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Autore: Sveva Marchetti

Ezio Bosso “L’orchestra è una società ideale: la Costituzione, come una partitura, unisce singolarità”

 

Maestro si diventa quando hai studiato tanto e migliori, migliori, migliori…e poi muori”. Questo è stato l’esordio ironico di Ezio Bosso ospite durante la trasmissione Propaganda Live  di Diego  Bianchi prima che scoppiasse la pandemia.

In quell’occasione confessò di aver sempre avuto paura della parola “Maestro”. “Anche da ragazzino, perché temevo i miei insegnati e per un bel po’ quando mi chiamavano così, mi spaventavo! Adesso però l’ho finalmente accettato. Uno dei vantaggi del maestro è proprio quello di migliorare sempre”.

Bosso ha poi proseguito, parlando dell’orchestra, come esempio di società ideale: “L’orchestra rappresenta una società ideale, che può prendere i difetti delle società attuali. Però io amo gli ideali. Amo gli ideali umani perché sono dentro quelle partiture, che sono le nostre Costituzioni. La partitura è la nostra Costituzione perché unisce tutti e unisce le singolarità, non le individualità. Faccio un esempio che racconto sempre ai ragazzi – prosegue Bosso – Ci sono delle gerarchie precise da rispettare nell’orchestra: primo violino, primo violoncello, prima viola, primo oboe, e poi c’è il direttore che gestisce tutti. Nella mia orchestra tutti turnano chi sta dietro viene davanti. Il primo violino sta sempre davanti perché ha un ruolo preciso. Ma le grandi orchestre sono fatte di persone che sono magari brave come il primo violino, ma non hanno la peculiarità per stare lì davanti. Magari stare lì davanti li agita, magari tutto quel lavoro in più non interessa loro. Gli interessa fare la sua parte bene e aiutare da dietro”

Cos’è la società ideale?: “È che ogni sezione, in ogni sua singolarità è fondamentale, e ogni sezione che va a comporre poi quella meraviglia che diventa la vita. Non smetterò mai di dirlo: non si suona meglio per distruggere il nostro vicino, si suona meglio perché lui suoni meglio, si è orgogliosi di chi suona meglio”.

Vogliamo ricordarlo così, con queste parole. Il musicista torinese che da tempo combatteva con una malattia degenerativa ci lascia oggi a soli 48 anni.

Pianista e direttore d’orchestra, Bosso ha tenuto concerti in tutto il mondo, ha ricoperto il ruolo di direttore stabile del The London Strings, ha vinto due David di Donatello per le colonne sonore di Io non ho Paura e Il ragazzo invisibile, entrambi film di Gabriele Salvatores. È stato Carlo Conti a portarlo nelle case di tutti gli italiani con la partecipazione al Festival di Sanremo nel 2016. Un’esibizione e poi parole di speranza e coraggio che fecero commuovere i milioni di spettatori in quel momento davanti allo schermo. “Sono ai domiciliari dal 24 febbraio. Se poi calcolo il periodo delle cure, dal 9 per le solite terapie, i mesi di clausura sono ormai più di due”, aveva spiegato il maestro torinese lo scorso 21 aprile in un’intervista. “La malattia mi ha allenato a soste forzate ben peggiori. Stavolta però non è il mio corpo a trattenermi ma qualcosa di esterno, collettivo, misterioso. Sono giorni strani, il tempo e lo spazio si sono fatti elastici, a volte le ore sono eterne, a volte volano. A volte ti senti in prigione, a volte scopri la Dodicesima stanza, quella che ti libera. Era il titolo di un mio vecchio album. I suoi cani, la sua casa grande, la musica ma anche una consapevolezza che Bosso aveva rispetto al “diventare migliori”. “Diventare migliori è una scelta non una conseguenza, richiede un impegno forte con se stessi. Star chiusi in casa non basta. Questa retorica vuota che ci circonda è insopportabile. Così come tanta cattiveria sparsa nel web, l’ottuso complottismo di chi vuole un colpevole a ogni costo. E basta con questo lessico bellico, il virus non è un nemico, non c’ è una guerra in corso. Non lo sconfiggeremo, come per altre malattie, da l’ Aids al cancro, ci dovremo convivere”.

fonte Il Fatto Quotidiano, HuffPost

 

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La rinascita del drive-in

 

Le opere proiettate erano spesso film horror o di fantascienza, prodotti da piccole società come la Allied Artists o la American International Pictures (Aip), grazie alle quali hanno mosso i loro primi passi attori come Jack Nicholson o il regista Francis Ford Coppola. I drive-in avevano preso piede anche in Canada e in Australia, paesi dal vasto territorio e dalla bassa densità abitativa, ma molto meno in Europa, e in particolare in Francia, dove i rari tentativi sono falliti. Poi, negli anni ’80, con l’irruzione delle videocassette e lo sviluppo della tv via cavo, gli spettatori statunitensi hanno disertato l’abitacolo delle loro auto, preferendo i loro salotti.

Ma ora che i cinema sono chiusi a causa della pandemia, i drive-in stanno facendo il loro inatteso ritorno, anche in zone dove non avevano mai prosperato.

Dal 12 marzo, quando in Germania sono state imposte le prime misure di isolamento, l’Autokino di Essen, uno dei due drive-in attivi nel paese, registra il tutto esaurito ogni sera (le proiezioni all’aria aperta possono svolgersi solo con il buio). Qui viene proiettato il film Manta Manta, il cui protagonista, oltre alla coppia di attori principali, è un’Opel Manta. Questa commedia per adolescenti era stata un grandissimo successo al botteghino tedesco nel 1991, ma non era mai stata distribuita all’estero. Sicuramente a causa della sua estrema mediocrità.

