un impegno serio. «L’amico», spiega l’invalido ancora sensibile ai profili di Venere, «è uno che ti conosce a fondo, ma nonostante questo ti vuole bene».

Prendere confidenza con le fragilità, spesso celate dietro atteggiamenti guasconi, poco avvezzi all’umiltà degli sportivi fedeli al motto del pedagogista francese Pierre de Frédy, barone di Coubertin, fondatore dei moderni Giochi olimpici, costituisce un formidabile tonico.

Perché accresce il senso di correità, le basi dell’amicizia virile, la mutua fratellanza, la coscienza di essere parte di una squadra. L’invulnerabilità è una prerogativa solo del Padreterno. I comuni mortali possono però dare le direzioni più impreviste alla sfera di cuoio, ballarci con la disinvoltura dei fuoriclasse autentici, colpirla con ciclonica potenza, cimentarsi in passaggi al millimetro ed entrare nella storia di una squadra di calcio. In virtù altresì di chiusure perentorie in difesa, di takle puntuali, di salvataggi in extremis e, soprattutto, di dedizione alla causa. Ed è questo che conta agli occhi di ciascun sostenitore che, nel bene e nel male, nel cemento degli stadi, nelle curve pullulate anche di scritte fuori luogo, incita i propri beniamini a buttare il cuore oltre l’ostacolo. Per farlo, nello spogliatoio, lontano dai flash dei fotografi, occorre trarre linfa da una complicità che stimoli l’arguzia con la sana irriverenza degli scherzi drammatizzanti e, al momento giusto, prima di scendere in campo, sappia creare gli stimoli al fine di spendere ogni goccia di sudore al servizio del gruppo. La capacità di prendersi in giro trascende l’importanza delle medie realizzative, dei titoli a nove colonne sui giornali, delle luci dei riflettori. Il dono dell’autoironia va di pari passo col bisogno di spegnere i piccoli fuochi delle inutili polemiche e correre a perdifiato.

Ad alimentare il Delta, l’arcinoto simbolo matematico per la variazione usato dai preparatori come indice dei cali di prestazione riscontrati nella replica delle corse, è l’attitudine al divertimento e al sacrificio. Può sembrare una contraddizione; all’opposto sacrificarsi divertendosi funziona. L’amicizia è il motore. Quella complicità tra pochi conta molto sul serio. Anche nel gioco.

La grinta testaccina di Ferraris IV: un romano de Roma che correva a perdifiato

  • «Credo fermamente che l’ora più bella per ogni uomo, la completa realizzazione di tutto quello che gli sta più a cuore, sia il momento in cui, avendo dato l’anima per una buona causa, egli giace esausto sul campo di battaglia. Vittorioso».

L’allenatore di football americano Vince Lombardi avrebbe adorato la proverbiale grinta di Attilio Ferraris. Morto sul campo di calcio, a causa di un infarto, durante una partita tra vecchie glorie. Mussolini, il Duce degli italiani, era intimamente persuaso che per vincere servissero dei leoni. Nei campi di battaglia come nello sport. Ed è con l’appellativo di “leone di Highbury” che Attilio Ferraris viene chiamato dagli spettatori anglosassoni nell’arco del match della Nazionale italiana contro i maestri del soccer britannico. Gli azzurri, freschi campioni del mondo, sembrano pagare dazio all’irruenza degli avversari. Decisi a umiliare i detentori del titolo. Al termine del primo tempo, nel quale i padroni di casa fanno vedere ai nostri compatrioti i sorci verdi, Attilio detto anche Tillio tuona: «Nun me sta bene pe’ gnente esse preso pe’ i fondelli. Mo’ je mostramo de che pasta semo fatti».

Nei secondi quarantacinque minuti il mediano capitolino si butta su tutti i palloni. Interrompe le trame avversarie con la testa, di petto, in rovesciata, di tacco, col petto, con la coscia, col destro, col sinistro. Il vantaggio di 3-0 viene presto ridotto. Dopo la rete del 2 a 3 il capobanda venuto dall’Urbe continua ad attaccare senza sosta. I compagni di squadra lo seguono a ruota. Le intimidazioni della perfida Albione non fanno più paura e i fischi dei settantamila spettatori si tramutano in applausi. Anche il celebrato Stanley Matthews, che ventidue anni dopo diverrà il primo calciatore a vincere il Pallone d’Oro, misura per filo e per segno l’egemonia, sul piano del carattere, di Tillio e al fischio che pone fine alle ostilità tira un sospiro di sollievo.

