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L’Associazione Le Soste celebra il suo XL Anniversario, esaltando il piacere del “Buon Gusto a Tavola”

 LA CELEBRAZIONE DEI SUOI 40 ANNI DI ATTIVITA’,
CON IL BENVENUTO A 14 NUOVI SOCI
RAPPRESENTANTI LA “CUCINA D’AUTORE”


Con
la “Nuova Edizione 2022”, l’Associazione Le Soste celebra il suo “I° Quarantennale“ di storia, ringraziando contestualmente tutti i propri Soci per la fiducia dimostratale in questi decenni.

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Alain Locatelli, due giorni a settimana senza i suoi croissant

articolo di Anna Prandoni via Linkiesta.it

 

Milano, il pasticcere Alain Locatelli segue le orme del colosso giapponese Panasonic chiudendo il suo laboratorio due giorni a settimana. Essere più operativo nei giorni di apertura, recuperare le energie, ma soprattutto, godersi di più la vita e preservare la salute fisica e mentale dei propri collaboratori. 

Il nodo cruciale del lavoro è sempre in primo piano: e se il colosso giapponese Panasonic decide di dare ai suoi dipendenti più tempo libero per studiare, fare volontariato e dedicarsi ai propri hobby, introducendo una settimana lavorativa di quattro giorni, il dibattito sul tema resta centrale anche qui da noi. Se per una multinazionale un discorso di redistribuzione del lavoro può essere comprensibile e attuabile, lo è anche per attività diverse, più piccole o addirittura familiari?

Il dibattito è aperto e la carta più alta questa settimana la mette sul tavolo Alain Locatelli, pasticcere-personaggio, bravissimo e dannato, che ha deciso di aprire in pandemia un nuovo locale a Milano, e oggi sceglie di chiudere due giorni a settimana, scatenando una serie di commenti negativi e non da parte degli affezionati ai suoi croissant. La decisione di condividere il suo pensiero su Instagram, lo strumento che gli è più affine, ci fa capire quanto il dibattito si possa esprimere ovunque e non sia per forza da relegare ai tavoli istituzionali: perché per attività familiari, o individuali come quella di Alain le decisioni da prendere sono personalissime, magari scomode, ma sicuramente possono tracciare una strada anche per altri.

«Questo post, non è sulle colazioni. E nemmeno sui dolci». – scrive il pasticcere «Serve per far comprendere agli addetti della ristorazione e non solo, che il doppio day off di riposo è da prendere in considerazione seriamente, se si vuole bene ai propri collaboratori o facenti parte del proprio team, per lavorare in completa serenità». La visione della salute mentale da preservare è sicuramente un nuovo ingresso nel dibattito sul mercato del lavoro, soprattutto in questo settore. E va avanti, Locatelli, nel suo post Instagram: «Lavorare più di 12 ore al giorno, senza nemmeno fare pausa, ritmi forsennati e prediche senza senso, perché non si “rende” mai abbastanza, è controproducente e tossico allo stesso punto. Figurarsi dare solo un giorno di riposo. Esso non porta a recuperare le energie, ma a far venire lo schifo per il proprio mestiere e la propria passione. Bisogna invece cercare di lavorare il giusto, così che uno possa organizzarsi anche nella propria vita e godersela appieno. Si vive una volta sola. Non ho mai incontrato nessuno che mi dimostri il contrario». 

Da qui la decisione di chiudere due giorni, e di essere ancora più operativo e disponibile negli altri giorni di apertura. Con la consapevolezza che confrontarsi e lottare contro i grandi colossi non è il compito dei piccoli negozi artigianali: «Viviamo in tempi con un sistema frenetico e logorante, che ci costringe a ragionare come se fossimo dei piccoli “Amazon” per essere sempre aperti e disponibili alla clientela, a discapito delle stesse persone che vi lavorano dentro. Siamo artigiani, non multinazionali». Il post accorato si chiude con una grande domanda che spesso in questo ambiente è sottovalutata, o mai posta: «Alcuni diranno che basta avere doppio personale di squadra o avere più stagisti per colmare il gap, ma siate sinceri: in quanti in effetti lo fanno, con quei costi sul lavoro assurdi?! Ma soprattutto..tutto questo, fa la vera felicità?». 