In un’intervista con la rivista statunitense The Hollywood Reporter, il gestore dell’Autokino di Essen ha spiegato che “l’opera proiettata non ha alcuna importanza. Le persone vogliono uscire e vedere un film. Registriamo il tutto esaurito con varie settimane d’anticipo”.

Anche l’altro “autokino”, a Colonia, registra un alto numero di prenotazioni. Sulla sua pagina Facebook è scritto ironicamente “metadone per i drogati di cinema”. Ma questa droga palliativa si mostra rispettosa delle norme sanitarie, perché l’ingresso è consentito solo a 350 auto su una capacità di mille veicoli, al fine di rispettare le norme sul distanziamento. Sempre in Germania, nella città di Marl, è stato aperto un drive-in “selvaggio” su un terreno dietro un bar per motociclisti.

Lo stesso entusiasmo si può osservare in Corea del Sud da febbraio, quando i cinema sono stati chiusi. A Daegu, sede dei campionati mondiali d’atletica del 2011, la frequentazione del drive-in locale è aumentata dal venti per cento dall’inizio della crisi sanitaria. Nel distretto di Nowon, a est di Seul, le autorità locali incoraggiano l’apertura di queste strutture per aiutare la popolazione a lottare contro lo stress.

Negli Stati Uniti, la situazione di questo settore in declino è oggi più rosea, soprattutto a causa della chiusura delle sale cinematografiche da marzo. Eppure, sui 320 drive-in in attività, solo una ventina è rimasta aperta. Il loro principale limite è la mancanza di film da proiettare, perché le poche novità vengono trasmesse dalle piattaforme di video on demand.

Un drive-in a Hockley, in Texas, ha visto i suoi incassi prima aumentare del quaranta per cento, a metà marzo, e poi raddoppiare una settimana dopo, quando ha proposto in alternanza due opere di finzione: Onward, il nuovo film d’animazione della Pixar, e L’uomo invisibile. Sicuramente non sarà sufficiente per reggere fino all’inizio di luglio, quando le sale statunitensi dovrebbero – molto ipoteticamente – riaprire i battenti. Ma se la chiusura dovesse prolungarsi oltre l’estate, i drive-in rappresenterebbero uno sbocco che gli studios hollywoodiani non mancherebbero di sfruttare.

 

di Federico Ferrone

 

 

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Gabrielle Chanel ed il cinema

Nato come nuova arte nel XX secolo, il cinema ha intrecciato un legame molto stretto con Gabrielle Chanel e la sua straordinaria carriera, in un dialogo creativo continuo, dove la grande sarta subì il fascino della cosiddetta settima arte, ed questa, a sua volta porta ancora oggi l’impronta del suo passaggio. Un nuovo video della maison online sul sito di Chanel, ricostruisce il legame tra l’iconica couturier e la magia del grande schermo. Poco più di dieci anni separano la nascita di Gabrielle Chanel nel 1883 da quella del cinema, avvenuta nel 1895, una vicinanza anagrafica profetica per questi due rivoluzionari che vennero al mondo alla fine del XIX secolo.

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Alibaba lancia la digitalizzazione delle fiere

Alibaba, il colosso cinese dell’e-commerce ha lanciato, questo lunedì, la sua prima fiera globale online tramite la sua piattaforma b2b Alibaba.com. Il trade show dovrebbe durare fino al 24 maggio e si prevede possa attirare l’interesse di circa 200mila grossisti al giorno. La digitilazzaiione delle fiere potrebbe essere un metodo provvisorio ma molto utile per andare avanti durante questo periodo. 

Come spiegato da Zhang Kuo, general manager della piattaforma Alibaba.com, “la mostra non solo replica tutti gli scenari di una fiera offline, ma fornisce anche un upgrade digitale completo”, si legge sul South China Morning Post.  L’evento, infatti, prevede l’utilizzo di video brevi per la promozione del prodotto, cui si aggiungono sessioni video in live streaming. 

La piattaforma, inoltre, utilizza i big data per creare “match perfetti” tra venditori e acquirenti. I venditori, infatti, possono decidere quali gruppi di compratori possono avere accesso a tutta o pare della loro offerta, così da aumentare l’efficienza della fiera e proteggere la proprietà intellettuale.

Kuo ha dichiarato che, per supportare le piccole e medie imprese in questo momento complesso, quest’anno si terranno 20 fiere online.

 

Fonte Pambianconews

Fabrizio Giaconella regala “Visiere anti Covid” realizzate direttamente in 3D

Fabrizio Giaconella, studente universitario di Roma e maker dell’associazione Visionari, ha realizzato con una stampante 3D le visiere che isolano il volto, permettendo di vedere e farsi vedere.

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La pandemia ci ha fatto scoprire la fatica digitale

 

 

 

Il distanziamento sociale imposto dal nuovo coronavirus ha avuto un impatto evidente sulle nostre vite digitali. Non è chiaro se quest effetto sarà duraturo, né quando (e se) le nostre vite torneranno “normali”. Non sappiamo nemmeno se quelle stesse vite digitali usciranno fortificate o irrimediabilmente corrose da tutto questo.

Nel frattempo, un po’ alla volta, stiamo scoprendo la fatica digitale. Si tratta di una condizione difficile da riconoscere, che si manifesta talvolta in forme collaterali, ma ugualmente diffusa e in qualche maniera evidente. La vita digitale imposta dagli avvenimenti è faticosa e meno affascinante di quanto avremmo immaginato.

Lo dicono gli insegnanti, alle prese con la tecnologia che li connette ai loro studenti, se ne accorgono i lavoratori in smart working dal soggiorno di casa, lo segnalano gli studiosi che spiegano, per la verità non da ieri, come piccoli ostacoli tecnologici apparentemente innocui – per esempio il ritardo di ricezione del segnale audio/video nelle chat – siano fenomeni che, mentre la semplificano e la rendono possibile, complicano e rendono più stressante la nostra vita di relazione. Quello della nuova era digitale è un processo caotico, in cui euforia e difficoltà si manifestano allo stesso tempo.