Fulvio Bernardini e il commissario tecnico azzurro Vittorio Pozzo sono gli unici a non rimanerne affatto sorpresi. Qualche mese prima Pozzo aveva pescato Attilio, noto col cognome Ferraris IV, per distinguerlo dagli altri tre fratelli, anch’essi calciatori, al tavolo di biliardo. Era stato messo fuori dalla AS Roma. Da una parte guidava la squadra a superare i propri limiti, dall’altra restava prigioniero dei propri. Le donne, le carte, la bella vita gli piacevano troppo. La sua ansia di riscatto poteva tuttavia divenire contagiosa per l’intera banda all’assalto del prestigioso traguardo. Tillio, nato al civico 19 di Borgo Angelico, riconobbe nel piglio del motivatore, alla guida dei volontari del Terzo alpini sul fronte carnico, il tratto distintivo di un Uomo tutto d’un pezzo. Del Nord. Come il papà. L’ormai sveglio biondino del Rione che collega via di Porta Angelica e piazza Americo Capponi smette gradatamente di fumare. Bernardini, suo amico fraterno e compagno di squadra nelle file della Lupa, sapeva che il desiderio di riaffermazione avrebbe sortito l’effetto desiderato dal coriaceo Vittorio. Un allenatore con quel nome, piemontese di poche parole e di tanti fatti, non poteva conoscere l’onta della sconfitta. L’Italia, grazie ai gol di Meazza, alle geometrie di Luis Monti e agli slanci di Angelo Schiavo, divenne campione del Mondo. Anche senza il suo apporto.

La classe di Fulvio Bernardini: un artista dall’alta densità lessicale e dal talento anche troppo cristallino 
A scoprire Giuseppe Meazza è proprio Bernardini. Lo chiamano Fuffo. Alla romana. A differenza di Tillio, figlio di un piemontese trapiantato nella Città Eterna che ripara bambole in una bottega in via Cola di Rienzo, appartiene all’alta borghesia della Capitale. La famiglia gli proibisce di giocare in porta, dopo una botta che la fa tremare, ma anche nella zona mediana avanzata trova il modo di far stropicciare gli occhi al pubblico palpitante sugli spalti. Il talentuoso ragazzo, proveniente dal Rione Monti, in via dei Capocci, non ha sicuramente paura di niente: è abituato a tirare calci al pallone sui sampietrini. L’alternativa qualche volta è rappresentata dall’Alberata di Villa Borghese. Aggregato appena tredicenne nelle giovanili dell’Associazione Sportiva Lazio, opta per il ruolo di centravanti. I ‘piedi buoni’, termine coniato da lui stesso, sono quelli dell’artista della sfera di cuoio: la palla sa toccarla nel punto giusto. Adora questo sport. Al punto da militare a titolo gratuito nella squadra biancoceleste. Quando si accorge però che i compagni percepiscono lo stipendio, prende la decisione di partire per Milano. Il salario mensile di 3.000 lire e un premio di rinnovo annuale di 50.000 lire bastano per placare le frecciatine lanciate nei confronti dei vecchi dirigenti. Non si sente, né si sentirà mai, un traditore. Nel capoluogo lombardo imparano a conoscerlo. Adora spiazzare gli interlocutori: padroneggia l’alta densità lessicale della lingua italiana al pari del centrocampo. Guai a contraddirlo. L’occhio è maligno. Quando Bernardini vede Meazza all’opera, si rende subito conto che in zona gol è insuperabile. Il genio riconosce sempre il genio, pure negli altri: fa parte di sé. Nell’Inter, meglio conosciuta ai tempi come Internazionale, offre concrete prove della sua cristallina sapienza calcistica. Trova anche il modo di studiare Scienze Economiche alla Bocconi. Il richiamo della Roma lo spinge però a proseguire nei luoghi natii. Con la maglia giallorossa diviene un idolo. Nei derby dimostra lo spessore della grinta e della signorilità. A partita conclusa, stringe sempre la mano ai cugini biancocelesti e fraternizza al pari dei rugbisti nel terzo tempo.