Le risposte sono varie, e vanno dalla completa condivisione alle riflessioni: perché se è vero che due giorni senza croissant non sono una tragedia, è altrettanto vero che è problematico ripensare completamente l’economia per come è strutturata oggi. 

Alcuni colleghi sottolineano come per il solo coraggio di iniziare un percorso simile in un negozio Locatelli sia da premiare, pagando di più per permettere di sostenere questa scelta, che appare migliore di molti altri che rimangono aperti solo grazie a stagisti non pagati o turni di lavoro imposti perché “si è sempre fatto così”. La mentalità da scardinare è quella dell’imprenditorialità portata all’ennesima potenza, del guadagno fine a sé stesso, che non tiene conto delle reali esigenze umane, spesso anche dei proprietari. 

Se non si promuove questa mentalità non si cambierà mai il sistema. D’altro canto, è anche vero che bisogna potersi permettere di pagare di più: e se lavoriamo meno, forse anche il nostro potere di spesa scenderà, impedendoci di sostenere queste scelte imprenditoriali coraggiose. Il livello sempre più basso degli stipendi italiani non aiuta, ma ci sono ormai esempi di Paesi, soprattutto nel Nord Europa, che hanno provato e dimostrato che può diventare sostenibile se c’è davvero un cambio di cultura. Forse, in Italia non siamo strutturalmente predisposti, forse il peso fiscale che grava sulle aziende è davvero troppo elevato, e il costo del lavoro troppo alto. Forse, semplicemente, non siamo ancora pronti, non siamo abbastanza maturi per queste scelte così radicali.  Ma il solo fatto che se ne parli è il segno tangibile che la strada è tracciata, che il futuro è vicino, e che – forse proprio grazie all’accelerata di riflessione data dal Covid – anche questo settore cambierà volto a stretto giro, più rapidamente di quanto ci saremmo aspettati.

Con buona pace di chi vuole mangiare il croissant di Alain tutti i giorni della settimana.

Panizzeri.Quando lo street food diventa una filosofia del mangiar bene

Il sogno di due giovani imprenditori nato dall’amore per la cucina e i prodotti di qualità

Seduti a un tavolo, avvolti dal profumo del pane da poco sfornato, abbiamo chiesto di raccontarci come da due giovani ragazzi sia nata questa attività riuscita a diventare col tempo un franchising.

Daniele Scalzo, questo è il nome di uno dei due giovani, sorride e ci inizia a raccontare che tutto nacque da una semplice domanda che lui e il suo amico Emanuele si sono sempre posti: Cosa c’è di più buono del pane se non la pizza? 

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KFC in Kenya – lo strano caso delle patatine fritte introvabili

Ecco come una patatina fritta può spiegare i paradossi del commercio globale.

Da qualche giorno in Kenya sta succedendo un fatto strano, nei punti della catena americana KFC sono sparite le french fries. Le patatine fritte non si trovano più e sono state momentaneamente sostituite da specialità locali come il mais o l’ugali. Il motivo? La crisi che da vari mesi sta subendo la catena globale di approvvigionamento delle merci. Le difficoltà della logistica hanno portato oltre ad aumenti vertiginosi dei prezzi in Cina anche a situazioni buffe, come le verdure di cartone a sostituire la mancanza delle vere nei supermercati del Regno Unito. Le patate mancano anche In Giappone e Mc Donald’s, pur di non sospenderne la vendita, ha ridotto la quantità nelle porzioni.

Ma cosa c’è di strano? Il Kenya è un grande produttore di patate ed il loro consumo è elevatissimo. Perché allora non si possono usare le patate locali? La storia è stata raccontata, con tanto di spiegazioni e approfondimento, dal giornalista radiofonico keniota Waihiga Mwaura alla BBC. Le patate che vengono fritte nei KFC del Kenya vengono importate dall’Egitto, e arrivano già pre affettate e questo perché, quelle locali, non soddisfano gli standard qualitativi volti ad assicurare la produzione di un cibo “sicuro per il consumo da parte dei nostri clienti”, come ha detto allo Standard newspaper Jacques Theunissen, chief executive in Africa orientale di KFC. In compenso, ma più che latro per metterci una pezza, il manager ha aggiunto che la farina dei panini e gli ingredienti dei gelati vengono dal Kenya, e l’azienda si è impegnata a testare altri prodotti locali.