La fatica digitale è una delle molte imperfezioni delle nostre esperienze online. Nuove frontiere che abbiamo idealizzato e descritto per molto tempo con benevola attenzione e che ora, mentre la storia improvvisamente le impone, mostrano anchei propri limiti.

L’elefante nella stanza
La tecnologia è da diversi decenni un tema inevitabile: lo era anche prima dall’emergenza coronavirus, ma è stata a lungo un elemento di completamento della nostra vita che molti sceglievano di ignorare. Nel tempo la tecnologia si è fatta ingombrante perché attraverso di essa, dopo l’esplosione di internet, si sono andate applicando nuove forme del dominio politico ed economico. Tuttavia la sua raggiunta centralità non ne ha cancellato i limiti, così come non ne ha potuto disinnescare le ulteriori aspirazioni di potenza. La discussione e le polemiche di questi giorni in Italia intorno alla app per tracciare i contatti dell’epidemia di coronavirus ne sono un buon esempio.

Se il dilemma centrale dei prossimi anni continuerà a oscillare tra il saper controllare la tecnologia e l’esserne invece controllati, forse una simile elaborazione potrà arricchirsi di una nuova consapevolezza. Saranno i momenti di stress come questo del lockdown mondiale ad aiutarci a ridisegnare i confini della nostra infatuazione (o della nostra avversione) verso gli ambienti digitali.

L’elefante nella stanza resta in ogni caso il fatto che la mancanza di presenza fisica, tipica dei contesti digitali, è lontanissima dall’essere risolta. Ed è una forma di riduzione che per ora non siamo in grado di accettare. La fatica digitale ne è solo un aspetto. È nel momento del confronto con il “prima” che la ricchezza della nostra vita di relazione precedente alla quarantena si mostra in tutta la sua evidenza.

Mentre nei prossimi mesi ci attendono nuove forme di fatica analogica, che è il sentimento che ci assale quando osserviamo le ipotesi di vita sociale dopo il coronavirus e il distanziamento sociale (per esempio le immagini dei ristoranti, o delle cabine degli aerei, o delle spiagge attrezzate con nuovi angoscianti diaframmi di sicurezza), sappiamo già che la fatica digitale è destinata a restare. Se la barriera di plexiglass che divide gli amanti in un ristorante di Wuhan o Milano è un presidio forse necessario ma temporaneo, il senso di straniamento e distanza delle interfacce digitali appartiene in maniera nativa a quelle tecnologie.

Non è chiaro se il successo delle piattaforme digitali potrà confermarsi quando altre tecnologie di relazione torneranno disponibili

I sistemi di videoconferenza che dominano le nostre vite familiari e lavorative durante la quarantena (Zoom, una delle piattaforme più utilizzate, nel mese di gennaio era stata scaricata ogni giorno da una media di circa 56mila persone, mentre nella sola giornata del 23 marzo, nonostante le molte polemiche che l’hanno riguardata, ha toccato 2,13 milioni di download) rispondono egregiamente alla logica del “good enough”, l’approccio sociale alle tecnologie che domina in questi tempi di bassa risoluzione digitale.

Benché tali piattaforme non abbiano al momento alternative e mostrino il proprio fascino tecnologico a una platea di utenti fino a ieri inimmaginabile, non è chiaro se una simile successo potrà confermarsi quando altre tecnologie di relazione torneranno disponibili. Tecnologie secolari, come una panchina al parco, una partita a tennis, una sera d’estate in un cinema all’aperto.

Per queste ragioni non saprei rispondere alla domanda che è rimasta qui sospesa fino ad ora; una domanda che sento ripetere spesso in questi giorni, e che incuriosisce e affascina anche me: cioè se davvero la quarantena per il coronavirus sarà un fattore decisivo per ridurre le nostre diffidenze verso le tecnologie.

Non so se i milioni di persone che oggi si arrabattano su piattaforme di videoconferenza come Meet, Zoom o Skype, che ne stanno scoprendo trucchi e difetti, domani continueranno a usarle per un aperitivo con gli amici o per il lavoro, per una lezione online o per qualsiasi altra cosa, nel momento in cui le vecchie alternative torneranno disponibili.

Nei paesi come l’Italia, che mostrano da sempre un basso tasso di adozione delle nuove tecnologie (molte delle quali nel frattempo non sono più per nulla nuove) esiste una dominante culturale difficile da contrastare. Quando alla fine della prima decade degli anni duemila si osservò la più inattesa e convinta adozione di massa di una piattaforma digitale in Italia e gli utenti di Facebook passarono dal milione del settembre 2008 ai dieci milioni del 2009 ai venti milioni del 2011, molti analisti immaginarono che questo sarebbe stato il primo grande passo verso una nazione nuova. Si pensava che l’utilizzo del social network avrebbe fatto da apripista alla vita digitale dei cittadini i quali, nel frattempo, ne avrebbero potuto scoprire le molte opportunità.

Dieci anni dopo, il Digital economy and society index (Desi), un indice che misura i livelli complessivi di digitalizzazione dei paesi dell’Unione europea, mette l’Italia al 24º posto tra i 28 stati dell’Unione. L’innamoramento per Facebook, insomma, non ha modificato lo scenario e la dominante culturale dell’Italia allergica al digitale è rimasta sostanzialmente intatta.