Il C.T. Pozzo nondimeno ha uno spazio vuoto nella zona nevralgica del campo. Alla vigilia di Italia-Ungheria, a Torino, nel 1931, arriva la mazzata: preferisce che a coprire quella zona sia Luis Monti. Argentino, finalista ai Mondiali dell’anno precedente a Montevideo contro l’Uruguay, pronto per essere naturalizzato italiano. Bernardini mastica amaro. Gira la storiella, ai limiti dell’assurdo, che giochi troppo bene e costringa quindi gli altri ad adeguarsi a un modo di concepire il calcio troppo difficile. Chiede spiegazioni a Pozzo. Per poco non vengono alle mani. Una volta divenuto allenatore, si rifà con gli interessi. Favorisce le individualità importanti. Coordina tutto con saggezza ed estrema coerenza. Vince due scudetti. Lontano dalla brezza carezzevole ma illusoria del Ponentino. Dopo Bologna-Modena, del 1962, conclusa con un categorico 7 a 1 in favore dei rossoblù, afferma che “solo in Paradiso si gioca così bene”. Alla faccia della modestia! Questa è l’ovvia replica degli avversari che non digeriscono l’assoluta sicurezza negli schemi tattici che non pongono il pragmatismo contro l’individualismo.

Da C.T. della Nazionale italiana non riesce a ripercorrere le orme del suo nemico storico. Tiene a battesimo i futuri campioni del mondo Gaetano Scirea, Marco Tardelli e Claudio Gentile. Tutti juventini. Non può più nemmeno replicare con la consueta arguzia. Il morbo di Charcot glie lo impedisce. Coniuga lentamente la vita all’imperfetto. È considerato un mito del calcio italiano. Per forza!

Il legame profondo e confidenziale di Tillio con Fuffo: due poli opposti che si attraggono

Di forza Tillio ne ha a iosa. Ma pure di classe, se è per questo. Sa tappare i buchi a centrocampo, sa servire lungo, sa cambiare passo e farlo cambiare ai compagni di battaglia. Con lui sembra che la manovra respiri. Anche Fuffo le dà grandi boccate d’ossigeno. La visione di gioco è irreprensibile. Pennella assist perfetti. Col contagiri. In Nazionale, sotto la guida di Augusto Rangone, s’intendono a meraviglia. Ci pensa poi Pozzo a spezzare l’incantesimo. Non è il cattivo di turno, comunque. Pensa al gruppo: i fatti gli danno ragione. Ubi Maior, Minor Cessat. Vale anche per il calcio capitolino. Con la nascita dell’Associazione Sportiva Roma, serve un capitano indomito. Attilio risponde: presente! Prima di ogni sfida, spinge i compagni di squadra a dare il massimo con un celebre ritornello: “Dalla lotta chi desiste fa una fine molto triste, chi desiste dalla lotta è un gran fijo de’ na mignotta!

Bernardini lo raggiunge. Ammira Ferraris IV. Sin da quando, il 20 marzo 1927, caccia dal campo l’irrequieto Fernando Canestrelli, compagno nella Fortitudo. In una mitica partita a Campo Testaccio, conclusasi 5 a 0 per i giallorossi ai danni dei primatisti bianconeri, è tuttavia lui a perdere le staffe. Renato Cesarini lo provoca. Mentre guadagna in anticipo la via degli spogliatogli, si rivolge all’amico del cuore: “A Fù, je meni te pe’ me!?” La risposta di Bernardini non ammette repliche: “Vatte a fa ‘na doccia fredda. Cori!”. Con Tillio antepone al linguaggio in punta di forchetta il vernacolo romanesco. Gli vuole bene, in ogni caso.

All’indomani della vittoria del Campionato del Mondo, il capitano storico dei lupi passa alla Lazio. “So arrivati i tempi cupi!” gridano i tifosi. La sommossa popolare esorta i responsabili a inserire una clausola affinché Ferraris IV non venga mai schierato in un derby. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Quello della Manica, per la precisione. Terminata la sfida con la Nazionale inglese, che lo incorona “leone di Highbury”, non può mancare nella stracittadina. I tifosi della Lupa strillano dagli spalti: “Traditore!”. Quelli della squadra biancoceleste ribattono: “Comprato!”. Fuffo lo abbraccia. L’amicizia, quella vera, viene prima di tutto. Non a chiacchiere: nei fatti!