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Candy cane, la storia e la leggenda dei bastoncini di zucchero di Natale

 

Sono il dolciume più venduto in America nel mese di dicembre, uno dei simboli più iconici del Natale, acquistato perlopiù fra il periodo del Ringraziamento e la Vigilia: i candy cane, bastoncini di zucchero a strisce bianche e rosse al sapore di menta piperita, sono probabilmente fra i prodotti natalizi più misteriosi di sempre. Tante, infatti, le leggende che ruotano attorno ai dolcetti, utilizzati più per addobbare l’albero e decorare la casa che per l’effettivo consumo (la settimana di maggiori vendite, secondo la National Confectioners Association, è proprio la seconda di dicembre).

Candy cane e la leggenda del coro di Colonia

Il racconto popolare più famoso è quello del coro della cattedrale di Colonia in Germania: sembra che nel 1670 il maestro di musica iniziò a regalare degli stecchetti di zucchero agli studenti più giovani per tenerli buoni durante lo spettacolo The Living Creche, piegando i dolcetti e dando loro la forma del bastone dei pastori. Lo conferma anche Susan Benjamin, fondatrice del True Treats Historic Candy, negozio di caramelle nel West Virginia dove è possibile trovare tutti i dolciumi realizzati fino alla metà del Novecento. Benjamin è anche autrice del libro “Sweet as Sin: The Unwrapped Story of How Candy Became America’s Pleasure, in cui afferma che, con buone probabilità, i bastoncini sono nati nel Seicento, periodo in cui lo zucchero soffiato – che potremmo considerare un antenato dei candy cane – era di gran moda, soprattutto in Germania.

candy cane su telo di iuta con anice stellato

L’arrivo delle strisce rosse

In America, comunque, dove sono ormai da tempo popolarissimi, i candy cane appaiono per la prima volta nel 1847, più precisamente a Wooster, Ohio, dove l’immigrato metà tedesco e metà svedese August Imgard addobbò un piccolo abete rosso con decorazioni in carta e bastoncini di zucchero. In principio, però, i canes erano solo di colore bianco. E così rimasero per circa 200 anni, fino al Novecento. “Con l’arrivo delle strisce nacquero tantissime leggende”, spiega l’autrice, “come quella che ritiene che nascondessero un codice segreto per i cristiani perseguitati in Germania o in Inghilterra nel Seicento, un linguaggio privato che cambiava messaggio di volta in volta a seconda del numero di strisce: tre per la trinità, una per il sacrificio di Gesù. Più in generale, per molti il rosso sta a indicare il sangue di Cristo”.

Il gusto alla menta piperita

È altamente improbabile, però, che i candy cane siano legati alla sfera religiosa, “nonostante siano in molti a pensare che la forma stessa rappresenti la J di Jesus”. Torniamo quindi ai fatti: oltre al colore, un’altra aggiunta fondamentale è stata fatta in America: il sapore di menta. Piperita, per la precisione, una tipologia dal profumo intenso e inebriante e fra le erbe medicinali più antiche, in passato usata per curare mal di stomaco, indigestioni e nausea, sia nella medicina occidentale che in quella orientale. La spiegazione, in questo caso, è presto detta: fin dal Settecento, le caramelle venivano vendute come medicinali, dei rimedi casalinghi per alleviare i mali minori. Il farmacista era quindi spesso anche colui che fabbricava i dolciumi, perché molti degli ingredienti medicinali non erano altro che delle miscele di erbe dal sapore forte e sgradevole, che andavano addolcite.

candy cane su sfondo rosa

La produzione di massa

Così, i chimici infondevano le erbe nello zucchero, spesso con aggiunta di menta piperita, il cui gusto rinfrescante aiutava a camuffare i sapori più cattivi delle erbe amare. Non c’è da stupirsi, quindi, se le primissime caramelle confezionate erano proprio alla menta: le Altoids, per esempio, storico marchio nato in Inghilterra nel 1781, sono state create dall’azienda londinese Smith&Company, che produceva anche pastiglie medicinali. Ma quand’è che i bastoncini così come li conosciamo oggi diventano un simbolo del Natale? Negli anni ’20, grazie a Bob McCormack, fondatore della Bobs Candies, azienda di dolciumi del gruppo Ferrara Candy Company. È stato lui il primo ad associare i candy cane al periodo natalizio, regalando ad amici e parenti i bastoncini allora preparati a mano: bisogna attendere gli anni ’50 perché suo cognato, Gregory Keller, progetti una macchina per la produzione automatica. A loro si deve la prima produzione di massa di uno dei dolci più famosi al mondo.