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È quindi possibile che la conversione digitale obbligatoria che le nostre vite, quelle degli insegnanti e degli studenti, quelle dei lavoratori e dei pensionati, stanno subendo in queste settimane, non influirà in maniera sostanziale sul nostro futuro. È altrettanto possibile che il digitale, vissuto oggi come vera e propria àncora di salvezza, crei una sorta di imprinting positivo del quale osserveremo gli effetti.

In entrambi i casi, paradossalmente, i limiti culturali che oggi le tecnologie di relazione sociale mostrano con grande evidenza potranno essere considerati, parafrasando un vecchio detto del Jargon File caro agli informatici del secolo scorso, non un difetto ma un pregio (“It’s not a bug, it’s a feature”).

La fatica digitale sarà un pregio, a patto che un simile bug orienti il percorso della nostra vita di esseri connessi verso l’unica traiettoria ragionevole fra le poche possibili. Quella secondo cui vita analogica e vita digitale sappiano trasformarsi in un unicum inestricabile.

Una sola vita, insomma, in grado di contenere la nostra umanità e il nostro destino di esseri tecnologici. Un unico grande cervello che dovrà “rassegnarsi alla pace”, come scrisse profeticamente Franco Carlini tanti anni fa.

 
 
 

Anni ’80: i prodotti (purtroppo fuori commercio) che hanno fatto la storia

soldinoIl Soldino poteva considerarsi benissimo il re delle merendine (per me era il Tegolino che fortunatamente esiste ancora ma in una nuova forma). Un quadrato di morbido pan di spagna ricoperto da cioccolato, ed al centro una monetina, un vero e proprio cioccolatino. Da mangiare rigorosamente in due tempi.

sprint

Lo Sprint un barattolone arancione rivale del Nesquik, una polvere di malto ed orzo anche al gusto di cacao, che sotto il tappo nascondeva sempre una sorpresa.

palicao

Dei biscottini dalla consistenza croccante, che se tuffati nel latte si scioglievano facendolo diventare una sorta di cioccolata calda. I Palicao io li ho sempre mangiati da soli e me li ricordo buonissimi!

UAO la merendina gelato che voleva insegnare l’inglese ai bambini, una sorta di Cucciolone più “colto”.

tortine-di-frutta

 

Le Tortine di Frutta me le ricordo appena, e per quel poco che sono durate non erano così male. Piccole tortine farcite con ciliegie o mele a pezzi e ricoperte dalla caratteristica cupoletta come l’apple pie, la famosa torta di mele americana.

merenda-più

Antenata del Kinder Fetta al Latte, questa era della Motta. Gelato all’interno di fette di pan di spagna al cacao, semplice ma buona.

 

 

 

biricche

Anche della Biricche ho un vaghissimo ricordo, forse perchè l’avrò provate una volta sola. Delle crostatine bicolori con due tipi di crema: nocciola e cioccolato bianco e nocciola e cioccolato fondente.  Sopra una nocciola intera che faceva un po’ da spartiacque, da mangiare subito o tenerla da parte alla fine.

piedone-gelato

“È Piedone il gelatone col cacao sul ditone!”. Recitava così lo stacchetto che accompagnava la pubblicità di questo gelato dell’Eldorado, gusto di fragola, ditone al cioccolato e la sua inconfondibile forma di “piedone”.

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Oltre alle celebri Coca Cola e Pepsi, sempre in lotta tra loro, esisteva una terza bevanda zuccherina: la One o One della San Pellegrino. Con la sua etichetta blu e rossa, iniziò la produzione a fine anni ’80, ebbe vita breve anche a causa della lunga battaglia contro la Coca Cola per concorrenza sleale, e sappiamo tutti come andò a finire.

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E poi ci sono loro le Pat Bon, le patatine della Findus a forma di lettere dell’alfabeto o ripiene di ketchup. Oggi sono fuori produzione in quanto la Findus si è dedicata solo alla versione Casarecce e Classiche.

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Questo non me lo ricordo, ma forse perchè anche da bambina, come adesso, il formaggio spalmabile non mi è mai piaciuto, però all’epoca andava. Dover era un formaggio cremoso della Kraft la cui particolarità era proprio la confezione, che come la Nutella, era un bicchiere di vetro riutilizzabile.

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Il gelato nascosto in uno snack ai cereali”. Prima gelato alla crema racchiuso in due biscotti al cacao, poi gelato alla vaniglia ricoperto di cacao, il Camillino parla da solo.

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Io ero più per la concorrenza però non posso dire di non aver mai bevuto un succo di frutta Billy. Confezione bianca con la faccia dell’arancia che sorseggiava il succo in primo piano a ricordare il gusto più diffuso. All’arancia ma anche mela e pompelmo.

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Caramello, miele e vaniglia, chi non ricorda il Trio Nestlè? I famosi cereali misti a tre gusti con Qui, Quo e Qua sulla confezione.

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Il wafer per eccellenza, Urrà della Saiwa. Un biscotto ricoperto da cioccolato con 5 strati di cialda e crema all’interno. 

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Non ricordo neanche questo però se fosse ancora in commercio non me lo lascerei scappare. Un cornetto surgelato con all’interno gelato alla vaniglia, forse qualcosa di molto simile al gelato fritto cinese, ma questo era un vero croissant da fare al forno… Perchè sei fuori produzione?!

 

winner-algidaIl Winner, uno dei gelati più fighetti del tempo, predecessore del Winner Taco (uscito e rimesso in produzione per fortuna). Non era altro che una sorta di Mars fatto gelato, cioccolato croccante fuori e dentro caramello con gelato alla vaniglia.

 

tortorelle

Al mattino la dolcezza e la delicatezza hanno messo le ali recitava la pubblicità, antesignane dei Pan di Stelle, le Tortorelle erano dei biscotti di frolla con degli zuccherini sopra. Ovviamente il gioco era mangiare prima tutte le tortore e solo dopo il biscotto.

