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Shiva, Pārvatī e il gioco dei dadi.

“Oggi il mito del consumismo sostituisce la fede nella vita eterna” Ivan Illich

Shiva e Pārvatī, coppia per eccellenza del pantheon induista, erano originariamente uniti in un solo essere. Identificati con Puruṣa (la consapevolezza, lo spirito) e Prakṛtī (la natura nel suo farsi dinamico, il risultato finale), le due divinità simbolizzano il principio maschile e quello femminile che, opposti ma cooperanti, sono alla base di tutti i livelli della vita.

Spesso sono rappresentate, sedute o in piedi, accompagnate o meno dai loro veicoli, il toro(Nandi) e il leone (o tigre), e dai loro figli Skanda e Ganesha, circondate da un’aura di serenità affettuosa, di tranquillità perfetta che rimanda all’indispensabile armonia dei due principi. Per altri versi le divinità rappresentano il dinamismo, la dialettica, non priva di tensioni, propria della coppia nel suo ruolo cosmico e creativo, Pārvatī incarna l’energia vivificante (śakti) che mette in moto la potenza del grande dio (Mahādeva): questo aspetto viene identificato come le due divinità che giocano a dadi, in una sorta di proto backgammon sul monte Kailāsa, sede degli dei.

L’ostilità e il litigio per un gioco.

Nello Skanda Purāṇa (I.1. 34-35) si narra che un giorno Nārada, un saggio che si poteva muovere liberamente tra il mondo degli uomini e quello degli dei, si recò sul monte Kailāsa, s e trovò Shiva ancora unito in uno stesso corpo con Pārvatī, facendo perennemente all’amore.

Alla domanda del dio che gli chiedeva il motivo della sua visita, egli rispose che era andato lì per proporre il gioco dei dadi che, probabilmente, loro due avrebbero trovato più divertente che fare l’amore.

La partita ebbe così inizio e ben presto i due sono talmente immersi nel gioco che, pur di affermare la propria superiorità sull’altro, iniziarono a imbrogliare.
All’inizio Shiva vinceva, scommettendo tutti gli oggetti che gli appartenevano, il suo crescente, il serpente che porta come collana, gli orecchini; ma la fortuna gli aveva in seguito girato le spalle e la dea pretendeva quanto scommesso, persino la sua
pelle di tigre.
 si chiude, infelice, nelle sue stanze e la lite finisce con una separazione
Shiva decide di recarsi in un luogo isolato per dedicarsi alla meditazione. In seguito  Pārvatī, secondo una versione del mito, assume l’aspetto di una bellissima donna della comunità Sabari per recarsi lì dove Shiva era immerso in meditazione.

Le api che accompagnano la dea disturbano il dio che apre un occhio, la vede, la desidera e le propone di sposarlo; ma Pārvatī è ancora offesa, dice che cerca un marito veramente onnisciente, lo accusa di aver abbandonato lei come sua moglie.

La situazione, ormai in stallo, viene risolta da Nārada che consiglia alla dea di rendere lode al dio e a tutti di inchinarsi al sommo Signore: Pārvatī viene ricondotta al suo ruolo di sposa sottomessa ma al contempo diventa con la sua ribellione un messaggio di energia e forza. la narrazione culmina col canto di inni sacri e il suono di tamburi, al cospetto degli dei che spargono fiori, Shiva e Pārvatī tornano a regnare insieme sul monte Kailāsa.

L’immagine di Śiva e Pārvatī impegnati in un gioco che rimanda a un tipo di backgammon o a un proto-backgammon raggiunse il suo culmine nei secoli VII e VIII per poi sparire dai rilievi scultorei nell’XI secolo.