 

Natale in tavola, le curiosità gastronomiche dal mondo

Paese che vai usanza che trovi. Se da noi il periodo delle feste a tavola vuol dire pesce alla Vigilia e tortellini per il pranzo di Natale, nel resto del mondo non è poi così scontato. Tra strane tradizioni ed usanze buffe ecco una piccola lista delle curiosità culinarie “festive” negli altri paesi.

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Babbo Natale, cosa lasciargli la sera della Vigilia

Caro Babbo Natale, quest’anno visto che sono stata molto brava vorrei…“. Noi abbiamo sempre delle richieste, ma qualcosa a chi, in una sola notte, riesce ad andare di casa in casa a consegnare i doni a tutti i bambini, gli andrebbe lasciata almeno per rifocillarsi dalla fatica!

E quindi cosa piace a Babbo Natale? E cosa gli viene lasciato sotto l’albero o accanto al camino? Ogni paese ha una sua tradizione e questo è un piccolo giro nel mondo per scoprire le usanze di una delle notti più magiche dell’anno.

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Panettoni fantastici e dove trovarli

Ci siamo, manca poco a  Natale e comincia, come ogni anno in questo periodo, la caccia al migliore panettone.

Con i canditi, senza canditi, alto o basso, mandorlato o assolutamente liscio con l’immancabile croce, tradizionale o alternativo, dolce o salato (perché sì, esiste anche la versione salata).

Ce n’è in realtà per tutti i gusti, forme e dimensione. Non resta solo che scegliere.

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Stagionalità e sostenibilità nella cucina dello chef Zippl Al Restaurant 1908 la filosofia che valorizza le materie prime dell’Alto Adige

Al Restaurant 1908 del Parkhotel Holzner lo chef Stephan Zippl saluta l’autunno ed esalta i prodotti del territorio con un’offerta gastronomica fondata sulla stagionalità e sulla freschezza della materia prima.

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Tiramisù World Cup – tre giorni all’insegna del dolce veneto per eccellenza

Ieri, domenica 10 ottobre, si è conclusa a Treviso il Tiramisù World Cup, edizione dedicata quest’anno a Treviso e il cinema, svoltasi nelle orangerie in piazza dei Signori.

In tutto 200 i partecipanti, non professionisti, che si sono sfidati a colpi di mascarpone e savoiardi per aggiudicarsi la prestigiosa coppa del Tiramisù.

Due le categorie in gara che prevedevano la ricetta originale e la ricetta creativa che offriva la possibilità aggiungere fino a tre ingredienti con la sostituzione del biscotto. Diversi invece i criteri di valutazione dei giudici: l’esecuzione tecnica (organizzazione del tavolo, pulizia, gestione degli ingredienti e capacità esecutiva, la presentazione estetica, l’intensità gustativa, l’equilibrio del piatto e l’armonia.

I vincitori sono Stefano Serafini, gioielliere originario di Venezia che ha concorso per la ricetta originale ed Elena Bonali, insegnante di nuoto residente ad Anversa, in Belgio ma originaria di Milano, che invece si è cimentata in una curiosa  ricetta creativa a base di prosciutto e melone.

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Il caffè nel modo – 20 paesi dove berlo

Il caffè è una tra le bevande più popolari al mondo tanto da essersi guadagnato la candidatura tra i beni immateriali del Patrimonio Unesco. Il caffè ha anche la sua giornata dedicata l’International Coffee Day, istituita nel 2015 e celebrata per la prima volta nello stesso anno durante l’Expo svoltasi a Milano.

Si beve ovunque in forme e modi diversi, può essere lungo o corto, zuccherato o amaro, caldo o freddo. Questi sono i 20 paesi rappresentativi dove sperimentarlo.