Il 5 novembre 1934, quando si laurea al Regio Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Fontanella Borghese con una tesi in Geografia Economica dal titolo “Problemi attuali della Guinea francese” con relatore l’esimio professor Aldo Blessich, Ferraris IV ha le lacrime agli occhi.

Appesi gli scarpini al chiodo, al termine della seconda guerra mondiale, Tillio si trasferisce a Montecatini. Prima della partita fatale, scherza: «Non mi fate fa’ la fine de Caligaris». Il riferimento è al capitano juventino, deceduto a causa di una dilatazione di un’arteria durante un match giocato in amicizia. Al giocatore-simbolo della Roma, passato alla Lazio per dispetto, sono fatali le sigarette Matossian. Che riprende a fumare dopo l’ambìto torneo vinto con Pozzo in veste di capopopolo. L’amichevole pencola così versa la tragedia annunciata. Bernardini, che aveva lasciato la Roma nelle mani e nei piedi di Amedeo Amadei per garantirle la vittoria sacrosanta del primo scudetto ed era riuscito a divenire un eccellente giornalista, lo commemora con una lettera che è un inno al sentimento di fedeltà reciproca e alla romanità: “Un uomo di combattimento, irriducibile lottatore sei sempre stato, nella vita e nello sport. E anche per allontanarti definitivamente da questo mondo pieno di tristezza hai scelto un modo da combattente sportivo pagando con la vita un omaggio alla tua passione inesauribile, il calcio. Con la tua scomparsa c’è oggi nel mondo una grande tristezza in più. Addio Attilio”.

La leaderschip di Gianluca Vialli: un predestinato che dà l’esempio alla squadra
A Cremona fiorisce un talento calcistico simile sotto diversi aspetti a Fulvio Bernardini. Non nel ruolo. Bensì nell’estrazione borghese, nella sana impertinenza coi giornalisti, che raramente riescono a metterlo nel sacco, nell’ascendente che esercita nelle squadre in cui milita. Se ne accorge Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria. Gianluca Vialli viene subito accostato a Gigi Riva. All’inizio segna pochi gol, ma tutti bellissimi. Nella finale di Coppa Italia col Milan, nel 1985, a San Siro, rimedia a un tentativo di stoppare la palla col tacco, che pare un tiro al volo, mettendo a sedere Franco Baresi, con una finta pregevole, per poi insaccare con un velenoso rasoterra.

Con la maglia azzurra della Nazionale tocca l’apice due anni più tardi, al San Paolo di Napoli, con una doppietta contro la Svezia. Sembra un predestinato. Porta i calzettoni abbassati, senza parastinchi. È un centravanti coraggioso. Oltremodo caparbio. I difensori fanno fatica a contenerlo. Negli Europei dell’estate successiva Marco van Basten sfodera però una classe superiore e porta l’Olanda alla conquista del titolo. Candido Cannavò sulle pagine della Gazzetta dello Sport sottolinea che Vialli non ha neanche la metà della grazia dell’airone acquisito l’estate precedente dal Milan. Il rapporto con la Nazionale si complica. Schillaci gli ruba la scena. Rientra al San Paolo, nella semifinale contro l’Argentina nei Mondiali del 1990. Lo stadio gli porta fortuna. Attinge a John Beluschi la frase propiziatoria.  “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. Finisce male. Accumula rabbia.

Con la maglia blucerchiata della Sampdoria ha già conquistato una Coppa delle Coppe. Vuole lo scudetto. Sarebbe un traguardo storico. Con Roberto Mancini forma una coppia di gemelli ‘diversi’. Il compagno ha classe da vendere. Il tricolore, stavolta, non tarda ad arrivare. Manca la Coppa dei Campioni. In finale, a Wembley, con l’ultimo ostacolo, il Barcellona allenato da Johan Cruijff, un altro olandese a cui piace fare il guastafeste, Vialli getta al vento i passaggi del gemello. La sconfitta lo lacera dentro. L’attitudine a mettere in mezzo i compagni, ma a sostenerli pure nel rettangolo verde, tornando a difendere sino alla linea dei terzini, non basta più. Si trasferisce alla Juventus. La media-gol si abbassa di nuovo. L’ex re dei cannonieri gioca a supporto di Roberto Baggio, il Divin Codino. Gianluca, che tutti chiamano Luca, si rasa a zero. Per distinguersi e rigenerarsi.