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Il Twister, altro gelato icona. La prima versione era vaniglia e cioccolato, più avanti è stato deciso di aggiungere un terzo gusto con l’aggiunta della nocciola.

orsi-sgranocchini

E poi gli Orsi Sgranocchini, dei biscottini a forma di orsetto, croccanti da tuffare nel latte o da mangiare così. Semplicemente bellissimi.

frollis

Non potevano mancare i Frollis, i cugini dei Palicao. Anche loro classici biscottini di frolla da colazione da mettere in un tazzone di latte.,

ciocorì-biancorì

Ciocorì e Biancorì, cioccolato fondente e bianco con riso soffiato. Il cioccolato che fa crock con protagonisti la coppia di roditori, il maschietto del fondente e la femminuccia del bianco.

 

biscotti-colussi

Sempre per la colazione c’era L’Allegra Compagnia, altri biscottini questa volta della Colussi. Protagonisti un tale Gioele, Kiss me Licia ed i Puffi (gli unici che io ricordi). Semplici biscottini di frolla alla vaniglia o al cacao, con all’interno una sorpresa che rispecchiava il protagonista della convenzione.

blob-gelato

Il Blob, il gelatevolissimevolmente cono tutto tondo. Una sfera di gelato alla vaniglia ricoperta da cioccolato fondente e granella di nocciole, per tutti quelli a cui non piaceva il classico Cornetto Algida.

 

In Irpinia, l’Azienda Agricola e
l’Agriturismo de “I Capitani”

UNA TRADIZIONE FAMILIARE,  LUNGA QUASI UN SECOLO

La parola chiave: valorizzare… Una parola fondamentale nel nostro mondo è valorizzare ovvero dare valore: a quello che si è stato, che si è, che si ha, alle nostre specificità, alle nostre tradizioni, alla nostra cultura. 
Da sempre l’obiettivo della nostra famiglia è stato quello di promuovere l’Irpinia: la nostra terra, dura ma generosa, ricca di tradizioni e di cultura, naturalmente bella… 

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CONGIUNTI: chi sono? Chi si potrà incontrare il 4 maggio?

 

Chi sono i congiunti? Da quanto il 26 aprile il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha annunciato l’inizio della cosiddetta fase due a partire dal 4 maggio, sono cominciate le discussioni sul significato della parola “congiunti”. Il decreto consente infatti “gli spostamenti per incontrare i congiunti”, facendo immediatamente sorgere la questione sul tipo di legami che definiscono questa categoria di soggetti.

All’articolo uno, il nuovo decreto in vigore dal 4 maggio dice: “Sono consentiti solo gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute e si considerano necessari gli spostamenti per incontrare congiunti, purché venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale di almeno un metro e vengano usate protezioni delle vie respiratorie”.

Secondo i giuristi, il termine “congiunti” è ambiguo e non corrisponde a una definizione legale precisa, quindi può dare adito a diverse interpretazioni da parte della forza pubblica, tanto che il 27 aprile Palazzo Chigi ha annunciato che presto pubblicherà un questionario di domande e risposte proprio per chiarire gli articoli del decreto che riguardano questo aspetto.

L’avvocato Carla Quinto, esperta di diritto di famiglia, spiega: “La parola congiunti è presente solo all’articolo 307 del codice penale, secondo cui i prossimi congiunti sono gli ‘ascendenti, discendenti, coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, fratelli, sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”. In questo elenco non sono presenti né i cugini, né gli amici, né i fidanzati. “A mio parere rimangono escluse tutte quelle persone che hanno un legame stabile, ma non certificato né da un matrimonio né da una forma di unione civile, questo potrebbe ledere il principio di uguaglianza, intesa come uguale possibilità di godere di uguali diritti anche se non si è formalizzata un’unione”, continua Quinto.

I fidanzati e la cassazione
Al di fuori del codice penale, invece, non è chiaro cosa si debba intendere per congiunto. Dopo la pubblicazione del decreto, molti giuristi hanno argomentato che una sentenza della corte di cassazione (46351/2014) ha stabilito che anche un fidanzato è da considerarsi un congiunto, cioè qualcuno con cui si ha un solido e duraturo legame affettivo a “prescindere dall’esistenza di rapporti di parentela o affinità giuridicamente rilevanti come tali”. In seguito alle critiche, in una nota del 27 aprile Palazzo Chigi ha chiarito che i congiunti sono “parenti e affini, coniuge, conviventi, fidanzati stabili, affetti stabili”.

Ma la discussione si è spostata quindi sul concetto di “affetto stabile” e sulla possibilità di dimostrare “la stabilità” di un rapporto. “Se si ammette di estendere il concetto di congiunti a qualsiasi relazione affettiva o amichevole, la norma sarebbe svuotata di contenuto, perché non vi sarebbe evidentemente più alcun limite al suo perimetro applicativo”, spiega in un articolo il Sole 24 ore. D’altro canto, ribadisce l’avvocata Quinto: “È importante in questo momento emanare provvedimenti che sappiano cogliere la diversità delle formazioni sociali che stanno tutte affrontando una grave crisi e garantire l’uguaglianza dei diritti”.

Basti pensare ai single, o agli anziani soli senza figli. Durante la quarantena sono stati spesso aiutati da una rete di amici e conoscenti, che però hanno dovuto agire al limite della legalità. In altri paesi europei sono state consentite visite di amici e fidanzati, nel rispetto di tutte le norme sulla sicurezza e fatto salvo il divieto di assembramento.