In Marocco il caffè è speziato reso piccante e profumatissimo grazie ad una miscela di spezie come il cardamomo, pepe nero, cannella, chiodi di garofano e noce moscata. Spesso viene addolcito da panna e zucchero. L’Etiopia è conosciuta come la culla del caffè e vanta di un vero e proprio rituale dove i chicchi tostati sono messi in infusione in una caffettiera di argilla chiamata jebena. Si beve più volte al giorno durante delle cerimonie di circa tre ore. A Touba in Senegal il caffè è speziato e aromatizzato con pepe di Guinea o chiodi di garofano. In Filandia invece il caffè è “solido”. Il Kaffeost è una combinazione particolare in cui il caffè caldo viene versato sulla cagliata di formaggio, leipäjuusto o juustoleipä, che lo assorbe. Più che una bevanda diventa un quasi dolce!

Il caffè greco invece è un frappé fatto con caffè istantaneo, zucchero, acqua e latte, shakerato e versato sul ghiaccio. In Francia abbiamo il Café au lait, caffè e latte caldo, servito in tazza grande per inzuppare facilmente i croissant. Un cappuccino rinforzato è l’austriaco Wiener Mélange con schiuma di latte, latte caldo e spesso panna montata e cacao in polvere. In Germania invece il Pharisäer Kaffee è rinforzato veramente, caffè lungo corretto con rum, e guarnito con panna montata e cacao.

La Spagna ha ben due tipi di caffè: il Carajillo e il Café BombonIl primo è la versione spagnola del caffè corretto proposto con brandy, whisky, rum o cognac caldi e servito con chicchi di caffè e scorza di limone. Il secondo è un caffè molto dolce con latte condensato zuccherato e caramello. Il Mazagran portoghese è letteralmente una limonata al caffè ghiacciato. Nasce in Algeria e viene considerato il primo caffè freddo in assoluto. Famosissimo anche da noi è l’Irish coffee una sorta di cocktail composto da caffè caldo e zucchero, corretto con whisky irlandese e ricoperto da uno strato di panna.
In Turchia il caffè è il Türk Kahvesi. Si prepara scaldando l’acqua in pentole di ottone o rame, le cezves, e poi si mescola con lo zucchero appena prima del bollore. Ne deriva una bevanda dolce con una parte di schiuma e, prima di berlo, bisogna aspettare qualche minuto in modo da far depositare i sedimenti sul fondo della tazzina.
 
 Il Flat white australiano è un incrocio tra cappuccino e caffelatte, un espresso con sopra latte caldo e un sottile strato di schiuma.

Il cafecito, altro nome del café cubano, è un caffè già zuccherato perchè nel prepararlo al filtro della moka si aggiunge la polvere di caffè insieme allo zucchero di canna grezzo. Il caffè messicano, cafe de olla, contiene un mix chiodi di garofano, anice, cannella e zucchero di canna non raffinato chiamato piloncillo. Viene fatto bollire in una pentola di terracotta, la olla, e servito in tazze di argilla che per i locali ne esaltano il sapore. A Hong Kong bevono lo Yuanyang un mix tra caffè e tè al latte servito sia caldo che freddo.

Il Cà phê trứng, Vietman, è un caffè all’uovo che viene preparato sbattendo per 10 minuti un tuorlo con latte condensato, zucchero e caffè, una sorta del nostro zabaione.

Il Cafezinho o “piccolo caffè” è un caffè nero molto dolce che in Brasile viene offerto come un gesto di ospitalità e un invito a sedersi per godersi la bevanda insieme. 

Ultimi due caffè l’Americano, semplicissimo caffè espresso allungato con acqua calda (per noi italiani è un caffè annacquato!) ed infine l’italianissimo Espresso per il quale non serve alcuna descrizione!

 

 

 

 

 

 

fonte 2NIGHT.IT

Bonci è il vincitore de Le 50 Migliori Pizze in Viaggio in Italia il re della pizza a taglio di Roma si aggiudica il podio

Cappuccino e cornetto, brioche e latte schiumato o caffè e croissant?

Croissant, brioche e cornetto non sono sinonimi e queste sono le  ecco tutte le differenzetra storia e ingredienti, curiosità, croccantezza e forma. 