Il C.T. Arrigo Sacchi lo fa fuori dal giro azzurro. La Nazionale perde la finale dei Mondiali del 1994 in Usa ai rigori. L’errore dagli undici metri proprio di Baggio consegna il titolo al Brasile. Luca, invece, con l’approdo di Lippi sulla panchina bianconera, muta segno. Ai tempi della Sampdoria gli ‘scroccava’ le sigarette. Il tecnico viareggino allora allenava la Primavera. Adesso Vialli, a dispetto di Baggio, diviene il leader indiscusso dello spogliatoio. Trascina la squadra a suon di rovesciate spettacolari, grida di battaglia lanciate nel momento in cui cala la concentrazione, spaghettate organizzate per cementare lo spirito di squadra. Con i blucerchiati, nei momenti bui, faceva lo stesso. La vittoria del tricolore è una logica conseguenza. Per festeggiarlo invita l’intera squadra nel Castello di famiglia. È lì, sul prato tenero, che ha imparato a compiere le rovesciate. Senza paura di cadere. Lo dimostra anche l’anno seguente. Il 22 maggio del 1996 alza al cielo di Roma la Champions League. La sconfitta col Barcellona così brucia meno.

Si trasferisce a Londra. Direzione Chelsea. L’allenatore-giocatore Ruud Gullit, il gemello ‘diverso’ di van Basten con l’Olanda, lo ritiene una riserva.

Il carattere fiero e giocoso gli permette di assestare un tiro mancino: sostituisce l’altero Mister prendendosi una rivincita nei confronti della terra dei mulini a vento. Lui non sogna, come don Chisciotte: vive. Sia pure con la brama dell’iperbole propria dei caratteri volitivi ed eccentrici. Sceglie in seguito il mestiere dell’opinionista televisivo. L’adrenalina, fuori dal campo, in panchina, lo consuma. Mentre sta scrivendo il suo secondo libro, 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili, scopre di aver contratto un tumore alle parti molle. È il momento di passare dalla teoria alla prassi, pure nel corso aspro e inatteso dell’esistenza, ed esibire un ardire unico. Ciro Ferrara, suo compagno ai tempi della Juve, gli rende omaggio. Luca è ancora un capofila che dà l’esempio. Anche, se non massimamente, quando non si gioca.

L’intelligenza pugnace dell’inesauribile Ciro Ferrara: un campione soprattutto di Umanità 
Ciro Ferrara sa bene che la vita non è un gioco. Almeno non solo. Occorre risolutezza. Non si scappa. Snuda il carattere già all’età di quattordici anni per lottare con l’atroce sindrome di Osgood-Schlatter che lo costringe temporaneamente sulla sedia a rotelle. Una volta rimesso, affrontare gli attaccanti sui campi di calcio è uno scherzo. Da partenopeo doc, quando approda alla prima squadra, brucia d’ammirazione per il capitano Giuseppe Bruscolotti. Soprannominato dai tifosi Palo ‘e fierro (“Palo di ferro”).

Vialli, invece, nelle file della Sampdoria, non avverte alcun timore reverenziale. E quando sfugge alla sua marcatura, sono scintille. Ciro comincia, quantunque più sottobanco, ad ammirare pure l’avversario che diviene presto suo compagno di squadra in Nazionale. A Zurigo è proprio Luca a piegare la resistenza dell’Argentina. Purtroppo non si ripeterà in semifinale, nei mondiali in casa. Sua maestà Diego Maradona, che ha da poco fatto vincere al Napoli lo storico scudetto, considera comunque Ferrara un fior di terzino destro. Meglio avercelo dalla propria parte. Fu lo stesso pensiero di Bernardini per Ferraris IV al termine di Italia-Ungheria 4-3 del 29 marzo 1928. Lo rilevò pure Giuseppe Sabelli Fioretti, capo della redazione romana della Gazzetta dello Sport, con la prima radiocronaca autoctona. Sessant’anni dopo, il sorpasso del Milan allenato da Arrigo Sacchi – con Gullit e van Basten in campo – getta scoramento nell’ambiente.