Questa storia della mitologia e della religione indiana serve come monito per far capire che non ci può essere creazione perché il loro amplesso mira unicamente all’estasi; solo la separazione in due esseri distinti e differenti permette l’inizio dell’azione cosmica, grazie al definirsi della Forma (dell’uno e dell’altra) separata dallo Spazio e il trascorrere del Tempo dato dal tiro dei dadi.
Emergono le peculiarità delle due divinità, il ruolo attivo e decisivo di lei, la passione per il gioco di lui. Pārvatī deve vincere perché il dio possa perdere la sua totale identità col cosmo e quindi dare inizio alla sua “parzialità” nel mondo, Shiva non può non giocare perché fa parte della sua natura. L’attività tramite cui il dio si manifesta nel mondo, è infatti essenzialmente ludica, priva di un preciso scopo, caratterizzata da puro diletto. Il gioco però è per sua natura fluido e paradossale nel suo essere insieme reale e non reale, si basa sul movimento, rompe equilibri preesistenti e crea mutamento quindi è imprevedibile e potenzialmente pericoloso.

Non a caso alla competizione coni dadi che si svolgeva durante i riti vedici del rājasūya che consacravano il re come sovrano universale, per evitare spiacevoli sorprese ovvero il rischio di perdere una partita, il re non giocava; se giocava, come nel caso narrato nel Mahābhārata l’esito poteva essere altamente rovinoso.

Sia che vinca il dio, sia che vinca la dea la cosa peggiore è che litighino e si separino, il principio maschile e quello femminile si divarichino e si rischia il caos, il mondo sarebbe in pericolo e la riunione, seppure cercata e desiderata non appare facile.

Alla fine l’armonia della coppia viene ristabilita in un quadro di rituali brahmanici. Shiva e Pārvatī sono nuovamente
uniti, in maniera differente da prima che iniziassero a giocare, e fino alla successiva partita a dadi, in una perenne successione di vittorie e sconfitte, di emanazione e riassorbimento del dio, con la tipica alternanza Shivaita di segni che incutono timore e di altri che mirano a rassicurare.

La trasposizione scultorea del mito del gioco a dadi di Shiva e Pārvatī avviene all’inizio del primo Medioevo indiano, periodo interessato da alcuni fenomeni socio-politici e religiosi quali l’emergere di dinastie regionali, la brahamanizzazione patrocinata dai sovrani, l’ascesa del culto Shivaita di indirizzo tantrico.

Le casate reali del periodo erano di oscure origini, spesso tribali come i Kalacuri, ma ambiziose come i Rāṣṭrakūṭache si definivano conquistatori del mondo: cercavano di stabilire la loro legittimazione a regnare su popolazioni e recalcitranti leader locali attraverso il legame con quelle autorità religiose che potevano garantire la loro investitura divina.

A quel tempo i regnanti si orientarono sempre di più verso gli dèi panindiani del pantheon hindū e l’ambiente brahmanico, a scapito di quello buddhista, mediante la pratica di donazioni di terre a templi e monasteri (maṭha) brahmanici.

Il guru (rājaguru) non era più solo il precettore del re ma anche una figura cardine del monastero, un asceta che gestiva le risorse del territorio ricevuto in dono e, di contro, celebrava il nome del sovrano. I monasteri erano infatti istituti religiosi che contribuivano alla trasformazione del clima religioso elaborando e diffondendo la dottrina, e, contemporaneamente, centri economici e di supporto del potere temporale.

Generalmente il guru era Shivaita e certamente la diffusione dello shivaismo era favorita dai sovrani: lo shivaismo convogliava verso due potenti divinità, la cui ricca mitologia veniva narrata nei Purāṇa, tanti culti locali ben radicati, in questa fase risultava particolarmente funzionale all’affermazione del sovrano come figura in grado di riassumere in sé aspetti diversi ma coesivi: in questo ambito venne identificato lo stesso concetto di śakti (energia vivificante) in quanto recuperava l’antichissima e diffusissima devozione per la dea madre, seppur epurandola dai suoi aspetti più perturbativi al contempo veicolava un messaggio di energia e forza oltre ogni tempo e spazio.

fonti letterarie sito Academia                                 © Spuntarelli Francesco

fonti foto Alamy Linkedin