 

articolo di Chiara Cajelli via Dissapore.com

 

In alcune zone d’Italia ordiniamo la brioche, in altre il cornetto; nelle pasticcerie ci si sente più eleganti e si chiede un croissant. Questi tre termini sono quindi scelti, nella maggior parte dei casi, in base a zona e contesto e non effettivamente perché si conoscono le loro caratteristiche. Ebbene, le differenze tra croissant, brioche e cornettosono parecchie e includono sia tecnica sia fatti storici molto affascinanti.

Vi spiegheremo tutto di queste tre prelibatezze, ben diverse l’una dall’altra: ingredienti, origini, caratteristiche organolettiche, curiosità… per non sbagliare più e poter selezionare meglio ciò che si vuole degustare. Insomma, se ordinate una brioche e vi aspettate che arrivi il croissant, allora dovreste davvero leggere questo articolo!

Le origini

Per quanto riguarda il croissant, sbaglieremmo sia ad affermarne le origini francesi sia ad affermarne le origini austriache. Le due cose sono una la conseguenza dell’altra. Nella seconda metà del 1600 ci fu la Battaglia di Vienna contro l’Impero Ottomano. I Turchi decisero di far crollare la città austriaca scavando di notte le fondamenta. In quelle ore del giorno, solamente i panettieri erano svegli e proprio loro diedero l’allarme ai viennesi. La storia dedicò la vittoria ai panettieri, che pensarono ad un dolce a forma di mezzaluna: il kipferl. Austria e Francia, come sappiamo, sono legate da un indissolubile filo rosso: il kipferl fu adottato in Francia, e diventò presto croissant… chiamato anche viennoiserie.

Per le brioche dobbiamo volare in Normandia, dove nel Medioevo esisteva già una pate a brioche. L’etimologia del nome riprenderebbe il normanno “brier”, che significa impastare tra due rulli di legno.

E il cornetto? Qui la diatriba è un po’ più accesa perché le origini certe al 100% non si sapranno mai. C’è di mezzo la Repubblica di Venezia, che nel Seicento aveva importanti scambi commerciali con Vienna. I pasticcieri italiani svilupparono questa nuova versione di croissant o viennoiserie, ed eccoci qui con il cornetto.

Questione italica del “cappuccio e cornetto”

In Italia si chiama brioche al Nord e cornetto al Centro-sud: retaggio culturale che ha poco a che fare con le caratteristiche di fatto di questi dolci. Soprattutto, l’Italia sembra essere la patria indiscussa del binomio “cappuccio e cornetto/brioche” ma nessuno sa che questa usanza non è merito italiano. Ricordate i panettieri austriaci che diedero l’allarme ai viennesi nel Seicento, e quindi gli ottomani scapparono a gambe levate non aspettandosi un attacco notturno? Ecco, nella zona degli scavi abbandonarono tutto… compreso il loro caffè.

L’ufficiale Jerzy Franciszek Kulczycki lo trovò, se ne innamorò e fu lui ad aprire ufficialmente la prima caffetteria viennese. Caffetteria viennese che andò avanti per anni ad offrire i kipferl insieme al caffè, e poi i croissant. Et voilà.

 

La forma

I kipferl nascono come detto a forma di mezzaluna per ricordare la vittoria sull’Impero Ottomano, di conseguenza è a mezzaluna anche il croissant.

La brioche è completamente diversa, sembra un pandorino rovesciato con una pallina di impasto in superficie. Il cornetto invece può avere diverse forme, tra cui ovviamente quella più classica di mezzaluna arrotolata.

 

 

 

 

Ingredienti e metodo

croissant

Veniamo al dunque, alla sostanza: se su origine, date e influenze possiamo discutere, sugli ingredienti ci sono criteri ben precisi. Il croissant contiene davvero una manciata di ingredienti: farina, acqua, pochissimo zucchero, pochissimo lievito, a volte il tuorlo d’uovo ma solamente per spennellare la superficie prima di infornare le porzioni.

Brioche e cornetto hanno più cose in comune da questo punto di vista: stessi ingredienti ma usati con metodi diversi, in quanto la brioche è lievitata e il cornetto è sfogliato con il burro stratificato. Contengono entrambi farina, molto burro, molto zucchero, lievito, uova e latte. Per la brioche si usa volentieri anche lo strutto al posto del burro.