Maradona suona la carica. Il Napoli, nel giro di due primavere, vince una Coppa Uefa, con Ciro tra i marcatori, e conquista il secondo scudetto della sua storia. Ferrara passa poi alla corte della Vecchia Signora. Così gli appassionati chiamano la Juventus. La mancanza del Vesuvio si fa sentire, ma il gruppo juventino dà grandi stimoli al coriaceo difensore. I titoli arrivano a grappoli. Chiude la carriera con una partita d’addio al San Paolo. In grande stile. Abbracciato a Dieguito Maradona.

Come vice di Lippi assapora la gioia di conquistare un Mondiale. Da allenatore della Juve gira invece a vuoto. La pressione è alle stelle. Ci riprova con la Sampdoria. “Mi manda Vialli”, esordisce nella conferenza stampa di presentazione. Peggio che andar di notte! Rimane un signore, un uomo-spogliatoio avvezzo agli scherzi, alle battute, dal temperamento passionale. Al termine dei traguardi raggiunti, grazie anche allo strenuo impegno profuso, che gli permette di recuperare dagli infortuni col sorriso sulle labbra, canta ‘Malafemmina’ di Totò. I compagni lì non possono stargli dietro.

Insieme alle doti canore associa la smania di sostenere il gruppo, anche a costo di pagar dazio agli sfottò dell’allegro Angelo Di Livio. “Ricordiamoci cosa ci hanno fatto all’andata!” grida tipo un tribuno. Il ‘soldatino’ Angelo ancor oggi gli ricorda che allora il girone di ritorno non era manco cominciato. Questione di lana caprina. Specie per chi ‘rovescia’ gli episodi ostili.

 

L’intesa tra Vialli e Ciro Ferrara: un affiatamento all’insegna dell’arte della rovesciata 
Ferrara, tra il serio e il faceto, sostiene che Vialli abbia imparato da lui a compiere l’ardua e apprezzata acrobazia di colpire la sfera lanciandosi in aria con un’eccezionale piroetta all’indietro. In effetti, nel match casalingo del 1996, contro il Piacenza, Ciro va a segno in quel modo. È anche convinto che l’amico cremonese con lui in marcatura sia riuscito ad andare in rete solo grazie a un rigore procuratosi simulando senza ritegno.

La realtà è un’altra. Luca mette a segno il gol del 2 a 1 nella sfida Napoli-Sampdoria che pone fine all’ultimo campionato a sedici squadre vinto nel rush conclusivo dal Milan di Sacchi. E firma anche una doppietta, sempre al San Paolo, a pochi mesi dalla cocente delusione dei Mondiali di Italia ‘90.

I suoi scherzi nei ritiri della Nazionale sono leggendari. Gavettoni a gogò. Prese in giro costanti. L’indole è quella del capobanda. Giocherellone e rompiscatole. “Vuole la palla sul piede. La vuole al momento giusto. Che rottura!”. Ma in fondo nutre un’autentica stima per Stradivialli. Come lo battezza Gianni Brera. La firma giornalistica più autorevole del Bel Paese. Alla vigilia del match internazionale col Borussia Dortmund, Luca si mette il nero sotto gli occhi sulla medesima stregua dei giocatori di football americano. Non lo fa per ridurre i riflessi della luce, che impediscono l’opportuna visione della palla lanciata in aria, bensì per intimidire gli avversari. E dare coraggio ai compagni di squadra. Arte in cui per Ciro l’inarrivabile Diego Maradona è il sommo maestro.

Quando lo ritrova alla Juve, deve ricredersi. Il trono va condiviso con Vialli. Come minimo. Il 4 dicembre 1994 al Comunale di Torino la Fiorentina conduce per 2 a 0. Al termine del primo tempo, negli spogliatoi, Luca strapazza tutti. “Ci buttiamo in avanti, a costo di prenderne dieci di gol”.