Ma a questo punto, il governo dovrà specificare con ulteriori documenti che cosa intende esattamente per congiunti. Tra l’altro, secondo il nuovo Dpcm (decreto del presidente del consiglio dei ministri), sarà possibile rientrare dall’estero in Italia per incontrare “i congiunti” o per rientrare nel proprio domicilio o residenza. “Gli italiani che rientrano in patria, al momento dell’arrivo, dovranno comunicare i motivi del viaggio, l’indirizzo completo dell’abitazione o della dimora in Italia dove sarà svolto il periodo di quarantena, il mezzo di trasporto privato che verrà utilizzato per raggiungere la stessa e il proprio recapito telefonico”.

 
fonte https://www.internazionale.it
 

 

Coronavirus e moda: bisogna ripartire dalla sostenibilità

Ripartire, da dove?

Se c’è una cosa che il fashion system, italiano e non solo, ha dimostrato in questi mesi di difficoltà è la capacità di reazione, la prontezza nel cercare un modo per risolvere le cose, che poi è alla base del concetto stesso di resilienza.

Sono tantissimi i marchi, da quelli del lusso a quelli di fast fashion, che si sono adoperati per riconvertire una parte dei propri stabilimenti per realizzare mascherine e camici per medici e infermieri: da Prada a Gucci passando per Valentino, Armani e Salvatore Ferragamo, solo per citarne alcuni. Dallo tsunami che il coronavirus ha riversato sulle aziende di moda e dal modo in cui queste hanno reagito emergono due questioni di importanza sostanziale: la prima è che il settore è stato in grado di muoversi e mettersi in gioco per uno scopo superiore al profitto; la seconda è che una catena di produzione lunga e sparpagliata geograficamente (globalizzata) ha dei limiti enormi.

Nuovi valori

Un nuovo senso di comunità: ecco cosa sta emergendo da questa crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, lontano dal comunismo storico. La banale scoperta che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale è a suo modo rivoluzionaria. Stiamo riscoprendo quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri”. Sono parole di Slavoj Žižek, filosofo sloveno, su Robinson di Repubblica convinto come molti altri che l’epidemia di Covid-19 stia lasciando strascichi importanti non solo sulla salute e sull’economia, ma anche sulla nostra socialità, sul modo in cui stiamo con gli altri. Se davvero ci sarà la definizione di una nuova scala di valori nei consumatori, allora le aziende dovranno sapervi aderire. L’aver dimostrato di saper agire per una ragione più importante del profitto (come la solidarietà umana), pone le basi per la diffusione di un modello aziendale “purpose driven”, guidato da uno scopo. E questo scopo per le aziende di moda non può che essere la sostenibilità ambientale e sociale, già valore condiviso tra le fasce più giovani di consumatori prima della diffusione della Sars-Cov-2 verso il quale si stavano piano piano orientando tanti marchi con iniziative a volte strutturate, altre meno.

Secondo Fashion Revolution, il movimento globale nato per cambiare il sistema moda in seguito al crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, ogni anno vengono prodotti oltre 150 miliardi di capi d’abbigliamento, la maggior parte dei quali viene usato pochissime volte prima di essere gettato via. Un consumo di abbigliamento spropositato e in costante crescita anno dopo anno che ha un impatto ambientale e sociale enorme, soprattutto in quelle aree dell’Asia dove è concentrata la gran parte della produzione mondiale. Bene, anche questo consumismo sfrenato potrebbe uscire ridimensionato dall’epidemia di Covid-19. Ne è convinta Li Edelkoort, la più nota anticipatrice di tendenze di moda e design, che in una intervista di inizio marzo al magazine Dezeen ha dichiarato: “Sembra che stiamo entrando in una quarantena di massa del consumo durante la quale impareremo come essere felici solo con un vestito semplice, riscoprendo i nostri preferiti tra quelli che già possediamo, leggendo un libro dimenticato e cucinando tanto per rendere la vita bellissima. L’impatto del virus sarà culturale e cruciale per costruire un mondo alternativo e profondamente diverso”. E ancora: “Dovremo raccogliere le macerie e reinventarci tutto da ciò che resta una volta che il virus sarà sotto controllo. E questo è il passaggio per cui nutro più speranza: un nuovo e migliore sistema da adottare, con maggior rispetto del lavoro umano e delle sue condizioni. Alla fine saremo costretti a fare quello che avremmo dovuto fare fin dall’inizio”.

Cambiare la filiera

Il cambiamento radicale verso una moda guidata dal valore della sostenibilità impone alle aziende di prendersi la piena responsabilità dei costi non solo economici della produzione di abiti e accessori. Significa volgarmente metterci la faccia in ogni passaggio della filiera di produzione, controllarla, certificarla, garantirla.

L’epidemia scoppiata in Cina a gennaio 2020 ha smascherato, prima ancora che il virus si diffondesse nel resto del mondo, uno dei limiti dell’avere catene di produzione lunghissime e sparpagliate geograficamente: non solo non se ne ha il controllo in termini di costi sociali e ambientali, ma nel caso di imprevisti si rischia di non essere in grado di gestirle. Al contrario prediligere una supply chain corta e meno globalizzata favorisce la flessibilità della stessa e permette di assumersene la piena responsabilità in termini di inquinamento ambientale e condizioni di lavoro dei suoi operai. L’ha spiegato bene sulle pagine di WWD Hakan Karaosman, esperto di filiera di produzione sostenibile nel settore moda presso la Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Europa: “I marchi di moda che hanno preso iniziative concrete per creare delle supply chain più corte, più resilienti e più trasparenti hanno potuto constatare che le situazioni inaspettate possono essere controllate meglio. In aggiunta quei brand che hanno creato una cultura della filiera di produzione attraverso l’impegno e la leadership responsabile hanno già dimostrato che le catene di produzione sostenibili portano ad avere dei vantaggi competitivi in termini di prestazioni operative”.