 

Sapore e croccantezza

La tipica consistenza del croissant deriva dalle basse percentuali di zucchero nell’impasto, che dona appunto molta croccantezza ma anche un sapore piuttosto neutro, che ben si adatta sia al dolce sia al salato.

Brioche e cornetto sono decisamente più saporite del croissant. La brioche è molto soffice e regala tanto sapore di burro, mentre il cornetto è dolce, meno soffice della brioche ma nemmeno croccante quanto il croissant.

 

 

 

Tassa sull’unto e le 5 tasse sul cibo più necessarie

articolo di DARIO DE MARCO via dissapore.com 

Mentre il direttore degli Uffizi di Firenze butta là la possibilità di istituire una tassa sull’unto, noi fantastichiamo su quali imposte sarebbero davvero necessarie per dissuadere i ristoratori dall’imbruttimento del cibo italiano.

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Pasta, Leggende e… Fantasia tra Teatri, Osterie e Bordelli

GLI SPAGHETTI ALLA PUTTANESCA NEI BORDELLI,
LA “PASTA ALLA NORMA” A CENA, DOPO IL TEATRO

________ breve excursus gastronomico a cura di Lidia D’Angelo 

La pasta non è un semplice piatto, la pasta è tradizione, cultura; è l’icona di un’intera nazione. 
Le origini della pasta sono molto antiche, si perdono addirittura nella notte dei tempi, era già conosciuta dalle popolazioni italiche della magna Grecia e dell’Etruria.
Non è assolutamente vero che sia stato Marco Polo a importare la pasta dalla Cina, dopo il suo rientro a Venezia, si tratta di una leggenda metropolitana messa in giro ad arte negli Stati Uniti allo scopo di nobilitare un prodotto affinché fosse considerato internazionale e non legato soltanto agli emigrati italiani.

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Serendipity 3 crea le patatine fritte più costose al mondo

Il nome di queste patatine fritte da record è “Crème de la Crème Pomme Frites”, e sono esentate a far parte del menù di Serendipity 3 al modico costo di 200 dollari, circa 170 euro.

Il costoso piatto è stato creato da Joe Calderone, Creative Chef e Fredrick Schoen-Kiewert, Corporate Executive Chef; sono partiti da ingredienti di lusso per poter offrire ai clienti un’esperienza unica sia per unto riguarda il lato del gusto che anche quello economico.

Il piatto non è costituito solo da semplici patate tagliate e poi fritte in olio bollente ma da una serie di particolarissimi ingredienti:

  • patate Chipperbeck Upstate

  • champagne Dom Perignon

  • aceto di champagne francese J. LeBlanc Ardenne

  • grasso d’oca di animali allevati in Francia 

  • sale di Guerande al tartufo

  • olio tartufato

  • pecorino Tartufello delle Crete Senesi

  • tartufo nero estivo a scaglie italiano

  • burro al tartufo

  • panna biologica A2 A2 100% prodotta da mucche Jersey nutrite con erba

  • formaggio Gruyère Truffled Swiss Raclette invecchiato di 3 mesi

  • polvere d’oro alimentare 23k

Le patatine fritte vengono poi servite su un piatto Arabesque di cristallo Baccarat, accompagnate da una salsa speciale chiamata Mornay Sauce.

patatine fritte

La preparazione consiste prima in una scottatura delle patatine nel Dom Perignon e nell’aceto francese J. LeBlanc, per dare  un tocco iniziale dolce e acidulo; poi vengono cotte tre volte nel grasso d’oca in modo da donare all’esterno una consistenza croccante. Nel frattempo viene preparata la salsa Mornay, sciogliendo in padella burro al tartufo, si aggiunge la farina per fare un roux e si monta poi la panna biologica per addensare la salsa.

Infine nell’impasto si aggiungono i cubetti di Gruyère Truffled Swiss Raclette, per dare una cremosità simile alla fonduta. Il piatto, poi, viene guarnito con scaglie di tartufo nero, scaglie di formaggio pecorino Tartufello delle Crete Senesi e la polvere d’oro alimentare 23k.

Le jeux sont fait!

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