Anche senza il nero sotto, gli occhi sembrano spiritati. Il leader lombardo accorcia le distanze. Il terzino napoletano riesce appena a dargli il cinque. La palla è subito rimessa sul dischetto del centrocampo. Pochi minuti e Vialli sigla il pareggio. Ciro è scaraventato a terra nel tentativo di placcarlo: Vialli sembra un giocatore di rugby. Nella stazza e nella grinta. Festeggiare fa perdere minuti preziosi. L’astro nascente Del Piero segna la rete del sorpasso.

Vialli si ripete nel derby contro il Torino. Ma non basta. Sono i granata a vincere per 3 a 2. Il capociurma, col Parma in testa alla classifica, sfida tutti i giornalisti: vinciamo noi lo scudetto. Mantiene la parola. Dinanzi alla telecamera, a maggio, a cose fatte, ribadisce: ve l’avevo detto.

A Ciro non sembra vero il 22 maggio di ventitré anni or sono di poter esser lui di sostegno al campione. Che prima del rigore decisivo di Vladimir Jugović, si abbandona per la prima volta all’emotività. Ferrara lo soccorre. Al momento del trionfo, con la Champions League da alzare per le orecchie, il loro abbraccio chiude il cerchio.

Alla fine di novembre dell’anno scorso la notizia del tumore scuote tutto l’ambiente del calcio. Un duro come Vialli colpito da un cancro alle parti molle. Ciro gli lascia un messaggio da brividi: “Solo tu sapevi quale sarebbe stato il momento giusto di spiegare a tutti, in questi mesi ho sempre rispettato la riservatezza. Ricorda: quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Sei il nostro capitano e leader, non dimenticarlo mai. Un abbraccio”.

Luca aggiunge che non sa ancora come finirà la partita, ma anche che non è disposto a mollare nella sua sfida più difficile. L’ex difensore posta allora sui social la foto del loro abbraccio nella trionfale notte di Roma con la frase: “Non sai come andrà a finire? Ecco come…”.

Dinanzi alla prova concreta del valore dell’amicizia, nel mondo quantunque criticato del calcio, col fenomeno del tifo violento e i capricci di ‘top-players’ pagati oltre gli effettivi meriti, il bisogno di spensieratezza, come antidoto alla sinistra anticamera della morte, mette le ali al richiamo dell’alto grado di buon senso della lingua latina superbamente padroneggiata dal grande Cicerone. Un nome che non sarà mai coperto di polvere.

Amicitia praemium et solacium humanae vitae est. nihil est, cum in secundis, tum in adversis rebus, homini dulcius, nihil utilius amicitia. 
Verus amicus est enim vitae socius et particeps. 
Si ortus pulcherrimi pueri, si nuptiae dilectissimae filiae, si salus optimi filii domum laetificavit, amicus adveniet et suo gaudio gaudium tuum augebit; sic tristis ac sollicitus es, amicus maxime te corroborabit, auxilium consiliumque maiore etiam cura praebebit. 
Nec minus utilis est amicitia in necessitatibus: nam si inopia rerum laboramus, amici rem  familiarem praebent ingentissimosque sumptus sustinent; si hostes insidias parant, amicis nos animose alacriterque defendut. 
Amicitia est igitur res omnium praestantissima: nemo benevolentior, nemo iucundior, nemo utilior fideli amico est. 

L’amicizia è un premio e un conforto della vita umana. 
Non vi è nulla, sia nella fortuna, che nella sfortuna, di più dolce all’uomo, niente di più utile dell’amicizia. 
Il vero amico è infatti compagno e partecipe della vita. 
Se alla nascita di un bel figlio, alle nozze dell’amatissima figlia, se la salute del miglior figlio rende lieta la casa, l’amico verrà e aumenterà con la sua gioia la tua gioia; così se sei triste e pensieroso, l’amico ti conforterà, ti offrirà con cura maggiore aiuto e conforto. 
Nè meno utile è l’amicizia nelle necessità: infatti se siamo affaticati dalla povertà, gli amici offriranno il patrimonio familiare e sosterranno pesantissime spese, se i nemici preparano insidie, gli amici ci difenderanno animosamente e alacremente. 
L’amicizia è dunque la più prestante di tutte le cose: nessuno di più benevolente, di più piacevole, di più utile vi è dell’amico fedele.

MASSIMILIANO SERRIELLO