È il momento di pensare a come ripartire dopo questo stop forzato. Sarà una strada lunga e difficile considerando che tutta la produzione e la promozione delle collezioni SS20, FW20 e SS21 dovrà essere rivista e riadattata. Però sarà anche l’opportunità per provare a scrivere un futuro diverso per il settore su una pagina bianca, o quasi, che passi per una reale presa di coscienza da parte del mondo della moda sul suo impatto ambientale, sociale e culturale.

 
 

“Food therapy”: in quarantena con i libri di cucina

In questo periodo di “reclusione” forzata, che ci vede costretti a casa, cosa possiamo fare? Sistemare ed ordinare, fare il cambio di stagione, diventare personal training di se stessi, guardare tutto ciò che le piattaforme possono offrirci (a proposito ringrazio anche l’ultima arrivata Disney + !), improvvisarci chef e magari anche dare spazio ai libri visto che il tempo e la calma non mancano. Certo lettura più azzeccata sarebbe il Decamerone di Boccaccio ma visto che agli italiani piace parlare del cibo perché non unire l’utile al dilettevole leggendo libri che appunto trattano come tema principale il cibo?

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Armani: “è tempo di togliere il superfluo e ridefinire i tempi” lettera aperta al sistema moda

 

Nuovamente in prima linea Armani, dopo la donazione al Sacco di Milano e dopo aver convertito le su aziende affinché possano produrre camici per il personale medico, si fa sentire con una lettera aperta al mondo della moda. Uno sfogo a gran voce con il quale afferma che “lavorare così è immorale”.  Un bisogno, quello di ripartire, quando l’emergenza coronavirus sarà superata, dalle priorità rallentando quei ritmi forsennati che il sistema moda ha avuto in questi anni, da quando il lusso è diventato fast.

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Fase 2: maggio il mese delle possibili riaperture ma come sarà cenare nuovamente al ristorante?

Il 4 maggio, il giorno che tutti gli italiani hanno segnato in rosso sul calendario, partirà la tanto attesa fase 2. Sicuramente non  un “libera tutti” dopo il quale sarà tutto come prima, ma un piccolo passo verso la così desiderata normalità. Già da oggi 14 aprile, hanno riaperto librerie, cartolibrerie (ad eccezione della Lombardia), negozi di articoli per neonati e bambini; dal 20 aprile dovrebbe poter iniziare la produzione in diverse fabbriche. Dal 4 maggio appunto, riapriranno negozi e attività commerciali con ingressi che andranno probabilmente scaglionati in una qualche modalità ancora da definire. Poi toccherà a tribunali e studi professionali l’11 maggio; il 25 maggio riaprono estetisti, parrucchieri ma con ingressi singoli ed il 31 maggio ripartirà lo sport professionistico.

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Prada e le sue “conversazioni possibili” dialoghi in diretta per unire le persone e condividere pensieri

Anche Prada scende in campo nell’ampia offerta globale di incontri, dirette e conferenze in streaming che stanno intrattenendo milioni di persone in tutto il mondo costrette a casa per l’emergenza coronavirus. Con le sue Possible Conversations, presenta una serie di dialoghi, in diretta sul proprio account instagram, che non tratteranno solo di moda ma anche di arte, cultura. “Parleranno professionisti, esperti, registi e creativi che si intrecciano fra loro e che includono la moda, l’arte, l’architettura, il cinema e il pensiero, dove quest’ultimo spazia dalla filosofia alla psicologia, fino alla letteratura” spiega il comunicato del marchio.
Ogni incontro si tradurrà anche in una donazione all’UNESCO, volta a sostenere progetti culturali ed educativi per gli oltre 1,5 miliardi di studenti in tutto il mondo che hanno risentito della chiusura di scuole e università, e per un programma di cooperazione internazionale in ambito scientifico.
La prima Possible Conversation di Prada si terrà oggi pomeriggio alle 18:00 con il dibattito sul tema “La moda in tempo di crisi” e vedrà protagonisti Pamela Golbin, autrice e curatrice di Jacquard x Google Arts & Culture Residency, e Alexander Fury, Fashion Features Director di AnOther Magazine e critico di moda maschile del Financial Times. 

 

I librai sono lavoratori non simboli

Riportiamo l’articolo di Adalgisa Marrocco pubblicato su  https://Huffington Post

 

“Dunque, saranno le librerie ad assumere il ruolo simbolico di un Paese che dovrà pian piano ripartire, rialzando le serrande dal 14 aprile (eccezion fatta per Campania, Lombardia e Piemonte: regioni che hanno preso decisioni autonome in materia rispetto alle indicazioni dell’ultimo Dpcm). Ma a quali condizioni? E a che pro?

Il provvedimento dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) dare un po’ di ossigeno al comparto dell’editoria, in queste settimane praticamente fermo (come quasi tutti gli altri settori) non solo a causa della chiusura delle librerie. Anche gli store online, infatti, lavorano comprensibilmente a scartamento ridotto e l’evasione degli ordini è lenta. Diverse librerie di quartiere hanno provato a riorganizzarsi con la consegna a domicilio (si veda, tra tutte, l’iniziativa #libridasporto), ma i dati del settore parlano chiaro.

Se l’Associazione Italiana Editori (AIE), infatti, riferisce un crollo del 75% dei fatturati, l’Associazione Librai Italiani (ALI) fa eco lamentando perdite, per le librerie indipendenti, di 25 milioni. A poco sembrerebbe servita l’entrata in vigore, a fine marzo, della legge sul libro che, limitando lo sconto massimo sul prezzo di copertina, metterebbe (almeno in teoria) i piccoli negozi di quartiere in grado di competere coi giganti dell’online.

Ma la riapertura delle librerie servirà davvero a ridare slancio al settore? Difficile pensarlo. Va da sé che un negozio aperto possa vendere e incassare, mentre un negozio chiuso non può farlo, ma ci sono alcuni elementi da tenere in considerazione. Il primo è che il tessuto delle librerie di quartiere, negli ultimi anni, è stato letteralmente decimato. Dunque, nelle grandi città (per non parlare della provincia), per trovare una libreria aperta è necessario muoversi con i mezzi o con la macchina: spostamenti al momento non consentiti.

In secondo luogo, la libreria appartiene a quella tipologia di negozio che funziona se può essere “vissuta”. Difficile pensare che, allo stato attuale, i lettori possano serenamente muoversi tra gli scaffali, sfogliare volumi o scambiare opinioni col libraio. C’è poi da aggiungere che le piccole librerie hanno puntato molto, negli ultimi anni, sulle presentazioni e sugli eventi, attività purtroppo irrealizzabili ora, e chissà per quanto tempo. Queste variabili non sfuggono ai negozianti del settore: in diversi hanno già annunciato che, nonostante il via libera, non rialzeranno la serranda. Anche e soprattutto per non mettere a repentaglio la propria salute, quella dei dipendenti e dei clienti. Non è chiaro, infatti, quali misure vadano adottate per garantire la sanificazione degli ambienti (nonché dei libri) e la sicurezza di librai e lettori nella frequentazione dei punti vendita.

Nelle scorse ore, un gruppo di 150 librai (indipendenti e di catena) hanno redatto una lettera pubblicata da Minima&Moralia, in cui si legge: “Riaprire le librerie non può essere considerato un puro gesto simbolico, ma deve essere un’azione strutturata e gestita nella sua complessità, così come dovrebbe avvenire per tutte le altre attività necessarie alla vita sociale”.

“Tanti di noi hanno continuato a lavorare senza alcuna certezza di sostegno economico, ad altri non è stato possibile portare avanti il proprio lavoro nel quotidiano, ma non abbiamo mai smesso di fare cultura […] Ora non abbiamo intenzione di esporci al solo scopo di fingere una ‘ripresa culturale delle anime’ che ci potrà essere davvero solo quando sarà possibile la messa in sicurezza di tutti i corpi. In mancanza di garanzie sulle richieste qui avanzate molti di noi si riservano di non riaprire comunque l’attività nemmeno dopo l’entrata in vigore del decreto, finché non sarà possibile esercitare il nostro lavoro nelle condizioni e con le tutele adeguate”, si legge ancora nella lettera redatta da LED – Librai Editori Distribuzione in rete.

E come dichiara la stessa Associazione Librai Italiani , che pure ha accolto con favore il provvedimento del governo, sarebbero altre le misure di cui il settore avrebbe bisogno. “Chiediamo l’istituzione di un Fondo speciale con contributi a fondo perduto”, dichiara il presidente Paolo Ambrosini. Difficile pensare a misure drastiche, soprattutto in un periodo di crisi. Ma qualcosa, forse, potrebbe essere fatto su altri fronti.

Un’idea potrebbe essere quella di estendere il regime forfettario al settore dell’editoria: per le piccole attività significherebbe un taglio importante dei contributi previdenziali, che attualmente rappresentano una ‘stangata’ da quattromila euro l’anno. Un’altra possibilità potrebbe essere quella di un equo canone per l’affitto dei locali alle librerie, da compensare con una cedolare secca e un taglio dell’IMU per i proprietari”, mi racconta un ex libraio indipendente che, come altri colleghi, la saracinesca ha dovuto abbassarla due anni fa. Definitivamente.

Restituire alle librerie la loro centralità è encomiabile ma, al di là dei romanticismi, bisogna essere pragmatici. Perché i librai sono lavoratori, non simboli. Perché le librerie non sono solo luoghi di sogno, ma anzitutto luoghi di lavoro.

 
 

Saldi a settembre? un’ipotesi che sta facendo discutere

Cosa avverrà quando le serrande dei negozi riapriranno? La fase due dell’emergenza Covid-19 vedrà lentamente tornare alla normalità gli esercizi commerciali, all’incirca nel consueto periodo dei saldi estivi che quest’anno però potrebbero iniziare a settembre. Alcuni negozianti, si legge sul Corriere della Sera, intravedono la possibilità di vendere a prezzo pieno per tutta l’estate sperando in un’accelerata finale alle porte dell’autunno. L’idea tiene conto anche del fatto che probabilmente le città saranno piene durante i mesi estivi perché molte persone avranno già consumato le loro ferie. “Quando ho iniziato, nel 1979, la consegna della primavera era a febbraio e quella dell’estate a fine marzo. Sono stati il fast fashion e il pronto moda di Bologna a contaminare il mondo del lusso, che ha cominciato a seguire i tempi delle collezioni svelte: ora può essere il momento giusto per riportare la moda alle sue vecchie abitudini, per dare un minimo di respiro a una filiera che ha il fiato corto per la velocità che il sistema ha preso”, spiega Saverio Severini, storico agente di commercio, sulla scia di quanto auspicato anche da Giorgio Armani pochi giorni fa.

Perplessità dal fronte Confcommercio. Gabriel Meghnagi, presidente della rete associativa Vie Confcommercio Milano, ha un punto di visto diametralmente opposto: “Abbiamo preso in considerazione l’idea di farli a giugno, perché c’è dell’invenduto che rischiamo di trascinarci fino all’anno prossimo. Temo che dopo tutto quello che è successo le persone, senza saldi, non andranno a fare shopping”. A far scaturire queste riflessioni sembra esserci il timore che a settembre i clienti non abbiano voglia di comprare capi estivi, l’idea dei saldi anticipati sembrerebbe invogliare maggiormente all’acquisto. In attesa di nuove direttive statali il dibattito è ancora aperta.

articolo via pambianconews